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Autore: lagertha95    25/11/2019    3 recensioni
Bellarke AU Hunger Games
Bellamy e Clarke abitano nel Distretto 3. Bellamy è stato reclutato per diventare Pacificatore. Clarke viene abbandonata finchè non arriva la Mietitura, la prima per Clarke da affrontare senza Bellamy.
Clarke è estratta, deve affrontare da sola gli Hunger Games, il suo mentore è un idiota viscido.
Dal testo:
"Hai un bel faccino, sei una bella ragazza [...] devi conquistare il pubblico. sii gentile, sorridi, fai la piccola e bambolina"
Scritto per il Wordwar su Il giardino di EFP, sfidata da LadyPalma
Genere: Drammatico, Guerra, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Bellamy Blake, Clarke Griffin, John Murphy
Note: AU, Cross-over | Avvertimenti: nessuno
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Salve a tutti/e!
Ho pubblicato poco fa la storia che avevo buttato giù per questa sfida, ma essendomi accorta di esser tragicamente uscita fuori dal binario, ho scritto questa.
Beh, niente da aggiungere se non Buona Lettura a tutti e che sarete i benvenuti se vorrete recensire questa storia :)
A presto, 
Baci Lagertha

 

Be the doll

 

Clarke si svegliò di soprassalto, tese una mano di fianco a sé e sentì il letto freddo.
Come sempre, da un anno a quella parte, lo sentì vuoto e gelido.
Una lacrima, un’unica stilla salata, le scivolò lungo la guancia sinistra. Clarke se la pulì via quasi con rabbia, tirando su forte con il naso.

“Clarke, è ora…” Clarke rispose con un cenno della testa a sua madre, Abby, che si era affacciata in camera sua. “Tutto bene tesoro? So che è un giorno difficile…”

“Sto bene” rispose Clarke, poi uscì dal letto e si precipitò in bagno, chiudendosi la porta alle spalle.

Guardandosi allo specchio constatò quello che, da un anno a quella parte, era l’ovvio: aveva un aspetto orribile. Le occhiaie violacee e le borse gonfie rendevano i suoi occhi piccoli e tetri. Il pallore e la magrezza del suo volto accentuavano l’evidente stato di malessere.

“Clarke, non possiamo fare tardi, lo sai…”

La voce di sua madre le giunse attutita dalla porta chiusa, facendole chiudere gli occhi per un attimo e inspirare profondamente.

“Arrivo…” anche la sua voce trasmetteva il funereo stato d’animo di Clarke.

Senza rivolgere una seconda occhiata alla superficie riflettente che le stava davanti, Clarke si lavò velocemente denti e viso, raccolse metà dei lunghi e mossi capelli biondi in una coda e corse di nuovo in camera.
Indossò uno dei suoi vestiti più belli – era importante essere belli per andare a morire, pensò sarcasticamente Clarke– e scese a fare colazione. Ingoiò velocemente una tazza di caffè nero e si avviò verso la porta. Sua madre la seguiva a pochi passi di distanza, tenendola sott’occhio cercando di non farsi notare. Falliva, quella mattina come tutte le altre mattine in cui la seguiva quando usciva o diceva a qualche suo amico o conoscente di controllarla senza farsi vedere. Sua madre e tutti i suoi amici sarebbero state delle pessime spie, Clarke si accorgeva ogni santa volta di essere seguita, ma dopo le prime volte in cui aveva provato a dire a sua madre che stava bene, che non ne aveva bisogno, aveva desistito: sua madre era un’apprensiva e tale sarebbe rimasta, nonostante quello che avrebbe potuto dire Clarke.



