Il
Bambino dai Capelli Color delle Stelle
Incomincia,
piccolo bambino: a chi non sorrisero i genitori,
un
dio non concede la sua mensa, né una dea lo
accoglie nel letto d'amore.
Sindy
si svegliò nel mezzo della notte, come ormai accadeva
spesso: la crescita
l’aveva forse resa più vigile e sensibile ai
rumori, rendendole di conseguenza
più difficile prendere nuovamente sonno una volta sveglia.
Si
rigirò sul materasso una dozzina di volte prima di
spalancare definitivamente
gli occhi, ormai rassegnata a passare un’altra notte
– o quel che ne rimaneva –
insonne.
Sindy
odiava restare desta nell’oscurità: non vedere
cosa potesse esserci di fronte a
lei la destabilizzava e, inoltre, le tenebre portavano sempre con
sé rumori terribili.
In
particolare, la bambina sentiva delle voci uggiolanti provenire da
un’altra
stanza dell’edificio: il suo udito riusciva a cogliere per lo
più lamenti, come
quando si cade e ci si ferisce gravemente, applicarsi in un piagnisteo
interminabile.
Durante
la fase di plenilunio, il pianto solitamente culminava in una voce
maschile,
anch’essa piangente, per poi accogliere la quiete.
Quella
notte, la bambina era irrequieta.
Si
tirò a sedere, sgattaiolando alla finestra dietro di
sé: scostò lievemente le
tende e un niveo bagliore accecante invase la stanza.
Sindy
osservò ammaliata i corpi celesti fluttuanti nel cielo,
disperdendosi tra quei barlumi
lucenti, domandandosi se si stesse meglio che nel suo piccolo mondo
fatto di
fame.
Poi
una mano le sfiorò una spalla, facendola sobbalzare nel
silenzio notturno.
«Lo
hai sentito anche tu?» le chiese Vincent, in piedi dinanzi a
lei.
Sindy
fece una smorfia, tentando di far rallentare i battiti del cuore.
«Quella
voce» puntualizzò il bambino.
Poi
la tirò per un braccio, trascinandola con sé
verso lo stretto corridoio al di
là della stanza.
Vincent
aveva undici anni ed era un bambino sveglio e particolarmente attraente.
I
capelli color zenzero gli ricadevano arruffati sul volto gonfio e
colorito; gli
occhi acquamarina parevano ipnotizzarla ogni volta che incrociavano i
propri.
Il
bambino sembrava dirigersi a passo svelto verso quella che credevano
fosse la stanza
del maestro.
All’interno
pareva non esserci nessuno.
Sindy
schiuse la bocca per dire qualcosa, ma Vincent le mise un dito sulle
labbra,
intimandole di tacere.
La
sua essenza inebriò la bambina: non sapeva dirne il motivo,
ma, nonostante le condizioni
in cui vivevano gli ospiti dell’orfanotrofio, Vincent
profumava sempre di
pulito.
Lo
vide chinarsi leggermente per osservare attraverso la serratura, quando
un’ombra alta e grossa comparve all’improvviso
dietro di loro, quasi
completamente inghiottita dalle tenebre.
«Pensavi
di vederci qualcosa, fanciullo?» lo canzonò
l’omone, sporgendosi leggermente in
avanti.
Sindy
non poteva vederlo chiaramente, ma riconobbe la sua voce, la stessa che
aveva
sentito ululare qualche minuto prima.
Intuì
immediatamente che anche Vincent l’aveva riconosciuta.
Dopotutto, non farlo non
era semplicemente possibile.
«Mi
scusi, io…» biascicò il giovane, con
voce tremante.
«Devi
chiamarmi maestro!» gridò
l’uomo, afferrando entrambi per le orecchie.
Sindy
pensò che, se avesse continuato a gridare, sicuramente lo
avrebbero sentito anche
i bambini nell’altra stanza.
Le
sarebbe dispiaciuto se, a causa sua, anche Den e Julian si fossero
svegliati.
Sapeva che i gemelli avevano il sonno leggero e faticavano
tremendamente ad
addormentarsi.
L’uomo
li trascinò fino a una squallida stanza, simile alla cella
di una prigione.
La
piccola la conosceva bene: ci veniva rinchiusa spesso e soffriva
terribilmente di
claustrofobia.
Nonostante
ci fosse una finestra, non era possibile aprirla a causa delle sbarre
di ferro che
la bloccavano.
Il
tempo che si passava all’interno variava a seconda della
punizione: l’idea di tornarci
la spaventava a morte, tanto che cominciò a singhiozzare al
pensiero di rimanere
senza cibo e acqua per un tempo indeterminato.
L’uomo
li sbatté all’interno, per poi chinarsi di fronte
alla bambina.
Sindy
si asciugò velocemente le lacrime.
«Oh,
tesoro».
Le
passò una mano sul volto, in un gesto vagamente simile ad
una carezza.
