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Autore: Sabriel Schermann    18/11/2019    17 recensioni
Sindy si svegliò nel mezzo della notte, come ormai accadeva spesso: la crescita l’aveva forse resa più vigile e sensibile ai rumori, rendendole di conseguenza più difficile prendere nuovamente sonno una volta sveglia.
Odiava restare desta nell’oscurità e, in particolare, la bambina sentiva delle voci uggiolanti provenire da un’altra stanza dell’edificio.
Il sole autunnale aveva scaldato l'ambiente e l’aria cominciava a farsi greve.
«Io me ne vado».
[Storia classificata al sesto posto al contest "Tattoo Studio" indetto da Juriaka sul forum di EFP]
Genere: Drammatico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'La Casa di Cristallo'
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Il Bambino dai Capelli Color delle Stelle

 

 

 

 

 

 

 

 

Incomincia, piccolo bambino: a chi non sorrisero i genitori,
un dio non concede la sua mensa, né una dea lo accoglie nel letto d'amore.

(Virgilio – Bucoliche)

 

 

 

 

 

 

Sindy si svegliò nel mezzo della notte, come ormai accadeva spesso: la crescita l’aveva forse resa più vigile e sensibile ai rumori, rendendole di conseguenza più difficile prendere nuovamente sonno una volta sveglia.
Si rigirò sul materasso una dozzina di volte prima di spalancare definitivamente gli occhi, ormai rassegnata a passare un’altra notte – o quel che ne rimaneva – insonne.
Sindy odiava restare desta nell’oscurità: non vedere cosa potesse esserci di fronte a lei la destabilizzava e, inoltre, le tenebre portavano sempre con sé rumori terribili.
In particolare, la bambina sentiva delle voci uggiolanti provenire da un’altra stanza dell’edificio: il suo udito riusciva a cogliere per lo più lamenti, come quando si cade e ci si ferisce gravemente, applicarsi in un piagnisteo interminabile.
Durante la fase di plenilunio, il pianto solitamente culminava in una voce maschile, anch’essa piangente, per poi accogliere la quiete.
Quella notte, la bambina era irrequieta.
Si tirò a sedere, sgattaiolando alla finestra dietro di sé: scostò lievemente le tende e un niveo bagliore accecante invase la stanza.
Sindy osservò ammaliata i corpi celesti fluttuanti nel cielo, disperdendosi tra quei barlumi lucenti, domandandosi se si stesse meglio che nel suo piccolo mondo fatto di fame.
Poi una mano le sfiorò una spalla, facendola sobbalzare nel silenzio notturno.
«Lo hai sentito anche tu?» le chiese Vincent, in piedi dinanzi a lei.
Sindy fece una smorfia, tentando di far rallentare i battiti del cuore.
«Quella voce» puntualizzò il bambino.
Poi la tirò per un braccio, trascinandola con sé verso lo stretto corridoio al di là della stanza.
Vincent aveva undici anni ed era un bambino sveglio e particolarmente attraente.
I capelli color zenzero gli ricadevano arruffati sul volto gonfio e colorito; gli occhi acquamarina parevano ipnotizzarla ogni volta che incrociavano i propri.
Il bambino sembrava dirigersi a passo svelto verso quella che credevano fosse la stanza del maestro.
All’interno pareva non esserci nessuno.
Sindy schiuse la bocca per dire qualcosa, ma Vincent le mise un dito sulle labbra, intimandole di tacere.
La sua essenza inebriò la bambina: non sapeva dirne il motivo, ma, nonostante le condizioni in cui vivevano gli ospiti dell’orfanotrofio, Vincent profumava sempre di pulito.
Lo vide chinarsi leggermente per osservare attraverso la serratura, quando un’ombra alta e grossa comparve all’improvviso dietro di loro, quasi completamente inghiottita dalle tenebre.
«Pensavi di vederci qualcosa, fanciullo?» lo canzonò l’omone, sporgendosi leggermente in avanti.
Sindy non poteva vederlo chiaramente, ma riconobbe la sua voce, la stessa che aveva sentito ululare qualche minuto prima.
Intuì immediatamente che anche Vincent l’aveva riconosciuta. Dopotutto, non farlo non era semplicemente possibile.
«Mi scusi, io…» biascicò il giovane, con voce tremante.
«Devi chiamarmi maestro!» gridò l’uomo, afferrando entrambi per le orecchie.
Sindy pensò che, se avesse continuato a gridare, sicuramente lo avrebbero sentito anche i bambini nell’altra stanza.
Le sarebbe dispiaciuto se, a causa sua, anche Den e Julian si fossero svegliati. Sapeva che i gemelli avevano il sonno leggero e faticavano tremendamente ad addormentarsi.
L’uomo li trascinò fino a una squallida stanza, simile alla cella di una prigione.
La piccola la conosceva bene: ci veniva rinchiusa spesso e soffriva terribilmente di claustrofobia.
Nonostante ci fosse una finestra, non era possibile aprirla a causa delle sbarre di ferro che la bloccavano.
Il tempo che si passava all’interno variava a seconda della punizione: l’idea di tornarci la spaventava a morte, tanto che cominciò a singhiozzare al pensiero di rimanere senza cibo e acqua per un tempo indeterminato.
L’uomo li sbatté all’interno, per poi chinarsi di fronte alla bambina.
Sindy si asciugò velocemente le lacrime.
«Oh, tesoro».
Le passò una mano sul volto, in un gesto vagamente simile ad una carezza.
C’era qualcosa in lui che le trasmetteva una sensazione di sudiciume e sporcizia.
«Non potrei mai farti del male, mai! Tu lo sai questo, vero?».
L’uomo pareva provare genuina pietà per la bambina; Sindy poteva scorgere nella sua espressione una parvenza di sincerità.
Poi si tirò in piedi, con un lieve sorriso dipinto sulle labbra, serrando la porta a chiave dietro di sé.
La piccola si lasciò cadere sul pavimento gelido, già pregustando il sapore amaro dei giorni a venire.
Si accovacciò, crollando in un sonno profondo, come non le sarebbe più capitato per molto tempo.