La bella e decorata piazza era gremita di gente: donne e uomini, vecchi e bambini.
Chiunque non partecipasse alla Mietitura circondava lo spiazzo dove i possibili futuri tributi si sistemavano dopo aver passato i controlli.
Clarke si mise in fila e quando arrivò dai Pacificatori porse la mano senza nemmeno guardarli. Fatta entrare, fu sistemata in penultima fila, tra le ragazze più grandi.
Inevitabilmente il suo sguardo corse a controllare la parte dei maschi per restare delusa: era la prima Mietitura senza Bellamy, che l’anno prima prima era stato reclutato dai Pacificatori nonostante non appartenesse al distretto 2. Clarke era stata obbligata a presenziare alla partenza del ragazzo di cui era innamorata e con cui conviveva da quando i genitori di lui erano morti, senza la minima speranza di rivederlo.

“Signore e Signori, buongiorno e benvenuti alla 45esima Mietitura!” La voce squillante ed effeminata dell’Accompagnatore, Gaius Inclemens, risuonò chiara per tutta la piazza, corredata da un brillante sorriso dorato. Quell’anno Gaius era ammantato da un orribile cappotto verde acido bordato di pelliccia verde oliva. I capelli, verde islam, erano arricciati sui lati e spianati nel mezzo a incorniciare un viso decorato da rampicanti punteggiati di piccoli smeraldi. A Clarke veniva da vomitare. “Procediamo all’estrazione!”

Nella piazza calò il silenzio quando la mano guantata di Gaius si immerse tra i biglietti della boccia dei ragazzi.

“Nelson Mandjoub”

Un ragazzo dalla pelle scura e i capelli molto corti, sui 18 anni, a testa china e spalle tese, si diresse, senza guardarsi indietro, verso il palco. Vi salì, si mise di fianco a Gaius – che gli passò lascivamente una mano lungo il collo – e fissò lo sguardo in punto indefinito davanti a sé.

“Facciamo un bell’applauso a Nelson, il primo Tributo dei distretto 3!”

La piazza applaudì di malavoglia, mentre Gaius sembrava entusiasta, applaudendo freneticamente e leccandosi disgustosamente le labbra guardando il ragazzo.

“E adesso le signorine!” trillò Gaius una volta che l’applauso fu scemato, infilando la mano nella boccia dedicata alle ragazze. “Il tributo femmina del distretto 3 per questi 45esimi Hunger Games è…” mimò un rullo di tamburi, guardando una per una le ragazze schierate nella piazza. “Clarke Griffin! Vieni avanti per favore, cara!”

Clarke sentì un “No!” soffocato provenire dalla folla alle sue spalle e seppe, dal tonfo sordo che seguì il no, che sua madre era svenuta.

Le ragazze intorno a lei le aprirono un passaggio che Clarke attraversò a testa alta e spalle dritte, il viso imperscrutabile e apparentemente insensibile a quello che stava accadendo attorno a lei.

“Ecco i tributi del distretto 3 che parteciperanno alla 45esima edizione degli Hunger Games! Un applauso signori e signore!”

L’applauso svogliato che riempì la piazza arrivò come attutito alle orecchie di Clarke che aveva sempre pensato alla sua estrazione come a un evento che l’avrebbe colpita, fatta disperare, farla tremare. Invece aveva accolto il suo nome pronunciato dalle carnose e rifatte labbra di Gaius con indifferenza: dalla partenza di Bellamy la sua vita non aveva più avuto granché senso.
Sua madre non la salutò. Non poteva guardare la figlia andare a morire, non dopo che il marito, il padre di Clarke, era morto poco tempo prima. Clarke non se la prese. Sinceramente, non aveva voglia di vedere sua madre disperarsi: in fin dei conti ad essere mandata a morire era lei, non sua madre. Avrebbe, nel caso fosse successo, superato la sua morte come aveva superato quella del padre: lentamente e dolorosamente, ma lo avrebbe fatto.
Montò sul treno ancora immersa in quella specie di trance in cui era caduta quando Gaius aveva estratto il suo nome. Accanto a lei, sul lussuoso e morbido divanetto imbottito e ricoperto di pelliccia dorata – terribilmente somigliante ai propri capelli, constatò Clarke – Nelson stava seduto con la schiena dritta, guardando fuori dalla finestra.



