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Autore: blackjessamine    13/11/2019    4 recensioni
"Oppure Corvonero, il vecchio e il saggio, se siete svegli e pronti di mente, ragione e sapienza qui trovan linguaggio, che si confà a simile gente".
Ragione e sapienza, sì, ma questo alla saggia Priscilla non basta: per entrare nello stormo dei Corvonero, serve anche la creatività necessaria per attraversare la vita a passo di danza.
Due personalità opposte, vite diverse, sguardi puntati agli antipodi : nemmeno il ritmo è lo stesso.
Eppure, si danza.
[Questa storia partecipa al contest "Chi ben comincia è a metà del prologo", indetto da BessieB sul forum di EFP]
Genere: Commedia, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Filius Vitious, Nuovo personaggio, Roger Davies
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Primi anni ad Hogwarts/Libri 1-4
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- Questa storia fa parte della serie 'Pas de Deux '
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Atto primo.

Luce



 

Nervi tesi.

Specchi a catturare sguardi in cerca di conferme dell’ultimo minuto.

Bisbigli soffusi, risate nervose, piccoli gesti scaramantici.

Ogni cosa aveva il proprio ritmo concitato, come se la danza fosse già cominciata – come se non fosse mai finita.

I grani di pece greca si frantumavano con uno scricchiolare rotondo e confortante sotto suole lisce di scarpette di raso, e l’adrenalina, lenta come una marea, inesorabile, potente come la vita, iniziava a scorrere nelle vene.

Sembrava quasi di poterla respirare, quella sensazione che solleticava lo stomaco e acuiva i sensi con un brivido di eccitazione spaventata e inebriante: era una sensazione annidata fra l’odore pesante e opprimente della polvere accumulata fra le cortine di velluto blu, una sensazione che inacidiva appena l’odore della lacca per i capelli e andava a smorzare il profumo dolciastro dei cosmetici.

Era una sensazione che invadeva chiunque, in quel dedalo di camerini, appianando differenze e contrasti: dal Bol'šoj all'Opéra Garnier, dal Koch Theater al Teatro Solìs, era sempre lo stesso brivido di gioia e paura e voglia di nascondersi e di gettarsi in pasto alle luci della ribalta. Poco importavano i camerini troppo piccoli del St. Paul Theater di Tamworth, poco importavano i biglietti a stento venduti nel chiosco di giornali in fondo alla piazza, e poco importava pure che, probabilmente, il pubblico in sala fosse convinto che un Balanchine fosse un berretto estivo. Non importava nemmeno che Balanchine, se avesse potuto vedere gli sforzi con cui la Compagna della Rocca martoriava il suo Jewels, si sarebbe alzato dalla sua tomba solo per prendere a ceffoni tutti in quel corpo di ballo sgangherato.

Non importava, non davvero, perché quando iniziava il conto alla rovescia per la chiamata in scena, quando il pubblico smetteva di rumoreggiare e l’orchestra prendeva posto e il direttore artistico rivolgeva il suo sguardo pieno di belle speranze e orgoglio e supplica alla sua etoile, la magia – una magia che non aveva bisogno di bacchette magiche – si compiva: non c’erano più ballerini gelosi, né contrasti, né piccole meschinità o dispetti. C’era solo un corpo di ballo che respirava come una sola entità la stessa aria elettrica.

 

*

 

Applausi, infine.

Qualche bisbiglio perplesso tra il pubblico intervallato da qualche complimento compiaciuto sussurrato a mezza voce.

Pacche sulle spalle a metà fra il compiaciuto e il consolatorio e poi, finalmente, il crollo.

Il crollo delle tensioni, della stanchezza, della certezza di aver portato a casa un altro spettacolo con la dignità ferita ma mai uccisa di una persona indigente che il capo, però, non lo china mai.

Nessuno avrebbe mai avuto l’ardire di definire l’apertura della stagione invernale del minuscolo teatro di Tamworth un successo: il balletto classico non era particolarmente apprezzato nella cittadina, e probabilmente, come avrebbero ribadito in molti in Consiglio Comunale, sarebbe stato molto meglio puntare su un classico come Lo Schiaccianoci, in vista del Natale, invece di andare a pescare queste cose pretenziose di questi coreografi moderni. E del resto, se una compagnia di Londra viaggiava fino a Tamworth per un compenso tanto modesto c'era pure da aspettarsi che non fosse poi niente di straordinario.

