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Autore: TaliaAckerman    29/11/2019    0 recensioni
L'ultimo atto della saga dedicata a Fheriea.
Dubhne e Jel si sono finalmente incontrati, ma presto saranno costretti a separarsi di nuovo. Mentre la minaccia dal Nord si fa sempre più insistente, un nemico che sembrava battuto torna sul campo di battaglia per esigere la sua vendetta. Il destino delle Cinque Terre non è mai stato così incerto.
Dal trentaquattresimo capitolo:
"Dubhne si portò una ciocca di capelli dietro l'orecchio e ricordò quando, al suo arrivo a Città dei Re, l'avevano quasi rasata a zero.
- Quando ero nell'Arena... - mormorò - dovevo contare solo su me stessa. Un Combattente deve imparare a tenere a bada la paura, a fidarsi solo del proprio talento e del proprio istinto. Non c'è spazio per altro.
Jel alzò gli occhi e li posò su di lei - E che cosa ti dice ora il tuo istinto?
- Sopravvivi. "
Se volete sapere come si conclude il II ciclo di Fheriea, leggete!
Genere: Azione, Fantasy, Guerra | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'II ciclo di Fheriea'
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                                                                                         EPILOGO


                                                                     crisantemi

                                                                                        «I knew the moment had arrived
                                                                                            for killing the past and coming back to life »
                                                                                                                                
(Pink Floyd, "Division Bell")





La dimora della famiglia Krestan era davvero un rocca, come suggerito dal suo nome. Abbarbicata su di un'altura parzialmente erbosa, parzialmente costituita di nuda roccia, guardava a sud verso le colline, a nord verso la gelida baia di Andros. Tutt'attorno a Rocca Tarth ai sviluppava un villaggio, costruito perlopiù in legno, che arrivava con le sue ultime propaggini fino alla base della montagna. Il cimitero si trovava proprio lì, accanto al versante che dava sull'oceano; un piccolo camposanto umile nella sua austerità, di certo molto diverso dalle cripte funerarie in cui era stato tumulato Lord Yosef Krestan al momento della sua morte. A Dubhne era bastato girare intorno a quell'altura, senza bisogno di chiedere informazioni a nessuno, per trovare il luogo che cercava.
L'aria salmastra accarezzava il suo viso, fresca ma non spiacevole; era estate, e persino così a Nord i raggi del sole scaldavano quei territori altrimenti intirizziti da inverni estremamente lunghi.
Le prime lapidi erano molto vicine l'una all'altra, tanto che a tratti si faticava a comprendere dove terminasse una sepoltura e dove ne iniziasse un'altra; erano lambite dall'erba alta e in alcune la pietra sembrava sul punto di sgretolarsi, le iscrizioni quasi illeggibili. Dubhne dedusse che quella fosse la zona più antica del cimitero, che col passare del tempo doveva essere andato ampliandosi verso la scogliera. La sua supposizione fu confermata man mano che vi si addentrava: la disposizione delle tombe si faceva più ordinata, le epigrafi si facevano via via più chiare - benché tutto quei nomi non fossero per lei altro che mute lettere incise sulla pietra. Se davvero era quella la struttura di quel luogo, la lapide che cercava doveva essere una delle più vicine al mare.