“Bene bene! Ecco i nostri due nuovi agnelli sacrificali. Quest’anno ci hanno dato dei tossici strafatti per caso? Andiamo ragazzini! Volete vivere? Perché se non volete farlo, io me ne lavo le mani e vado a divertirmi, senza sprecare neanche un altro minuto con voi!”

Clarke distolse lo sguardo dal paesaggio che scorreva, inarrestabile, fuori dal finestrino del treno.

“Senti carino, siamo noi a essere stati praticamente condannati a morte, non tu, quindi rilassati. Hai vinto gli Hunger Games 3 anni fa, bravo, complimenti, ti sei salvato.”

“Oh bene! Abbiamo una lingua lunga qua!” Il ragazzo aveva l’età di Clarke, si chiamava John Murphy, aveva i capelli castano scuro, gli occhi azzurri e un grosso naso che però nel suo viso non stonava ed era nemico di Clarke fin dalle elementari. “Bene Griffin, così mi piaci. Adesso, vuoi vivere o vuoi morire?”

Clarke lanciò un’occhiata a Nelson che, apparentemente in catalessi, continuava a guardare fuori dal finestrino, poi tornò a guardare Murphy che le si era seduto davanti e che si era messo in modo tale da avere il viso a 20 centimetri da quello di Clarke.

“Voglio vivere, idiota” sussurrò Clarke, aggrottando le sopracciglia.

“Punto primo, se vuoi vivere dovrai portarmi rispetto. Sono il tuo mentore, dopotutto.” Le accarezzò una guancia con fare di superiorità e Clarke si costrinse a mordersi la lingua e a non sottrarsi a quella carezza per cui avrebbe voluto mozzargli la mano. “Seconda cosa: i tuoi talenti?”

“Io…” Clarke si trovò spiazzata. Era molto brava a studiare, imparava in fretta ed era anche particolarmente brillante. Aveva un’infarinatura di ingegneria e delle buone basi di medicina grazie ai genitori.

“Accendere un fuoco?”

“No, ma è idiota farlo. Potrebbero vedermi e attaccarmi”

“Costruire un’arma?”

“Credo di sì, dovrei provare ma credo di esserne capace”

“Credi?” Murphy le si fece più vicino “Credi di saper costruire un’arma come credi di poter sopravvivere? Sveglia principessa, agli Hunger Games ci va gente che viene addestrata a combattere fin da quando iniziano la scuola! Tu soccomberai inevitabilmente se non ti dai una svegliata e metti da parte quell’aria depressa che hai!” le sbraitò addosso, per poi aggiungere, sussurrando “Il tuo compagno, qui, è spacciato. Non vuole vivere, gli si legge in faccia. Tu però vuoi farlo e potresti riuscirci. Hai un bel faccino, sei una bella ragazza...devi venderti meglio, ma a quello ci penseranno gli stilisti. Devi conquistare il pubblico. Sii gentile, sorridi, fai la piccola bambolina. Se riuscirai a farti amare, il tuo percorso negli Hunger Games sarà decisamente più facile”

In un attimo si alzò in piedi, uscì dal vagone-salotto e si rifugiò nella sua cabina, lasciando Clarke a riflettere sulle sue parole.



“Bene. Insegnami a fare la bambolina allora.”

Clarke piombò, senza neanche bussare, nella stanza di Murphy. A braccia incrociate e gambe saldamente piantate a terra, si pose ai piedi del letto dove Murphy stava stravaccato.

“Io? Ma mi hai visto? Hai visto come ho vinto gli Hunger Games?”

“Hai fatto la bambolina. Si dice in giro che tu abbia concesso i tuoi favori alla figlia del Presidente, che lei ti volesse anche durante l’addestramento e che sia per quello che hai vinto gli Hunger Games. Ovviamente anche per il tuo tradire la gente senza pensarci due volte, ma quello è secondario.”

Murphy le dedicò un ghigno che stava a significare che aveva ragione: Clarke aveva colto nel segno.