C’era
qualcosa in lui che le trasmetteva una sensazione di sudiciume e
sporcizia.
«Non
potrei mai farti del male, mai! Tu lo sai questo, vero?».
L’uomo
pareva provare genuina pietà per la bambina; Sindy poteva
scorgere nella sua
espressione una parvenza di sincerità.
Poi
si tirò in piedi, con un lieve sorriso dipinto sulle labbra,
serrando la porta
a chiave dietro di sé.
La
piccola si lasciò cadere sul pavimento gelido,
già pregustando il sapore amaro
dei giorni a venire.
Si
accovacciò, crollando in un sonno profondo, come non le
sarebbe più capitato
per molto tempo.
˷
Sindy
si svegliò qualche ora più tardi, probabilmente a
causa dalla luce che filtrava
da quella finestra soffocante.
Vincent
era già sveglio e osservava il paesaggio al di là
del vetro sporco.
Il
pregio di quella fenditura era che, a differenza del resto
dell’edificio, si
poteva ammirare quello scenario segreto, celato a chi non frequentava
la
stanza.
Si
trattava del cortile posteriore all’orfanotrofio, il cui
accesso era
severamente vietato a tutti gli ospiti, eccezion fatta, chiaramente,
per i
dipendenti.
«C’è
un fantasma lì sotto» disse Sindy, osservando il
dorso del coetaneo.
Il
bambino si volse di scatto, fissandola sgomento.
La
piccola si avvicinò alla finestra a passo lento, sporgendosi
quanto poteva, cominciando
a raccontare l’episodio che aveva menzionato.
Si
trattava di quella volta in cui, per errore, Den era stato rinchiuso
nella
stanza con lei.
Non
aveva fatto nulla che non dovesse fare; al contrario, aveva imparato in
fretta
come funzionavano le cose.
Era
solamente stato sfortunato, perché si era trovato nel mezzo
di una rissa.
«Sai
come sono i ragazzi più grandi»
sussurrò Sindy, «non si perdono occasione per
maltrattarci».
Den
era poco più piccolo di lei, eppure era un bambino fragile,
indifeso e incapace
di reagire.
Al
posto suo, lo faceva sempre suo fratello, con l’intenzione di
difenderlo.
«Voleva
vedere che cosa ci fosse al di là del vetro»
continuò la bambina, con lo
sguardo assorto nel panorama di alberi secchi.
L’autunno
stava per accogliere l’inverno gelido di un altro anno della
sua vita.
«Ma
non ci arrivava. Così lo presi in braccio per poterglielo
mostrare».
Sindy
non si volse per controllare se Vincent la stesse realmente ascoltando
oppure
no.
Se
lo conosceva bene, in quel momento doveva avere la bocca socchiusa,
attendendo
con trepidazione il finale di quella breve storia.
«A
un certo punto mi scivolò dalle braccia, gridando di aver
visto uno spirito tra
gli alberi» terminò la piccola.
Ricordava
bene quel giorno estivo di qualche mese prima, quando la vegetazione
era ancora
verde e rigogliosa e il calore del sole che filtrava dai vetri era
intollerabile,
in quella stanza serrata.
«E
poi?».
Vincent
interruppe il susseguirsi dei suoi pensieri da bambina di quasi dieci
anni, già
lugubri e intensi nella memoria.
«E
poi gli dissi di stare attento, ma non ai fantasmi»
proseguì Sindy, voltandosi.
«A
lui» dissero, quasi all’unisono.
Non
gli raccontò nient’altro; non gli disse che Den
era rimasto profondamente turbato
da quella visione, tanto da cominciare a soffrire d’insonnia.
La
luce della luna illuminava chiaramente il suo corpo tremante, seppure
il calore
estivo avvolgesse entrambi anche nelle tenebre della notte.
Così,
quella sera Sindy decise di appoggiarsi al muro umido, cullandolo tra
le
proprie braccia, cantandogli una ninna nanna.
Non
gli disse che era la stessa che Vincent le cantava quando era
più piccola, per
farla addormentare più facilmente.
Per
qualche strano motivo l’aveva impressa nella memoria.
Lasciò
scivolare le dita tra i capelli morbidi e ondulati, fino a quando il
piccolo
Den non si addormentò.
Non
smise di cantare nemmeno quando sentì il suo respiro
regolarizzarsi e il
corpicino farsi più pesante sulle ginocchia.
«Slaap
kindje slaap, je moeder is een aap…».
Entrambi non mangiavano da quasi tre giorni.
«Je vader is een baviaan, kindje
jij moet slapen gaan…¹».
Sindy
continuò a cantare fino a quando le palpebre non cedettero
alla stanchezza di
una bambina affamata e abbandonata alla vita.
˷
«Io
me ne vado».
Sindy
ruppe il silenzio che si era creato quella notte, l’ennesima
troppo dolorosa
per riuscire a prendere sonno.