Nessuno avrebbe neanche avuto la cattiveria di definire il balletto portato in scena dalla Compagnia della Rocca un completo fiasco, però. Certo, lo spettacolo era cominciato con mezz’ora di ritardo, e sarebbe stato difficile definire la scenografia del tutto assente come minimale. Però Marion Kohen, la ragazza che aveva sostituito la prima ballerina dal piede rotto per una stupida scommessa che coinvolgeva troppo alcool e una scala a chiocciola, era riuscita a mascherare molto bene la sua giovane età e la sua inesperienza per un ruolo del genere.

C’erano state imprecisioni e momenti di imbarazzo quando il secondo atto era cominciato senza che le luci in sala venissero spente, ma, tutto sommato, lo spettacolo si era concluso con un dignitoso “ce la siamo cavata” collettivo, e ora i ballerini potevano concedersi un po’ di meritati festeggiamenti conditi da bonari pettegolezzi.

 

“Ho sentito che José ora fa il ballerino in televisione...”

“E lo chiami ballare, quello?”

“Be’, lo pagano per essere il sogno erotico di casalinghe in menopausa, e lo pagano comunque più di noi...”

I camerini del teatro di Tamworth erano solo due grandi stanzoni troppo riscaldati, dove i ballerini si erano ammassati con una stretta di spalle, incuranti del poco spazio e della poca riservatezza.

C’era chi si era lasciato cadere su una panca con ancora indosso i costumi di scena e chi si aggirava in mutande con la stessa naturalezza con cui si sarebbe spostato dalla propria doccia alla propria stanza.

Una ragazza dai lunghi capelli castani litigava con un diadema color smeraldo che sembrava non volerne sapere di lasciare il suo capo, mentre qualcuno fletteva con smorfie affaticate articolazioni indolenzite.

Nell’angolo più remoto, apparentemente disinteressata alle chiacchiere che prendevano corpo attorno a lei, una ragazza ancora prigioniera del suo costume rosso imprecava sottovoce, osservando la chiazza di sangue che si allargava in corrispondenza dell’unghia dell’alluce destro sulle calze chiare.

“Uh, guardate, Alhena ha un ammiratore nello Staffordshire! Perché non ci hai detto niente?”

Decidendo di ignorare per il momento il problema dell’unghia caduta, la ragazza alzò il capo, irritata: alla fine di uno spettacolo, Alhena desiderava soltanto chiudersi la porta della sua stanza dietro le spalle, spegnere la luce e dormire. Di certo non aveva voglia di affrontare il malcelato sarcasmo di Thomas Cunningham, che la guardava con occhi cattivi e feriti.

Senza nemmeno degnare Thomas di uno sguardo, Alhena lasciò che i suoi occhi venissero attratti dal proprio cappotto appeso di sbieco all’appendiabiti a muro, in mezzo a quello di tutti gli altri. Dalla tasca destra spuntava un gran mazzo di fiori dalla forma singolare: erano piccoli e dai petali sottili che parevano aprirsi in sbuffi leggeri, come pompon su un berretto invernale, ed erano di un bel blu intenso dall’aria quasi innaturale. Il bouquet era avvolto da una sottile retina di tulle color bronzo, che sembrava scintillare appena sotto la fredda luce dei neon.

Doveva esserci un errore.

Alhena non conosceva nessuno da quelle parti.

E nessuno aveva il permesso di entrare nei camerini, nemmeno per lasciare dei fiori.

Prima che lei potesse raggiungere quei fiori Thomas, allontanandosi dal viso un ciuffo di capelli ramati, estrasse da quel sottile groviglio di petali un cartoncino di un bel blu listato di bronzo, e, con voce divertita e decisamente troppo alta, lesse:

“Da parte di un vecchio amico, che forse amico non è, ma di certo è vecchio, e che sarebbe lieto di poter passeggiare con te sul viale dei ricordi. F. V.”

Thomas rise, ma non c’era traccia di divertimento nei suoi occhi quando aggiunse:

“La Regina delle Nevi si diverte, stasera! Segnatevelo sul calendario, non succede tutti i giorni che Miss Frigidezza si sciolga un po’...”

Alhena strinse con forza le dita della mano destra, come mossa da un riflesso spontaneo.

Imprecando tra sé e sé per l’impossibilità di dare libero sfogo a quell’elettricità che le scorreva tra le dita e sotto la pelle, si limitò a strappare i fiori dalle mani di Tommy, e a sibilare, arrabbiata:

“Di’ un po’, Thomas, il tuo cervello nemmeno la sfiora l’idea che non sia io quella frigida, ma che forse se una smette di venire a letto con te il problema sia tu, vero?”