Era partita da Amaria con l'unico desiderio di fuggire, fuggire da quel luogo di morte, da quella guerra che le aveva dato l'illusione di poter tornare a vivere e poi le aveva tolto tutto. Era partita con le mani sporche del sangue dell'uomo che amava, era partita lasciando agonizzante in un letto l'uomo a cui aveva donato la propria verginità. Era partita perché altrimenti rimanere fra gli spettri che infestavano quella città e la sua mente l'avrebbe fatta impazzire.
Aveva lasciato la capitale nordica con le membra doloranti e il cuore lacerato, e un'irrefrenabile e devastante desiderio di tornare a casa. Una casa che, come si era resa conto quasi subito, non esisteva affatto, non per lei.
Aveva cessato di esistere nel momento in cui aveva abbracciato per l'ultima volta Archie Farlow, diventando una proprietà di Malcom Shist. E da quel momento, il suo destino era stato inequivocabilmente tracciato: quello di un'apolide.
Si era sentita a casa, dopo i primi durissimi mesi, fra le stanze del palazzo Cerman e la terra battuta dell'Arena? Forse. Una casa che condivideva con amici e nemici, ammiratori e guerrieri pronti ad ucciderla. Ma non appena l'incanto dei Giochi si era spezzato, aveva sentito di nuovo quella necessità, quella stessa necessità di fuggire che le aveva permesso di scappare dalla sartoria del signor Tomson tanti anni prima di allora e che in seguito l'aveva indotta a seguire Jel a Grimal.
Eppure si era sentita a casa nei brevi, felici mesi al fronte in cui aveva potuto avere Alesha nuovamente al suo fianco. Si era sentita a casa fra le braccia di Jack, tutte le volte in cui lui l'aveva stretta a sé. Si era sentita a casa la notte in cui aveva vegliato su Jel dopo aver fatto l'amore con lui. Ma Alesha e Jack erano morti, perduti per sempre, e di Jel non le era rimasto che un ricordo: l'immagine di lui, incosciente, steso su una brandina dell'infermeria di Amaria la notte in cui era andata a trovarlo - per la prima e unica volta - prima di lasciare la città.
Aveva cavalcato quasi ininterrottamente lungo la Grande Via senza avere in mente una destinazione precisa; poi, quando si era stufata della presenza delle colonne di viaggiatori che si alternavano a cortei nobiliari e qualche reietto come lei, l'aveva abbandonata e si era mossa attraverso i prati. Aveva cavalcato giorno e notte senza mai fermarsi, finché le sue dita non si erano riempite di piaghe e il dolore alla schiena e alle gambe così forte da farla sentire quasi atrofizzata. In realtà era stato il suo cavallo, Althesan, a riscuoterla, nel momento in cui, sfinito, nell'atto di oltrepassare un tronco d'albero caduto era caracollato in avanti con un debole nitrito. Non era morto per sfinitezza, ma ci era andato vicino.
Solo allora si era risvegliata da quella sorta di trance agonizzante in cui era scivolata e si era chiesta dove fosse finita; quanto strada avesse percorso e, soprattutto, dove avesse intenzione di andare.
E alla fine, dopo molti altri vagabondare, aveva raggiunto la consapevolezza che, se non avesse cominciato a fare i conti con il proprio passato, non sarebbe mai potuta davvero tornare ad avere una casa. E c'era un solo luogo da cui quel viaggio avrebbe potuto avere inizio.

La tomba di Jack Cox si era ritagliata un piccolo angolo tutto suo. Stretta in un antro nella scogliera su cui si arrampicavano foglie d'edera di un verde intenso, la lapide si ergeva in marmo bianco sul quale una mano elegante aveva inciso il suo nome, il suo grado e le date di nascita e di morte.
Dubhne estrasse dalla propria borsa a tracolla il mazzo di crisantemi che aveva acquistato da una fioraia che aveva trovato poco all'interno delle mura di cinta del villaggio e lo depose dolcemente sul terreno in cui era infissa la lapide. Nell'atto di chinarsi, ebbe modo di riconoscere una seconda incisione più piccola, scritta da una mano evidentemente più inesperta. Suo fratello Nigel, forse, suo padre, o chi sa chi. Non avrebbe mai potuto saperlo.

Caduto affrontando fieramente la Magia.

Nei castelli minori e piccoli borghi, dove era più improbabile imbattersi in persone che praticassero la magia - i bambini nati con quel dono venivano per la maggior parte dei casi inviati nelle città più vicine per ricevere un'istruzione - l'essersi battuto in battaglie dove fossero presenti maghi e streghe era considerato fra i più grandi degli onori.
Nel leggere il piccolo epitaffio, Dubhne cadde in ginocchio.

Era inverno quando era arrivata a Célia, la prima tappa di un viaggio che sarebbe durato ancora a lungo. Poi era stata la volta di Chexla, dalla famiglia Farlow. Il momento più difficile era stato quando aveva scoperto che Archie non viveva più con Claire, Camm e Richard.
Era tornata a Città dei Re non più come Ragazza del Sangue, ma semplicemente come Dubhne, una donna libera, una sopravvissuta. Aveva assistito ai Giochi Bellici dall'esterno avendo modo di percepirne tutta la brutalità e la spietata insensatezza da un altro punto di vista. Eppure, a volte, aveva sentito i vecchi brividi di eccitazione, compagni dei tempi andati, percorrerle la schiena. Non si era persa un solo combattimento fino al momento in cui non aveva visto Claris entrare in campo ed uscirne vincitrice. Saperla ancora viva l'aveva rallegrata immensamente, il primo sentimento genuinamente positivo dopo tanto tempo. Non si era sentita felice, quello non sarebbe mai più stato possibile dopo che aveva visto morire le persone che amava di più al mondo. Ma allegra e sollevata, questo sì.