Il
sole autunnale aveva scaldato la stanza e l’aria cominciava a
farsi greve.
Lo
stomaco dei due fanciulli brontolava incessantemente: Sindy ebbe quasi
paura
che Vincent potesse scagliarsi contro di lei e staccarle la carne a
morsi.
Il
suo immaginario infantile le intimava di mantenere i sensi
all’erta.
Il
buio era totale, ma Sindy era sicura che il bambino la stesse
ascoltando e forse
aveva anche gli occhi dischiusi, come lei.
Lo
sguardo spalancato su un mondo celato dalle tenebre.
«Me
ne andrò appena ci libererà»
continuò la piccola, senza aspettarsi una risposta.
Lui
non chiese spiegazioni e lei non si dilungò.
Restarono
in silenzio per un tempo infinito, fino a quando alla bambina non
sembrò
mancare l’aria, fino a quando non sentì il respiro
regolare di Vincent
insinuarsi nell’oscurità.
Per
lo meno da qui non si sentono le voci,
pensò.
Quando
i primi raggi del sole mattutino filtrarono nella stanza, Sindy aveva
ancora
gli occhi socchiusi.
Non
aveva dormito, né ne sentiva il bisogno.
Vincent
si stiracchiò, muovendo qualche passo verso la finestra.
Le
membra gli parevano così indolenzite da sembrare quasi del
tutto inesistenti.
La
bambina ancora non poteva saperlo, ma i suoi occhietti aspri e immaturi
avevano
captato qualcosa dal vetro sudicio.
Qualcuno
se n’era accorto.
Era
ancora accovacciato alla finestra quando l’omone si
presentò alla porta e li
trascinò di fretta verso gli altri bambini.
Sindy
e Vincent si ritrovarono nuovamente in compagnia, ma il bambino non
pareva
sollevato.
«Vengo
anch’io con te» disse in tono severo quando la
piccola gli si avvicinò
abbastanza da poterlo udire.
Se
l’avesse osservata in volto, Vincent avrebbe notato la sua
espressione
perplessa.
Non
sapevano come, non sapevano quando, ma erano entrambi consapevoli di
dover
fuggire.
Era
come se la morte li avesse tacitamente avvisati della propria visita
imminente,
tentando di salvare loro la vita.
Inaspettatamente,
Vincent le presentò il suo piano di fuga: lo aveva
progettato quella mattina
stessa, nel tentativo di scacciare dalla mente quelle immagini, che si
protraevano nella memoria come un ricordo recente.
«Questa
sera ti metterai a disegnare» cominciò la sua
flebile voce infantile, «poi lo
distrarrai e correrai via appena se ne andrà».
Solo
allora il bambino alzò lo sguardo. Le loro iridi si
mescolarono insieme, per un
solo, ultimo istante.
«Lui
mi interrompe sempre quando disegno» commentò
Sindy.
Dopo
una lunga pausa, Vincent riprese a parlare.
«La
notte del giorno dopo ti lascerò entrare, prenderai
ciò che ti appartiene e ce
ne andremo» terminò.
Solo
molti anni dopo, Sindy realizzò che il progetto non avrebbe
mai potuto
funzionare.
Fuggire
separatamente poteva essere una proposta grandiosa, ma le condizioni
non la
resero nient’altro che una lenta condanna a morte.
Sindy
riuscì a inoltrarsi al di là dell’ampia
cancellata, scappò nella foresta, ma
qualcosa andò storto.
Non
tornò mai sui propri passi, nemmeno per portare via i
disegni e le fotografie.
Il
maestro, l’uomo con la cicatrice, riuscì a
raggiungerla fino al bosco.
Sindy
non comprese mai che cosa avesse spinto Vincent a non cogliere
quell’occasione
per abbandonare per sempre quel luogo: per qualche motivo, aveva
l’impressione
che lui si fosse sacrificato per lei, per concederle la
libertà.
Quella
sera Sindy si accovacciò accanto a Den e Julian,
osservandoli dormire
beatamente stretti l’uno all’altro.
Una
tale visione era talmente rara, che la bambina quasi si commosse.
Poi
si avvicinò a Vincent, il bambino dai capelli del colore
delle stelle, per salutarlo
prima della sua partenza.
«Pensi
ci rincontreremo davvero?» mormorò lui, gli occhi
lucenti fissi nei suoi.
Forse,
in fondo, conosceva già la verità.
Lei
annuì debolmente: «Certamente».
Il
suo tono non era affatto convinto, ma le loro mani si sfiorarono per un
istante, in un ultimo, infinito, augurio di speranza.
«Promesso?»
«Promesso».
¹
Ninna nanna tradizionale olandese, il cui passaggio menzionato nel
testo si
potrebbe tradurre più o meno così:
«Dormi,
bimbo, dormi
tua
madre è una scimmia
tuo
padre è un babbuino
piccolo,
devi andare a nanna».