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Autore: EllieMoon    13/11/2019    1 recensioni
( PRESENTE ANCHE SU WATTPAD CON LO STESSO TITOLO )
孤独 [ 𝒔𝒐𝒍𝒊𝒕𝒖𝒅𝒊𝒏𝒆 ] ┆« E nel frattempo che alziamo lo sguardo al cielo e i nostri occhi s'illuminano dello splendore delle stelle, lasciamo che i nostri spiriti si facciano peso del tormento che la solitudine si porta con sé e che ci conforta e rassicura sotto a questo mare di coscienza che c'invade e quasi ci getta a terra, fragili e doloranti, finché dal nostro petto non si riverserà con impeto tutto il nostro male lasciandoci vacui di ogni cosa. E nel momento in cui avvertiamo la sensazione del cuore che fa un tuffo, liberandosi finalmente di quella coltre di malvagità che gli hanno rovesciato addosso, trovo il coraggio di voltarmi; ti vedo bene, ora e ti sorrido, finalmente. Una spiacevole e disgustosa sensazione di malinconia che si aggrappa al mio stomaco. [...] Ti lascio andare, adesso, con la speranza di non provare più quel dolore. »
Genere: Fantasy, Introspettivo, Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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CAPITOLO I. FRAGILITÀ.

𝐀vevo sprecato parecchio tempo a pensare al giorno in cui sarebbe successo, ma non mi sarei mai potuta minimamente immaginare che potesse essere così tremendo, e invece il dolore aveva attanagliato il mio stomaco in una morsa prepotente e assieme...

𝐀vevo sprecato parecchio tempo a pensare al giorno in cui sarebbe successo, ma non mi sarei mai potuta minimamente immaginare che potesse essere così tremendo, e invece il dolore aveva attanagliato il mio stomaco in una morsa prepotente e assieme a lui anche l'inesorabile senso di colpa che mi ricordava maliziosamente quanto egoista ero stata. Avevo chiuso gli occhi, quando me l'avevano comunicato; all'inizio stentavo quasi a credere alla veridicità delle loro parole, così superficialmente spoglie di qualunque forma di sofferenza o dispiacere. E dietro alle mie palpebre chiuse vivevo nuovamente quei giorni di spensieratezza mai realmente avuti, sostituiti sempre da una velata agitazione che mi faceva tremare il cuore e ogni volta che il suo sguardo si posava su di me: spiacevole, amaro e disgustato, io mi facevo piccola piccola e mi stringevo nelle spalle, abbassando gli occhi acquosi e fingendo di non esistere. Avevo imparato a crearmi le situazioni piacevoli ascoltando quelle degli altri e provando ad immaginare, tramite la mia smisurata ed illimitata fantasia, come sarebbero potute essere le cose se fossero accadute anche a me nello stesso modo in cui accadeva loro. E per quel breve istante di menzogna che mi concedevo, ero felice e non mi sentivo più rinchiusa in un'esistenza sbagliata. Ero sempre rimasta nell'ombra, non ero mai stata la causa del sorriso di nessuno, o la felicità negli occhi di qualcuno. Ero sempre stata l'errore che aveva rovinato l'opera d'arte e per tentare di non pensare a quella piccola macchia scura sulla perfetta e sincronizzata tela di colori, tentavano di ignorarla, fingendo che non esistesse. Ma io esistevo, e ogni volta che loro si ricordavano di me, un'arrogante sensazione di malessere mi invadeva e mi faceva sentire così inadatta. Quell'inadeguatezza e la percezione sbagliata, incapace e inutile che avevo di me mi aveva accompagnata per gran parte della mia vita. 

«Mi dispiace disturbarti, ma dovresti venire qui al più presto. La tua presenza, anche se devo ammettere che non fa piacere a nessuno, però è necessaria. Ti aspettiamo.»

Chiusi la bocca e per un po' rimasi con le bacchette a mezz'aria, per poi con una lentezza disarmante lasciarle cadere nella ciotola di ramen che avevo davanti. Avrei tanto voluto dimostrare la mia più sincera disapprovazione e indignazione, ma sul mio volto continuò a trattenersi quell'irritante espressione di apatia che da sempre mi accompagnava. Raramente manifestavo le emozioni attraverso le espressioni facciali; il mio viso era sempre e costantemente velato da un'indifferenza urtante e la totale mancanza di emozioni che riuscivo a trasmettere agli altri era in reale contrapposizione con ciò che in realtà provavo dentro: un mare in tempesta di emozioni, un groviglio di sensazioni e un cielo infinito di preoccupazioni. Ma non avevo mai fatto niente per mostrare queste sensazioni, detestavo quando le persone riuscivano a notare il mio tormento, perché ero consapevole del fatto che nessuno gli avrebbe mai dato la giusta importanza, storpiando le mie parole e i miei pensieri a loro piacimento. 