 

˷

 

Sindy si svegliò qualche ora più tardi, probabilmente a causa dalla luce che filtrava da quella finestra soffocante.
Vincent era già sveglio e osservava il paesaggio al di là del vetro sporco.
Il pregio di quella fenditura era che, a differenza del resto dell’edificio, si poteva ammirare quello scenario segreto, celato a chi non frequentava la stanza.
Si trattava del cortile posteriore all’orfanotrofio, il cui accesso era severamente vietato a tutti gli ospiti, eccezion fatta, chiaramente, per i dipendenti.
«C’è un fantasma lì sotto» disse Sindy, osservando il dorso del coetaneo.
Il bambino si volse di scatto, fissandola sgomento.
La piccola si avvicinò alla finestra a passo lento, sporgendosi quanto poteva, cominciando a raccontare l’episodio che aveva menzionato.
Si trattava di quella volta in cui, per errore, Den era stato rinchiuso nella stanza con lei.
Non aveva fatto nulla che non dovesse fare; al contrario, aveva imparato in fretta come funzionavano le cose.
Era solamente stato sfortunato, perché si era trovato nel mezzo di una rissa.
«Sai come sono i ragazzi più grandi» sussurrò Sindy, «non si perdono occasione per maltrattarci».
Den era poco più piccolo di lei, eppure era un bambino fragile, indifeso e incapace di reagire.
Al posto suo, lo faceva sempre suo fratello, con l’intenzione di difenderlo.
«Voleva vedere che cosa ci fosse al di là del vetro» continuò la bambina, con lo sguardo assorto nel panorama di alberi secchi.
L’autunno stava per accogliere l’inverno gelido di un altro anno della sua vita.
«Ma non ci arrivava. Così lo presi in braccio per poterglielo mostrare».
Sindy non si volse per controllare se Vincent la stesse realmente ascoltando oppure no.
Se lo conosceva bene, in quel momento doveva avere la bocca socchiusa, attendendo con trepidazione il finale di quella breve storia.
«A un certo punto mi scivolò dalle braccia, gridando di aver visto uno spirito tra gli alberi» terminò la piccola.
Ricordava bene quel giorno estivo di qualche mese prima, quando la vegetazione era ancora verde e rigogliosa e il calore del sole che filtrava dai vetri era intollerabile, in quella stanza serrata.
«E poi?».
Vincent interruppe il susseguirsi dei suoi pensieri da bambina di quasi dieci anni, già lugubri e intensi nella memoria.
«E poi gli dissi di stare attento, ma non ai fantasmi» proseguì Sindy, voltandosi.
«A lui» dissero, quasi all’unisono.
Non gli raccontò nient’altro; non gli disse che Den era rimasto profondamente turbato da quella visione, tanto da cominciare a soffrire d’insonnia.
La luce della luna illuminava chiaramente il suo corpo tremante, seppure il calore estivo avvolgesse entrambi anche nelle tenebre della notte.
Così, quella sera Sindy decise di appoggiarsi al muro umido, cullandolo tra le proprie braccia, cantandogli una ninna nanna.
Non gli disse che era la stessa che Vincent le cantava quando era più piccola, per farla addormentare più facilmente.
Per qualche strano motivo l’aveva impressa nella memoria.
Lasciò scivolare le dita tra i capelli morbidi e ondulati, fino a quando il piccolo Den non si addormentò.
Non smise di cantare nemmeno quando sentì il suo respiro regolarizzarsi e il corpicino farsi più pesante sulle ginocchia.
«Slaap kindje slaap, je moeder is een aap…».

Entrambi non mangiavano da quasi tre giorni.
«Je vader is een baviaan, kindje jij moet slapen gaan…
¹».
Sindy continuò a cantare fino a quando le palpebre non cedettero alla stanchezza di una bambina affamata e abbandonata alla vita.