Gli occhi nocciola di Thomas sembrarono sprofondare in un abisso scuro, mentre sul suo viso si alternavano risentimento e incertezza.

Alhena si pentì delle sue parole, almeno per un attimo. Era stata ingiusta, ingiusta e cattiva: il problema, tra di loro, non era stato Thomas, non all’inizio, almeno. Non quando il loro rapporto era fatto solo di chiacchiere spontanee durante le lezioni e salutari incontri a notte fonda che recavano reciproche soddisfazioni a entrambi, senza alcun impegno. Il problema era arrivato dopo, quando lui aveva iniziato ad aprirsi e a parlarle di sé come due persone che condividevano un lavoro e ogni tanto il letto non avrebbero dovuto fare. E lei sapeva che, appena svoltato l’angolo di quelle confessioni, lui si sarebbe aspettato in cambio una speculare apertura, dunque era rimasta paralizzata dalla paura. Perché Tommy era carino, e la faceva stare bene, e se avesse lasciato correre le cose si sarebbe presto trovata a dover abbassare tutte le sue difese. E quando smetti di difenderti, muori.

Alhena aveva subito troncato quella stupida storia in cui non si sarebbe mai dovuta far coinvolgere, aveva smesso di rivolgergli l’attenzione durante le prove e si era trasformata per davvero in un muro di ghiaccio. E Thomas non l’aveva presa bene, dimostrando quanto, dietro l’illusione di quei primi momenti, tra di loro le cose non avrebbero mai funzionato per davvero.

Il giovane si chinò su di lei, fissandola con occhi freddi e rabbiosi. Le posò sul fianco una mano grande e calda, stringendo più di quanto fosse lecito fare, e sibilò:

“Puoi anche tirartela quanto vuoi, con la tua aria del cazzo da ragazzina ribelle che è scappata dal collegio privato, ma sotto sotto resti comunque una zoccola”.

E Alhena, che quasi si era pentita della cattiveria nelle sue parole, lasciò che la rabbia elettrica nel suo sangue trovasse libero sfogo. Non c’era del legno liscio attorno a cui la sua mano destra potesse stringersi, e così quel grumo di risentimento, di colpa e paura – paura, sì, perché Thomas, nonostante il suo silenzio, aveva letto dentro di lei più di quanto potesse sospettare – si addensò tutto nel suo pugno, e nell’impatto doloroso, sì, ma immensamente soddisfacente tra le sue nocche e lo zigomo di Thomas.

 

*

 

Il Raven Café di solito chiudeva a mezzanotte ma, per qualche strano scherzo del destino, sembrava che quella sera il proprietario e le due giovani cameriere se ne fossero completamente dimenticati. Se ne stavano a ciondolare dietro il bancone, pulendo e ripulendo la stessa superficie e non degnando di particolare attenzione l’unica coppia ancora comodamente seduta al tavolino tondo vicino al camino – camino che, avrebbe giurato qualche cliente abituale, in trentadue anni di attività non era mai stato acceso, ma era sempre servito solamente come mensola per esporre un orribile corvo impagliato, eppure ora riluceva di fiamme allegre e crepitanti.

Se solo qualcuno dei dipendenti del Raven Café avesse sollevato lo sguardo verso quella strana coppia, avrebbe notato che si trattava a tutti gli effetti di una vista insolita: lei era una ragazza graziosa, molto giovane, il viso pallido sormontato da grandi occhi chiari che saettavano in continuazione da una parte all’altra, nervosi, incapaci di soffermarsi troppo a lungo sul suo interlocutore o su qualunque altra cosa. La sua mano destra era gonfia e tumefatta, e lei vi tamponava distrattamente un sacchetto di ghiaccio secco. Sedeva con la schiena ben dritta, posata sull’estremità della sedia, le punte dei piedi appena posate a terra, come se volesse alzarsi da un momento all’altro, e non aveva nemmeno sfiorato la tazza di tè che aveva davanti. A ben guardarla, dava l’impressione di un cucciolo selvaggio improvvisamente catturato e portato in cattività: non era propriamente spaventata, ma era guardinga e diffidente.

L’uomo di fronte a lei, invece, era quanto di più insolito si potesse immaginare in un luogo come una caffetteria di Tamworth: alto poco più che un bambino, sedeva con estrema soddisfazione su una pila di morbidi cuscini azzurri che sembravano fare a pugni con la tappezzeria e l’arredamento sui toni del pesca del Raven Cafè.