“Bene. Sei più sveglia di quanto pensassi.” si mise a sedere sul letto, battendo di fianco a sé la mano, indicandole di sedersi. Clarke obbedì, sedendosi però a distanza di sicurezza. “Io fossi in te proverei a entrare nelle grazie del capo delle guardie, dicono sia sensibile ai bei faccini e ai capelli biondi.”

A Clarke saltò in mente l’immagine di un vecchio e grasso Pacificatore, come quelli che giravano nel suo distretto, e rabbrividì di disgusto.

“Non fare la schizzinosa. Aprirai le gambe, la bocca, qualunque cosa vorrà. D’altronde, la tua vita vale molto più di una scopata o di un pompino. O mi sbaglio?” poi, sottovoce, aggiunse “E poi non credo ti dispiacerà troppo…”

Clarke guardò Murphy che ghignava, provando un rancore e un odio così profondi che avrebbe voluto saltargli addosso e cavargli gli occhi.
Dopo Bellamy non c’era stato nessun altro e nessun altro avrebbe voluto, men che meno un vecchio grasso e bavoso da compiacere. La sua vita valeva così tanto?
Non rispose, quindi, limitandosi a guardarlo torvo e a tacere.

“Chi tace acconsente, bella mia” le disse Murphy, avvicinandosi e carezzandole la morbida curva del collo con il dorso della mano. “Magari vuoi fare un po’ di pratica, prima…” le soffiò poi sul collo, facendola rabbrividire.

“Grazie, sono capace di cavarmela da sola” rispose Clarke alzandosi di scatto e sfuggendo ai leggeri e maliziosi tocchi del Mentore. “Buonanotte Murphy.” disse infine, uscendo dalla cabina e rifugiandosi nella propria.



Nessuno dei Tributi aveva una guardia fuori dalla porta. Nessuno tranne Clarke.

“CHE COSA HO FATTO PER MERITARMI DI ESSERE CONTROLLATA QUANDO VADO IN BAGNO?” le urla isteriche della ragazza riempivano il terzo piano dell’edificio dove tutti i tributi, i mentori e gli stilisti alloggiavano. “MURPHY PRETENDO UNA SPIEGAZIONE!”

“Sei la figlia del rivoltoso, pensano tu possa essere una minaccia.”

“Mio padre non era un rivoltoso…”

“Forse no, ma il Presidente pensa di sì. Non puoi farci nulla tu, non posso farci niente io e detto tra noi a me non interessa chi sta fuori dalla tua porta purché non disturbi me. Approfittane, magari ti porterà qualcosa di buono.”

Quel dannato mentore! A che cosa serviva? Non la proteggeva, non la aiutava. I consigli che le aveva dato si erano limitati al “Apri le gambe per un vecchio bavoso”.

Clarke sbatté furiosamente la porta della stanza che le avevano assegnato al terzo piano dell'edificio. Era arrabbiata e delusa. Ma chi diamine dava ai vincitori il compito di mentore? Essere mentori era ben più di dire “sopravvivi, mi raccomando". Avrebbero dovuto essere capaci di insegnare, dannazione!
Clarke si rese conto di quanto stare in quella stanza, per quanto enorme questa fosse, le stesse dando ai nervi così decise di uscire, di cesare un posto dove state in pace a riflettere.
Uscì come una furia dalla stanza di cui poco prima aveva sbattuto la porta, passando accanto ad un ragazzo in uniforme e con il cappello a coprire il viso che stava passando in quel momento.

I piani si illuminavano uno per uno man mano che l’ascensore saliva, finché un trillo non avvertì che erano arrivati all'ultimo piano.
Clarke uscì dall'ascensore quasi correndo, aprì la porticina che dava sull'attico e si fermò solo una volta appoggiata al muretto.
Capitol City si estendeva per chilometri davanti a lei, luminosa, moderna e ricca. Completamente opposta a dove era nata e cresciuta.

