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Autore: _Sherazade_    15/11/2019    0 recensioni
"Era la prima volta che uccidevo un uomo...".
Eliana conduce una vita serena, con i suoi progetti, nel suo piccolo villaggio assieme all'amata nonna Cassandra.
Ma tutto cambierà in quel giorno di metà Maggio dove verrà per le tracciato un nuovo cammino.
Genere: Fantasy, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Il cammino Tracciato

Era la prima volta che uccidevo un uomo, e non sarebbe stata l'ultima.
Avevo solo tredici anni e vivevo una vita spensierata nel villaggio di Astrea, nella foresta Meerania assieme a mia nonna Cassandra. I miei genitori erano morti quando ero ancora troppo piccola per potermeli ricordare, ma lei si prese cura di me e mi insegnò tutti i segreti delle erbe.
Sognavo di diventare sacerdotessa e guaritrice fedele alla dea Meera, la protettrice della foresta, proprio come lei, e invece... come potevo sapere che tutti quei bei sogni erano così lontani dalla strada che avrei poi intrapreso?

 
Era una mattina di metà Maggio, l'aria era fresca, ma ma cominciavamo già a sentire quel lieve e piacevole tepore che sa già d'estate. Io e Amelia, la mia migliore amica, eravamo in giro per i boschi in cerca di nuove erbe per mia nonna; all'apparenza era una giornata come tante altre.
Eravamo lontane dal villaggio, ma non abbastanza da non sentire il suono del corno di Leonte: qualcosa non andava.

Il nostro era un villaggio pacifico, ma già in passato era stato travolto dalla guerra e per questo avevamo preso le nostre precauzioni. Oltre ad armarci, avevamo predisposto delle torri di monitoraggio per segnalare l'arrivo di eventuali intrusioni. Vennero creati corni diversi anche per poter sapere da che parte il nemico stesse per fare irruzione in città. Leonte era di guardia alla torre di Nord-Est.
Mia nonna mi aveva messo in guardia in caso di situazioni come queste: «Se mai dovessi sentire il suono del corno, piccola Eliana, rifugiati nel tempio nascosto sotto alla cascata. Meera ti proteggerà!». Quando le dissi che non l'avrei mai abbandonata, lei mi fece giurare che avrei fatto di tutto per salvarmi, senza guardare indietro. Io non volevo, ma insistette talmente tanto che lo feci.
Non era semplicemente il volere della nonna, questa era una delle leggi del villaggio. Era un modo per tutelare la popolazione: il tempio era noto solo a noi abitanti, era un rifugio sacro e ben protetto. Se uno di noi fosse tornato al villaggio per salvare qualcuno, e poi fosse stato seguito, il nascondiglio sarebbe stato esposto ai nemici, e per tutti sarebbe stata una condanna a morte.

Amelia conosceva bene le leggi, era figlia del capo villaggio, ma non voleva abbandonare la sua famiglia, soprattutto sua madre che era quasi a termine della gravidanza; lei non poteva abbandonarli e io non potevo abbandonare lei.

«Perdonami, nonna», pensai mentre cominciavo a correre a perdifiato lungo il bosco fino ad arrivare alle porte del nostro villaggio. Sapevo di sbagliare, ma se mi fossi disinteressata della mia amica, come avrei mai potuto guardarmi ancora allo specchio sapendo di aver tradito chi amavo?

Lo spettacolo che ci trovammo di fronte fu orribile: molte abitazioni erano in fiamme, e vedemmo tanti dei nostri amici che giacevano a terra esanimi, nella pozza del loro stesso sangue. Ad alcuni erano stati addirittura mozzati degli arti; non riuscii a trattenere un conato di vomito, crollando sulle mie stesse gambe, la scena era eccessiva per me. Amelia scoppiò a piangere.
«Andiamocene, Amelia!», la implorai in lacrime mentre cercavo di riprendermi e tornare il più lucida possibile. «Possiamo ancora raggiungere il tempio senza farci vedere», ma ad Amelia parve di vedere la sagoma di sua madre, e la inseguì.