- È colpa mia - le parole le uscirono di bocca prima ancora che la sua mente le formulasse consapevolmente. - È colpa mia, ti ho ucciso io, Jack.
Nel pronunciare il suo nome, un primo singhiozzo la scosse. Si era ripromessa di essere forte, di non piangere, ma non ce la faceva. Il tempo trascorso forse le aveva fornito il coraggio necessario per visitare il luogo in cui Jack era sepolto, ma non era servito a sanare la ferita che la sua morte aveva aperto dentro di lei.
- Avrei voluto morire io quel giorno. Non era giusto che toccasse a te. Niente di quello che è successo è stato giusto.
Respirò a fondo mentre lacrime incontrollabili cominciavano a rigarle le guance. - Dopo che... dopo che ti ho perduto... mi sono comportata come una codarda, sono fuggita... ma ora credo che saresti fiero di quello che ho fatto in questi anni. Sono tornata in luoghi che credevo non avrei mai più rivisto, ho affrontato persone che non credevo avrei mai avuto il coraggio di affrontare. Ho scavato nel mio passato e ho guarito molte delle ferite che mi laceravano. Ma senza di te... senza di te non so se riuscirò mai a dare davvero un senso a tutto questo.
Il ricordo dello sguardo che le aveva rivolto poco prima di lanciarsi insieme verso il Santuario la travolse in modo così vivido e improvviso che per un istante le parve di soffocare.
- Ti amo Jack. Ti amo dopo tutto questo tempo. Non te l'ho mai detto, e ora darei qualunque cosa per averlo fatto. Ogni momento che ho trascorso con te è stato un dono di cui sarò grata in eterno. Ma avrei voluto che tu lo sapessi. Avrei voluto che sapessi che ti amavo più di ogni altra cosa e che avrei fatto qualunque cosa per te. Tu mi hai salvata, ma non soltanto perché mi hai portata via da Hiexil quando la città bruciava, mi hai salvata e curata nel profondo. Grazie a te ho scoperto di essere più di quanto pensassi. Grazie a te sono rinata. Tu mi hai dato tutto. E ti ho amato per questo, ti ho amato senza rendermene conto ogni giorno di più. Non volevo crederci all'inizio, non credevo che potesse capitare a me, e quando l'ho capito è stato troppo tardi. Ti prego, perdonami. Perdonami.
Si chinò in avanti fino a baciare il basamento di pietra della lapide e vi appoggiò la fronte, scossa dai singhiozzi.
- Perdonami.
Uno dei crisantemi era sfuggito al nastro che li teneva insieme e ora giaceva a terra, i petali sferzati da quella leggera brezza. Dubhne lo vide con la coda dell'occhio e lo raccolse, rigirandoselo tristemente fra le mani. Trascorse in quel modo un periodo che le parve durare un'eternità, finché le lacrime si asciugarono sulle sue guance lasciando sulla pelle strisce salate e brucianti se esposte all'aria fredda.
- Ero sicuro che ti avrei trovata qui, un giorno.
Una voce familiare, benché fossero anni che non la sentiva, quasi la indusse a voltarsi di scatto verso l'ingresso del cimitero.
- Io invece non credevo che ti avrei rivisto, maestro Cambrest.
Dei passi le si avvicinarono. Dubhne immaginò il suo mantello lambire appena la ghiaia del camposanto.
- Sono venuto qui ogni mese, ogni anno, nella speranza che un giorno ti avrei incontrata.
Silenzio.
- Come sai che sono diventato maestro?
- Il fatto che non sia riuscito a trovarmi in tutto questo tempo non significa che io fossi sparita dal mondo conosciuto.
Sentì dietro di lei Jel abbozzare una risata, contesa fra l'amaro e l'infinitamente dolce. - Non sei affatto cambiata, Dubhne.
Non sai quanto ti sbagli, commentò lei mentalmente, ma non lo disse. Non aveva alcun desiderio di discutere, non in quel luogo, e meno che mai con lui. Anzi, nel momento in cui l'aveva riconosciuto aveva avvertito un calore che non sentiva da tanto tempo sfiorarle il petto. Forse per tutto ciò che avevano condiviso nel, seppur breve, tempo che avevano passato insieme, forse per la commozione che pressoché qualunque cosa in quel momento avrebbe suscitato in lei, o forse perché era solamente, maledettamente contenta di rivederlo.
- Mi concederai qualche istante in tua compagnia?
Dal tono in cui pronunciò quelle parole, la giovane capì che si trattava di una supplica, una supplica da parte di una persona che aveva atteso tanto tempo per poter pronunciare quelle parole. Anche senza vederne il volto, percepiva in lui un bisogno disperato di parlarle, di starle vicino, di afferrare quella possibilità che anni prima lei non aveva voluto - né avrebbe potuto - concedergli.
- Sì - rispose soltanto, alla fine, dopo che furono passati diversi lunghi istanti.
– Poi sparirai di nuovo, non è vero?
Dubhne ancora non avrebbe saputo rispondere a quella domanda, nemmeno se a porgersela fosse stata lei stessa.
Depose l'ultimo fiore sulla lapide di Jack. Poi sorrise.




  
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