“Sai, avrei dovuto impedirti di salire fin quassù”

La voce del ragazzo la fece sobbalzare impercettibilmente.
Era una voce troppo somigliante a quella che per tre anni aveva sentito ogni giorno, dal primo momento in cui la mattina apriva gli occhi fino all'ultimo della sera quando li chiudeva.
Non si voltò. Essere delusa, rendersi conto che quel ragazzo non era Bellamy…sarebbe stato un dolore che Clarke non avrebbe potuto sopportare.

“Che c'è principessa, ti sei scordata di me?”

Non lo aveva sentito avvicinarsi, in un anno si era fatto decisamente silenzioso, ma quando il suo profumo la avvolse insieme alle sue braccia, Clarke si sentì a casa.

Iniziò a piangere senza nemmeno accorgersene, stretta tra le braccia forti, accoccolata contro il petto solido che per anni l'aveva protetta e confortata quando piangeva disperata per il padre.

“Pensavo di non rivederti più…io…”

“Shh, principessa…non piangere…sono qui adesso…”

“Sono qui perché sono stata estratta Bell…” Clarke si girò nelle braccia di Bellamy, puntando gli occhi azzurri in quelli neri di lui, le lacrime che copiose continuavano a scendere. “Sono condannata praticamente a morte…”

Il ragazzo la strinse più forte, premendo la testa di lei contro la propria spalla.

“Vincerai i giochi Clarke, tu puoi riuscirci…”

“E come Bell? Guardami bene, non sono una guerriera-”

“Sì che lo sei, lo sei sempre stata.” La allontanò da sé, privandola del senso di protezione e casa che il corpo di lui le davano. “Io non ho fatto carriera per caso. Quando mi hanno reclutato e portato qua, io mi sono sentito perso e ogni notte, ogni singola notte, mi apparivi in sogno. Sei stata l’unica cosa a mantenermi sano. Ho fatto carriera perché alla fine di tutto io vedevo te, perché immaginare una vita con te mi dava la forza per andare avanti. Come capo delle guardie ho dei privilegi e stavo per chiedere di venirti a trovare per poi…”

“Per poi?”

“Vuoi sposarmi Clarke Griffin? Potrei provare-”

“A togliere un tributo al Presidente? Fai sul serio?” Clarke lo guardò scettica, la testa inclinata e le braccia conserte. “No, non l’accetteranno mai. Devo vincere i giochi, non ho altra scelta.”

La voce le si spezzò sull’ultima parola e Clarke si rifugiò di nuovo tra le braccia di Bellamy.

“Portami via, fammi godere degli ultimi giorni…”

“Non saranno gli ultimi giorni, non morirai nell’Arena.”



La notte passò troppo velocemente per i due ragazzi che si erano appena ritrovati e già dovevano separarsi.
A malincuore si diedero un ultimo bacio sulla porta della camera, Murphy che pur vedendoli fece finta di niente e tirò dritto, diretto verso la sala della colazione.

Una settimana: tanto era il tempo che era concesso ai Tributi prima di essere gettati nell’Arena, tanto era il tempo concesso a Clarke e Bellamy.
I due ragazzi dormivano insieme tutte le notti senza che nessuno avesse il coraggio di dire “Ehi voi, non potete farlo!”. D’altronde, ai condannati a morte era sempre concesso un ultimo desiderio.
L’ultimo giorno di allenamenti, dopo l’esibizione agli Strateghi, Clarke ricevette un 8, buon punteggio anche se nulla di speciale, Nelson se ne uscì con un 6.

“Il tuo compagno è spacciato”

Bellamy le accarezzava i capelli mentre, abbracciati, guardavano la luna illuminare i tetti più bassi di Capitol City.

“Lo sono anche io Bell…”

“Non è così, lo sai…ti ho visto allenarti e so che non hai mostrato tutto quello che sai fare davvero…”

“Se mi sottovaluteranno potrò usare il loro errore a mio favore…”

“Vedi? Non sei spacciata. Hai un cervello, oltre al corpo, che sai usare dannatamente bene.”

“Solo perché il mio cuore sei tu, Bell, se non usassi il cervello che cosa mi resterebbe?”