 

˷

 

«Io me ne vado».
Sindy ruppe il silenzio che si era creato quella notte, l’ennesima troppo dolorosa per riuscire a prendere sonno.
Il sole autunnale aveva scaldato la stanza e l’aria cominciava a farsi greve.
Lo stomaco dei due fanciulli brontolava incessantemente: Sindy ebbe quasi paura che Vincent potesse scagliarsi contro di lei e staccarle la carne a morsi.
Il suo immaginario infantile le intimava di mantenere i sensi all’erta.
Il buio era totale, ma Sindy era sicura che il bambino la stesse ascoltando e forse aveva anche gli occhi dischiusi, come lei.
Lo sguardo spalancato su un mondo celato dalle tenebre.
«Me ne andrò appena ci libererà» continuò la piccola, senza aspettarsi una risposta.
Lui non chiese spiegazioni e lei non si dilungò.
Restarono in silenzio per un tempo infinito, fino a quando alla bambina non sembrò mancare l’aria, fino a quando non sentì il respiro regolare di Vincent insinuarsi nell’oscurità.

Per lo meno da qui non si sentono le voci, pensò.
Quando i primi raggi del sole mattutino filtrarono nella stanza, Sindy aveva ancora gli occhi socchiusi.
Non aveva dormito, né ne sentiva il bisogno.
Vincent si stiracchiò, muovendo qualche passo verso la finestra.
Le membra gli parevano così indolenzite da sembrare quasi del tutto inesistenti.
La bambina ancora non poteva saperlo, ma i suoi occhietti aspri e immaturi avevano captato qualcosa dal vetro sudicio.
Qualcuno se n’era accorto.
Era ancora accovacciato alla finestra quando l’omone si presentò alla porta e li trascinò di fretta verso gli altri bambini.
Sindy e Vincent si ritrovarono nuovamente in compagnia, ma il bambino non pareva sollevato.
«Vengo anch’io con te» disse in tono severo quando la piccola gli si avvicinò abbastanza da poterlo udire.
Se l’avesse osservata in volto, Vincent avrebbe notato la sua espressione perplessa.
Non sapevano come, non sapevano quando, ma erano entrambi consapevoli di dover fuggire.
Era come se la morte li avesse tacitamente avvisati della propria visita imminente, tentando di salvare loro la vita.
Inaspettatamente, Vincent le presentò il suo piano di fuga: lo aveva progettato quella mattina stessa, nel tentativo di scacciare dalla mente quelle immagini, che si protraevano nella memoria come un ricordo recente.
«Questa sera ti metterai a disegnare» cominciò la sua flebile voce infantile, «poi lo distrarrai e correrai via appena se ne andrà».
Solo allora il bambino alzò lo sguardo. Le loro iridi si mescolarono insieme, per un solo, ultimo istante.
«Lui mi interrompe sempre quando disegno» commentò Sindy.
Dopo una lunga pausa, Vincent riprese a parlare.
«La notte del giorno dopo ti lascerò entrare, prenderai ciò che ti appartiene e ce ne andremo» terminò.
Solo molti anni dopo, Sindy realizzò che il progetto non avrebbe mai potuto funzionare.
Fuggire separatamente poteva essere una proposta grandiosa, ma le condizioni non la resero nient’altro che una lenta condanna a morte.
Sindy riuscì a inoltrarsi al di là dell’ampia cancellata, scappò nella foresta, ma qualcosa andò storto.
Non tornò mai sui propri passi, nemmeno per portare via i disegni e le fotografie.
Il maestro, l’uomo con la cicatrice, riuscì a raggiungerla fino al bosco.
Sindy non comprese mai che cosa avesse spinto Vincent a non cogliere quell’occasione per abbandonare per sempre quel luogo: per qualche motivo, aveva l’impressione che lui si fosse sacrificato per lei, per concederle la libertà.
Quella sera Sindy si accovacciò accanto a Den e Julian, osservandoli dormire beatamente stretti l’uno all’altro.
Una tale visione era talmente rara, che la bambina quasi si commosse.
Poi si avvicinò a Vincent, il bambino dai capelli del colore delle stelle, per salutarlo prima della sua partenza.
«Pensi ci rincontreremo davvero?» mormorò lui, gli occhi lucenti fissi nei suoi.
Forse, in fondo, conosceva già la verità.
Lei annuì debolmente: «Certamente».
Il suo tono non era affatto convinto, ma le loro mani si sfiorarono per un istante, in un ultimo, infinito, augurio di speranza.
«Promesso?»
«Promesso».

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

¹ Ninna nanna tradizionale olandese, il cui passaggio menzionato nel testo si potrebbe tradurre più o meno così:
«Dormi, bimbo, dormi
tua madre è una scimmia
tuo padre è un babbuino
piccolo, devi andare a nanna».


   
 
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