Indossava un completo da sera scuro, elegantissimo, con scarpette lucide, giacca a coda di rondine e una tuba che aveva posato con indifferenza sul pavimento sporco. L’eleganza d’insieme subiva però uno strano contrasto quando paragonata alla barba candida e lunga dell’uomo, o al mantello di velluto blu scuro che aveva posato con attenzione sullo schienale della sedia.

“Non ti chiedo di darmi subito una risposta, ma solo di pensarci”, mormorò l’uomo, contento, affondando i denti con soddisfazione in un tortino alle fragole che, in realtà, il Raven Café non aveva mai servito.

La giovane scosse la testa, risoluta:

“Non ce n’è bisogno. La ringrazio per aver pensato a me, ma non posso accettare, non... non posso”.

L’uomo continuò a masticare, gli occhi chiusi in un’espressione di estasi, e quando li riaprì, continuò a parlare come se la frase della giovane non lo avesse nemmeno sfiorato.

“È davvero un peccato che mangiate così poco, da queste parti. Siete tutte molto graziose, ma la magrezza di almeno la metà delle tue colleghe non è sana... e anche tu sei dimagrita”.

La giovane sorrise, scuotendo la testa, come divertita da qualche ricordo lontano.

“Io sto bene, non si deve preoccupare”.

“Oh, no, per questo non mi preoccupo. Mi preoccupa di più la tua felicità, anche se so di non averne il diritto... e che me ne sarei dovuto preoccupare molto prima, quando ancora potevo fare qualcosa.”

Gli occhietti scuri dell’uomo, dietro le lenti tonde dei suoi occhiali dorati, si velarono di un’antica malinconia.

“Sto bene”, ripeté la ragazza, con una nota dura e fredda nella voce. E poi, con un sospiro, aggiunse:

“È davvero gentile, ma sto bene. Ho la mia vita, un lavoro che mi piace, e sono... sì, be’, sono felice”.

L’uomo scosse appena la testa davanti a quel sorriso finto, ma rimase per un po’ in silenzio, contemplando con aria distratta le due tortine che restavano sul piattino di porcellana.

Infine, l’uomo tornò a guardare la ragazza che gli sedeva di fronte, scrutandola con attenzione e scegliendo lentamente le proprie parole:

“Sai, capisco che il tuo lavoro ti tenga molto impegnata, ma davvero, la mia richiesta, oltre che formale, ha un carattere personale: ci tengo molto a dare ai miei ragazzi la possibilità di vivere esperienze tanto diverse dalla loro quotidianità, e tu sei la prova vivente di quanto queste esperienze possano cambiare la vita... non saprei proprio a chi rivolgermi, se il tuo rifiuto fosse definitivo”.

La giovane fissò l’uomo con un sopracciglio chiaro sollevato in segno di incredulità.

“Ci sono centinaia di persone a cui potrebbe chiedere. Be’, no, forse decine, ma insomma, ci sono. Posso metterla in contatto con Mrs. Szeredàs, che le assicuro sarebbe più che all’altezza...”

“No”, la interruppe l’uomo, parlando lentamente e con un’inflessione quasi condiscendente, “no, non ci sono decine di persone adatte. Ci sono decine di persone che potrebbero insegnare il necessario, quello sì, ma sarebbe molto diverso, e tu lo sai. Non è tanto la disciplina in sé che mi interessa, quanto la possibilità di scegliere una nuova strada... e tu, mia cara, questa strada la conosci”.

Ci fu un lungo silenzio, riempito solo dallo smuoversi di ceppi nel camino.

Alla fine, la ragazza sollevò la sua mano tumefatta verso l’uomo, mormorando:

“Ho appena preso a pugni una persona solo perché mi ha detto una cosa sgradevole. Crede davvero che sia il caso di fare a me una proposta del genere?”

A queste parole, l’uomo scoppiò a ridere. Una risata fresca, un ruscello sereno.

“Oh, ma via, via, certo non auspicherei di considerare la violenza una soluzione, ma ho piena fiducia in te e nei miei ragazzi: nessuno penserà a dire cose sgradevoli, e nessuno sarà costretto ad alzare le mani, te lo prometto”.

Silenzio, di nuovo.

Quando l’uomo tornò a parlare, non c’era più traccia di risate nella sua voce, ma solo seria preoccupazione.