La capivo, come lei voleva ritrovare e salvare i suoi cari, io volevo fare altrettanto con mia nonna, che era l'unica famiglia che avessi mai conosciuto. Una parte di me voleva cercarla, ma volevo anche correre al tempio, speravo di trovarla laggiù assieme ad altri... ma ero responsabile di Amelia, o almeno, così mi sentivo.
Nonostante una parte di me mi spingesse ad andarmene, l'altra aveva già preso per me la decisione, e il mio corpo la stava già seguendo, ma era troppo tardi.
Un omone alto quasi due metri aveva catturato Amelia, le strinse il collo con una sola mano, era davvero enorme, facendola soffocare quasi all'istante. L'uomo rise, e scaraventò via il corpicino esanime della mia amica, e io mi sentii le gambe cedere. Non emisi un fiato.
Lui mi guardò e mi raggiunse con poche falcate, io non riuscivo a muovermi, sentivo come se il terreno mi avesse ancorata a sé indissolubilmente. Mi sollevò, proprio come aveva fatto con Amelia: ero spacciata!
Se non avessi fatto nulla sarei morta, e fu allora che qualcosa in me si risvegliò. Cominciai a dimenarmi, affondai prima le unghie nella sua mano cercando di fargli allentare la presa, poi cercai di morderlo, ma questo lo fece solo infuriare e mi lanciò con violenza contro la parete della casa lì vicina.
Rideva e mi guardava intanto che cercavo di rialzarmi con enorme fatica, mentre guardavo nervosamente in giro per trovare qualcosa con cui difendermi, e allora ebbi come un'illuminazione e ripensai agli insegnamenti della nonna.
Mi toccai la tasca della casacca e sentii che gli aghi erano ancora lì: gli aghi di Ginaglia erano mortalmente velenosi. Se adoperati correttamente potevano essere usati anche per curare gravi infezioni, la nonna me lo aveva spiegato, ma bastava sfiorare la cute con essi e questa veniva bruciata. Il veleno penetrava i tessuti, raggiungeva le vene e da lì si propagava in tutto il corpo, provocando, tra le altre cose, asfissia. Per raccogliere le erbe usavo dei guanti pesanti in pelle, non potevo rischiare di farmi del male, e li avevo ancora indosso.
L'uomo era davanti a me, e avevo solo due opzioni: morire o attaccare per difendermi.
L'uomo mi afferrò, e io avevo già pronto in mano l'ago. Non pensai, agii e basta, conficcandogli l'ago sulla mano.
L'uomo mi lasciò andare, facendomi cadere a terra, mentre lui si rotolava piangendo e lagnandosi per il dolore. Lo guardai mentre moriva, bruciato e lentamente soffocato, patendo le pene dell'inferno.
Un altro di quei banditi mi vide e mi corse incontro brandendo un'ascia bipenne, io ero a pezzi però. Quando l'uomo mi aveva scaraventata contro il muro, doveva avermi fratturato qualcosa. Avevo un altro ago da poter usare, ma non ero certa di poter avere i riflessi per poter agire prima che quello mi uccidesse.
Ero quasi rassegnata alla mia fine quando sbucò da un angolo un altro uomo che lanciò la sua lancia e trafisse il bandito. Mi si avvicinò, era un bell'uomo con una barba curata, sulla trentina, lo sguardo gentile. Aveva un che di familiare, ma ero certa di non averlo mai visto.
«Sei ferita?» mi chiese con tono dolce.
«Sai se si è salvato qualcuno del mio villaggio?». Lui mi fissò con sguardo triste e sussurrò un semplice “Mi dispiace”.
Ero rimasta sola, non avevo più nessuno a meno che...
«Nessuno ha raggiunto il tempio, loro hanno bloccato tutte le uscite con il loro attacco» lo guardai perplessa. Come faceva a sapere del tempio?
«Sei uguale a tua madre, lo sai?».
«Conoscevi mia madre?» lui annuì.
«Mi chiamo Alfonso. Sono tuo zio». Fu questione di un attimo e ricordai che la nonna mi aveva parlato di lui: aveva lasciato il villaggio per unirsi al grande esercito del regno.
«Vieni con me, non puoi restare. Tua nonna non ti vorrebbe qui tutta sola.» Cominciai a piangere silenziosamente.
«Andiamo» disse lui con voce flebile. Mi aiutò a rialzarmi e mi fece salire a cavallo.

I suoi uomini stavano già domando le fiamme, e preparando una pira per bruciare i corpi degli abitanti, così come voleva la tradizione.

Ci accampammo lì vicino e l'indomani scavammo una fossa comune dove gettare i corpi dei banditi. Lautano, il Dio dell'oltretomba, avrebbe guidato i morti del nostro villaggio nel regno Luminoso, mentre i banditi, che non avevano nemmeno ricevuto il giusto commiato dal mondo terreno, sarebbero stati scaraventati nel regno Oscuro, dove la bestia Glok avrebbe dilaniato le loro carni in eterno per tutti i crimini commessi.


Alfonso mi portò con sé nella capitale del regno, m'istruì, mi diede una casa e mi insegnò a combattere.
Entrai nel corpo d'élite dell'esercito, e grazie alle mie conoscenze, venne creato un nuovo squadrone esperto nell'uso dei veleni.
A volte mi perdevo via a chiedermi che tipo di vita avrei condotto se la guerra non avesse mai bussato alla mia porta, ma quando vedevo cosa ero in grado di fare, la tristezza e la nostalgia per un qualcosa mai avuto e mai conosciuto, sparivano inghiottite dai ricordi di ciò che ero diventata.



 


L'angolo di Shera♥

Dopo secoli eccoci di nuovo qui.

Questo racconto nasce da una mia sfida. Avete presente il Writober? Io ero giunta a sfida già iniziata, e volevo riprendere a scrivere, così ho cominciato una 31 day Writing Challenge, cominciata a metà Ottobre in cui scrivevo di tutto, l'importante era scrivere qualcosa. Il tutto è racchiuso nel mio blog. Lo scorso anno avevo comprato un libro con spunti per scrivere, calcolate che alcune tracce richiedono il libro preferito, o scrivere una lettera rivolta a noi stessi dell'infanzia o dell'età della pensione...  e questo racconto nasce proprio da una di quelle più stimolanti:  Scrivi una scena che comincia con queste parole: “Era la prima volta che uccidevo un uomo”.


Il vero scopo sarebbe quello di riprendere a scrivere in pianta stabile, ma dubito che riprenderò mai quei ritmi ma ci provo. L'idea era quella di farlo per un anno intero, ma essendo stata così tanto a digiuno, già un mese è una bella prova. Da qui, una volta superata, proverò lo scoglio dei 3 mesi, e da lì si arriverà ai 6, fino ad arrivare a quella che vuole essere la vera sfida.

Spero che vi sia piaciuta, se avete commenti e critiche costruttive, siete i benvenuti.
Grazie e a presto.


Shera

  
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