Lo baciò teneramente sotto il mento, nella parte più morbida del collo, quella che aveva imparato a non ferirgli quando gli radeva la barba.

“Mi mancherai…”

“Non ti eri abituata?”

“Un anno senza di te e non c’è stata una sola notte in cui abbia dormito senza incubi.”

“Mi dispiace”

“Non è colpa tua”

“Domani, ti prego, venditi al pubblico come non hai mai fatto prima. Sorridi come sorridi a me, pensa a me se ti viene più semplice apparire felice. Devi farti amare come ti amo io, Clarke…”

Bellamy guardava la luna, mentre parlava, ma Clarke riuscì a cogliere un luccichio nei suoi occhi.

“Lo farò”

Non dormirono quasi niente quella notte, restando abbracciati, baciandosi e facendo l’amore. L’alba li colse dolcemente accoccolati contro la testiera del letto, le braccia di Bellamy saldamente serrate intorno a Clarke che accarezzava in un andirivieni tranquillizzante le braccia che la circondavano.



“E adesso, Clarke Griffin! Tributo del distretto 3!”

Ceasar Flickerman era, come al solito, spumeggiante, tanto da sembrare drogato.
Clarke salì sul palco a testa alta, il vestito blu scuro, i ricci biondi lasciati morbidi sulle spalle e dei gioielli di diamanti a decorarle collo, polsi e orecchie che la facevano brillare come una stella.

“Sembri una vera Principessa, Clarke! Accomodati, prego!”

Caesar fece un lezioso baciamano a Clarke che continuava a sorridere nel modo più sincero e splendido di cui fosse capace.

“Principessa è come mi chiamano fin da piccola! Come hai fatto a indovinare Caesar?”

Quel modo sciocco e frivolo di scherzare e flirtare con il presentatore non apparteneva alla Clarke che aveva conosciuto Bellamy, ma a mali estremi estremi rimedi e il giovane si ritrovò a sorridere di Clarke che, con i boccoli e le guance rosate sembrava davvero una bambolina di porcellana. La sua principessa era davvero in gamba.

“Sono un indovino!”

L’intervista di Clarke fu mantenuta su toni allegri e spensierati, Clarke era raggiante e la gente era incantata da lei come i compagni di Ulisse erano stati incantati dalle sirene.
Quando tutto finì e tutti tornarono alle loro stanze, Clarke si tolse la maschera da bambola che aveva indossato fino a quel momento e scoppiò a piangere, i singhiozzi che la scuotevano, Bellamy che cercava di calmarla abbracciandola e carezzandole la schiena.

“Domattina, quando ti verranno a prendere, io non ci sarò, ma ti prometto che ti guarderò tutto il tempo. Tu devi promettermi che non penserai ad altro che a sopravvivere. Prometti, Clarke!”

Clarke annuì, consapevole di non essere in grado di parlare se non con la voce spezzata dai singhiozzi, e si gettò nel rifugio più sicuro che conoscesse sulla terra.



Sei anni dopo


“Sei un maledetto incosciente!”

Clarke urlava, un diavolo per capello, nell’enorme cucina della sua casa di Vincitrice.
Seduta sul tavolo, le gambette magre penzoloni, c’era una bambina di quasi sei anni con le ginocchia piene di croste per le ripetute sbucciature.

“Madi avrebbe potuto farsi davvero del male! Ma come ti è venuto in mente di farla arrampicare su quel dannato abete rosso? Santo Dio, Bell!”

“Andiamo Clarke, si è solo rotta un braccio e soltanto perché è caduta male, non era neanche arrivata al primo ramo-”

“Papà ha ragione, mamma. Sono caduta male, non ho pensato a quello che mi avete insegnato, mi sono distratta…”

“Amore, non sono arrabbiata con te, sono arrabbiata con quell’irresponsabile di padre che ti ritrovi”

Marcus ridacchiò interrompendo quella scenetta che, ormai da quattro anni, si ripeteva quasi quotidianamente. Abby, cercando di sopprimere la risata che le stava venendo alle labbra, gli diede una pacca sul braccio e lui la abbracciò teneramente.