“Ascoltami, tu puoi anche dirmi di stare bene, ma nessuno sta davvero bene quando scappa. Io lo so che da anni ormai non hai più alcun contatto con il tuo mondo, e questo non va bene, non può andare bene...”

L’uomo allungò una mano per sfiorare quella piccola e fredda della ragazza, ma lei si ritrasse di scatto, alzandosi in piedi.

Questo è il mio mondo. Questa è la mia strada, quella che ho scelto... l’ha detto lei che è importante. Non tornerò certo indietro!”

L’uomo rimase fermo al suo posto, senza mai cercare di fermare la giovane.

“Certo che è importante, ma Alhena, una strada ha sempre un punto d’origine. E bisogna accettarlo, perché fingere che non esista non servirà a niente. Hai scelto la tua strada, ma non sei serena, perché non hai fatto pace con il tuo passato. E magari, se tornassi, solo per una volta... se ricostruissi qualche legame...”

“No, proprio no”, quasi gridò la giovane, il viso pallido chiazzato di rosso, mentre indossava con rabbia il cappotto, non curandosi della busta di ghiaccio secco che aveva fatto cadere.

“Non mi cerchi più, se lo deve fare solo per farmi una ramanzina. Non sono più una sua studentessa”.

Filius Vitious rimase fermo a guardare la ragazza sparire nella notte scura, mormorando a sé stesso, più che alla giovane, parole intrise d’amarezza:

“Non basta un diploma perché io smetta di considerarti una mia studentessa, Alhena Macnair...”

L’uomo, assicurandosi che le cameriere non lo osservassero, estrasse da una piega del mantello la sua bacchetta, e fece sparire le due tortine avanzate.

Non aveva più fame.

Con un ultimo sguardo alla strada vuota dove Alhena era scomparsa, l’uomo mormorò, di nuovo:

“Sei sempre stata una ragazza sveglia, anche se hai fatto di tutto perché noi professori credessimo il contrario. Sai dove trovarmi, quando cambierai idea”.

 

 


 

Note:

Dunque, un piccolo disclaimer prima di cominciare: la trama di questa storia è piombata nella mia testa come un fulmine a ciel sereno, costringendomi a mettere da parte tutti gli altri progetti per poter dare una forma a questo. Perché, lo sapevo, se avessi esitato, non avrei più avuto il coraggio di scrivere e addirittura pubblicato questa storia, che è chiaramente una mezza follia.

Alhena Macnair è un OC di mia invenzione, protagonista di molte mie storie. Mi rendo conto che, senza qualche conoscenza pregressa su di lei, questa storia potrebbe risultare un po' estrapolata dal nulla e poco comprensibile, ma soffermarmi di più sul contesto mi avrebbe portata a scrivere una storia molto lunga, mentre io volevo limitarmi a una one-shot (che si è trasformata in una minilong in tre atti, ma quello è un altro discorso). Vi chiedo dunque perdono, ma è una storia che ho scritto più per me che per voi, temo.

Roger Davies, questo Roger Davies (che comparirà nel prossimo capitolo, ma metto le mani avanti dando a chi di dovere i giusti crediti), deve in tutto e per tutto la sua (meravigliosa) caratterizzazione a AdhoMu, che non ringrazierò mai abbastanza per avermi concesso l’opportunità di prendere in prestito il suo personaggio. Per comprendere la storia non credo sia necessario conoscerlo, ma io vi consiglio comunque vivamente di recuperare la one-shot “Profumo di nebbia” e la mini-long “50 first Davies”, che trovate sul profilo di Adho: vi assicuro che sarà tempo impiegato benissimo.

Il fatto che Roger sia nato il tre novembre (ma guarda un po’, proprio come un certo Malandrino *ride istericamente*) è invece frutto della mia mente provata, perché sì, ho molto senso dell’umorismo.

Infine (giuro, infine): si dice che si dovrebbe scrivere di quel che si sa, no? Ecco, di balletto io (qualcosa), so. Il ballo da sala, il tango e lo spagnolo sono mondi invece a me completamente ignoti, ahimé. Ho fatto qualche ricerca, ma ammetto di non essermi sforzata troppo, quindi, nel caso avessi scritto castronerie, fatemelo notare, vi prego.

Vi lascio, il prossimo capitolo ha bisogno solo di una rilettura, dunque arriverà presto.

Ancora mille grazie a Adho che, spero, non mi odierà per la mia interpretazione del nostro amato Capitano dal sorriso di perla. 



 
   
 
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