Sospirai, sentire quella registrazione dal telefono da parte di mia zia, mi aveva causato una tremenda angoscia che la fame era passata ancora prima che iniziassi a mangiare. Mi alzai dalla sedia e uscì dalla piccola cucina e dopo pochi passi arrivai al salotto del mio piccolo appartamento, mi accostai davanti alla finestra che mostrava una valle di palazzi e il cielo ricoperto di nuvole aveva creato per l'intero pomeriggio un velo malinconico che si era abbattuto sulla città, portando con sé un gelo che ti penetrava fin dentro le ossa e la pioggia che impetuosa e rabbiosa si scatenava sul mondo impaziente di riversare sul creato tutta la sua ira. 
Non sapendo bene che cosa fare e con la testa che faceva male, mi sdraiai sul divano del mio piccolo salotto e rimasi lì, avvolta nel buio della stanza e dando le spalle al mondo mi sentivo incredibilmente fragile. La fragilità era sempre stata qualcosa che non potevo permettermi di provare. Ma in quel momento, inaspettatamente a quando credevo, la mia interiorità era un qualcosa di molto simile ad una piccola e fragile foglia che d'inverno tenta di combattere per rimanere attaccata al ramo dell'albero; diventa difficile però continuare a lottare per rimanere aggrappata all'unica fonte di vita che ti rimane, quando essa sta morendo. E così, in quel momento così turbolento e inaspettato, mi sentivo l'unica foglia dell'albero morente ancora rimasta in vita. 

Fu lo squillo del telefono a svegliarmi dal leggero torpore in cui mi ero assopita, addentrandosi sempre più sgradevolmente nel mio cervello portandomi ad assumere un'espressione sdegnata. Mi passai rapidamente una mano sul viso andando infine a portare indietro i capelli in un gesto distratto, dopodiché spostai lo sguardo sul mobile sopra al quale era stato poggiato il telefono fisso e con un'estrema fiacchezza che aveva un che di pigrizia e svogliatezza, mi alzai dal divano e mi avvicinai al mobile posto proprio dietro alla parete leggermente opaca che divideva il salotto dalla cucina e mi soffermai per qualche istante ad osservare il numero che appariva sul telefono. Dopo qualche altro minuto di esitazione, decisi di alzare la cornetta e con accidia portarlo all'orecchio, nel frattempo che quasi senza rendermene conto trattenevo il respiro. 

«Pronto?» Dissi provando a risultare il più convincente e tranquilla possibile.

«Dārin*?[1] Come ti senti?» 

La voce tenera e preoccupata, ma pur sempre dolce e premurosa, che arrivò dall'altra parte della cornetta mi tranquillizzò abbastanza; abbassai le spalle, rilassando i muscoli e cambiando espressione. Adesso ero un pochino più rassicurata sapendo di avere finalmente l'appoggio e il conforto di qualcuno.

«Sto bene, Hinami. Là come vanno le cose?» 

«Oh! Be' il Giappone è sempre così monotono

La sentii sbuffare e quasi mi fece sorridere. Hinami era la sorella minore di mia zia, ma nonostante il grado di parentela fra le due, i loro atteggiamenti erano assolutamente opposti. Hinami era di qualche anno più grande di me ed era stata l'unica, fin da quando ci siamo conosciute, che ha mostrato un po' di interesse nei miei confronti. Sapeva bene che cosa significava sopravvivere in una famiglia come quella e quindi ogni volta che ne aveva anche la più minuscola delle possibilità, cercava di aiutarmi e darmi consigli. Era stata proprio lei che era riuscita a trovarmi l'appartamento a New York e ad aiutarmi con gli affari burocratici riguardanti il trasloco e il mio nuovo lavoro. Non avrei mai smesso di esserle immensamente grata per tutto quello che in quegli anni ha fatto per me, benché fossero anni che non ci sentissimo lei dimostrò di essere preoccupata per me. 

«Quindi che cos'hai intenzione di fare? Torni?»

A quella domanda non sapevo bene che cosa rispondere, sapevo che la risposta più appropriata era , ma avrei tanto voluto inventare una qualunque scusa plausibile per poter dire di no. Ma davvero poteva esistere una scusa accettabile per poter sottrarsi ad una situazione come quella? Innegabilmente no, non esisteva. Non era neanche lontanamente ammissibile una cosa del genere.