“Nonna ti prego di’ qualcosa”

“Oh no tesoro, mi dispiace ma io me ne tiro fuori”

Abby soffiò un bacio verso la nipote e girò i tacchi, trascinandosi dietro Marcus che strizzò l’occhio all’indirizzo di Madi.

“Mamma per favore, non arrabbiarti con papà, è colpa mia, lui ha provato a fermarmi ma io volevo provare, volevo far vedere che sono come te e”

“Io non sono arrabbiata con papà, Madi, e nemmeno con te. Mi sono preoccupata, tutto qui.”

Clarke aveva imparato a respirare e a non farsi prendere dalla paura.
Dopo gli Hunger Games – che aveva vinto facendo la bambolina, piacendo agli sponsor, trasformandosi in una non minaccia agli occhi degli altri Tributi e, alla fine, attirando gli 8 rimasti alla cornucopia, sigillandoceli dentro e asfissiandoli – Clarke aveva scoperto di essere incinta.
L’aveva detto a Bellamy appena uscita dall’ospedale di Capitol City, il ragazzo aveva inaspettatamente reagito bene e poco dopo si erano sposati – Clarke avrebbe voluto convivere, ma Capitol City non avrebbe concesso il trasferimento a Bellamy, se non si fossero sposati - e trasferiti nella Casa che le avevano assegnato nel Villaggio dei vincitori del distretto 3.
Poco dopo però erano cominciati gli incubi. Bellamy non riusciva a gestire Clarke che si svegliava urlando nella notte, non dormiva e non mangiava, continuando a deperire. Abby non poteva darle i calmanti che Clarke chiedeva per via della gravidanza, così alla fine avevano trovato un ex allievo di Abby, Jackson, psichiatra, e Clarke aveva cominciato una cura con lui per cercare di risolvere tutta quella situazione.
Con l’aiuto di Bellamy, Abby, Jackson e inaspettatamente Murphy e Marcus Kane – il nuovo compagno di Abby – Clarke si era ripresa in non troppo tempo, procedendo piano ma senza fermarsi, un passo alla volta, senza fretta ma con decisione.
Al parto si era ripresa quasi completamente e la nascita di Madi aveva dato lo sprint finale.
Aveva continuato a frequentare Jackson, ormai un amico più che il suo medico, e continuava a mettere in atto i suoi insegnamenti: respira, non farti prendere dall’ansia, inspira, espira, con calma, rilassa i muscoli…

Madi la guardava aspettando che continuasse a brontolarla e tirò un sospiro di sollievo quando Clarke terminò la gessatura e, con le mani sporche di gesso, le accarezzò una guancia.

“Adesso vai, mi raccomando, stai attenta. Il gesso è fresco e il tuo braccio è ancora rotto…”

“Lo so mamma, vado di là con i nonni!”

Madi scappò via lanciando un bacio anche a Bellamy che la guardava sorridendo, entrambi consapevoli che il peggio era passato.

“Sei un irresponsabile”

“Lo so”

Bellamy si avvicinò a Clarke.

“Incosciente” 

Clarke gli diede uno schiaffo sul braccio, imbronciata.

“Lo so”

Un altro passo e Clarke si trovò intrappolata tra il tavolo in legno massello e il corpo solido di Bellamy.

“Poteva farsi male seriamente”

“Ma non è successo”

Bellamy avvicinò il viso a quello di Clarke, le punte dei nasi che si sfioravano, le labbra alla distanza di un soffio.

“Mi sono spaventata”

“Madi sta bene”

Le diede un bacio sulla punta del naso, Clarke chiuse gli occhi godendosi il leggero solletico di barba e baffi.

“Adesso però parliamo di un’altra cosa…”

Clarke aprì gli occhi, allontanando leggermente la testa e cercando di avere del marito una visione d’insieme.

“Quando, la mia bambolina, aveva intenzione di dirmi che è di nuovo incinta?”

 

   
 
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