«Sì. Avevo già un biglietto pronto in ogni caso. Posso informarmi di un eventuale cambio di data e vi raggiungo. Non garantisco di poter arrivare in tempo, dì alla zia per favore.»

«Certamente- non ti devi preoccupare di questo. Tu però raggiungici, okay?»

«Okay.»

Dopo aver chiacchierato ancora un po', ci salutammo e posai la cornetta. Lasciai scivolare lentamente la mano dall'oggetto, finché un'inconsueta sensazione di tristezza e malinconia presero inaspettatamente il sopravvento: e così, mentre tentavo invano di ricacciare le lacrime indietro, la gola iniziava a bruciare e il respiro a mancare. Non ero più capace di trattenere le lacrime e così una ad una, con una lentezza disarmante, scesero andando a marcare le mie guance leggermente arrossate. Non emisi nessun suono, nessun singhiozzo o gemito. Semplicemente lasciai che le lacrime solcassero il mio volto, dopodiché asciugai l'ultima prima che potesse raggiungere le altre che erano andate ad infrangersi contro il pavimento lucido, o sulla manica della felpa, e tornai a guardare avanti a me prendendo finalmente una decisione. 

 

𝖠𝗌𝖺𝗄𝗎𝗌𝖺 (𝖳𝗈𝗄𝗒𝗈, 𝖦𝗂𝖺𝗉𝗉𝗈𝗇𝖾), 𝖦𝖾𝗇𝗇𝖺𝗂𝗈 𝟤𝟢𝟤𝟢

 

Scesi dal taxi che dall'aeroporto Haneda* [2] mi aveva condotto fino ad Asakusa. Casa mia. Avevo sempre provato un profondo odio verso la mia casa, sebbene il posto in cui si trovasse fosse così suggestivo e portava con sé un pezzo di storia importante. L'aria gelida dell'inverno mi colpì in pieno volto, abbottonai i primi bottoni del cappotto grigio che indossavo e sistemai accuratamente la sciarpa attorno al collo; non tanto per una questione di freddo, quanto più per risultare un minimo più presentabile ed ordinata al mio arrivo a casa. Erano appena le due del pomeriggio e sebbene sapessi di essere in terribile ritardo, mi incamminai comunque con una tranquillità e una placidità smisurate mi incamminai per le affollate strade di Asakusa. Dovevo essere sincera, dopo quei tre anni trascorsi in America, Tokyo mi era mancata terribilmente: con tutte le sue rigide regole e la sua cultura, le sue tradizioni. Suggestiva e bellissima, Tokyo era una delle città più conforme alla tradizione e ordinaria che conoscessi. Una delle cose che mi mancavano più di quella caotica città era probabilmente la monotonia, che Hinami aveva iniziato a trovare intollerabile, ma che a me mancava terribilmente. 

Arrivai, dopo qualche minuto, davanti all'enorme giardino di casa notando con una profonda infelicità i parenti inginocchiati intenti a celebrare l'Otsuya* [3]. Il mio sguardo, successivamente, passò dai parenti addolorati alla veglia di mio padre, alla figura austera e intimidatoria di mia zia; indossava una giacca completamente nera, sotto una camicetta grigia scura abbinata ad un tailleur anch'esso nero. I capelli mori e corti erano pettinati in maniera ordinata, mentre il suo volto non era celato da nessuna nota di trucco. 

«Salve zia.»

«Appena in tempo. Vatti a cambiare immediatamente e accoccanti quei capelli in maniera decente, aspettiamo te per la cerimonia.»

Annuii e con un profondo sospiro mi avvicinai a quella casa che per tutti quegli anni avevo detestato ma che adesso, circondata da una profonda e malinconia aura rigida e pesante, assomigliava più ad un triste ricordo d'infanzia che doveva essere lasciato andare.

 

 

 

 

[1] = ダーリン ( Dārin ) significa tesoro. 

[2] = per Haneda ci si riferisce all'Aeroporto Internazionale di Tokyo, ( 東京国際空港, Tōkyō Kokusai Kūkō ), che si trova nella zona di Ōta ed è uno degli aeroporti principali della zona metropolitana di Tokyo. È conosciuto solitamente come Aeroporto Haneda ( 羽田空港, Haneda Kūkō ) per differenziarlo dall'aeroporto Internazionale di Narita, nella prefettura di Chiba. È uno degli aeroporti più affollati al mondo. 

[3] = Otsuya ( il risveglio ); è la veglia funebre giapponese. 

 

 

Ecco il primo dei tre capitoli.
Spero che uhm vi piaccia.
Se è  presente qualche errore vi prego di farmelo notare cortesemente.

𝒀𝒖𝒌𝒊𝒏𝒆.

 

 

 

 

   
 
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