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Autore: yonoi    02/12/2019    9 recensioni
Un'antica villa abbandonata, attorno a cui ruotano inquietanti leggende.
Una campagna avvolta, per molti mesi all'anno, da una fitta coltre di nebbia.
Un pomeriggio d'estate e tre ragazzini in cerca di emozioni forti.
Un agente immobiliare alle prese con un difficile incarico: concludere la vendita della Cà D'Anime e affrontare i propri incubi del passato.
Prima classificata al contest "Tattoo Studio" indetto da Wurags e valutato da Juriaka sul Forum di EFP. Terza classificata al contest "Siglaaa..." indetto da Milla4 sempre sul Forum di EFP.
Genere: Mistero, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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“Ogni uomo è in potere dei suoi fantasmi
Fino al rintoccare dell’ora
In cui la sua umanità si desta.”
(William Blake)
 

5. La Casa degli amici

 
Massimo Passerini era nel pieno di una di quelle giornate che sembrano corse a ostacoli pianificate dalla sfiga in persona, secondo gradi crescenti di difficoltà.  
Tanto per cominciare, proprio quella mattina aveva ricevuto una telefonata non da parte di due ante Balotti, ormai decisamente latitante insieme alla sua offerta di cinquantamila euro, e neppure da parte del conte Filippetto, che dalla sera in cui gli aveva proposto di sfoltire le erbacce nei campi della Cà D’Anime era anche lui scomparso letteralmente nel nulla. Al cellulare, che per l’occasione attaccò le note di Suspiria con una particolare intensità di vibrazioni funeste, c’era l’ultima persona che il Passerini si sarebbe aspettato – o augurato - di sentire: la signora Poggioli detta Maga Magò, quella che gli bussava con la scopa contro il soffitto quando il volume della tivù superava la soglia del sussurro da confessionale in chiesa.
Maga Magò era altresì proprietaria del loculo di cinquantun metri quadri in cui il Passerini vegetava come Dracula nella cassa, dietro il pagamento di un canone strozzinesco di settecento euro mensili: quella mattina, Poggioli lo contattava per far presente che sua nipote si sposava e che quindi l’appartamento le serviva. “Le invierò la disdetta tramite raccomandata, ma ci tenevo comunque ad avvertirla prima. Faccia pure con comodo, non c’è nessuna fretta,” aveva aggiunto, munifica, mentre il suo ex inquilino boccheggiava sepolto sotto a due metri metaforici di terra. O forse era letame, anche se ancora non ne sentiva l’odore.
I contadini lo sanno: finché non lo vai a rimestare col badile, lo stallatico non dà fastidio a nessuno. Se ne sta buono e zitto dentro alla concimaia e leva qualche zaffata giusto per ricordarti che al mondo esiste anche lui, che è utile per far crescere le colture e che per questo merita assoluto rispetto.
Quando lo vai a muovere, allora vien su un fetore da far girare la testa: sarà per l’entusiasmo di entrare finalmente in azione, sarà che la nebbia tende a ricacciare gli odori verso il basso, fatto sta che nel periodo in cui si spargeva il letame, in paese si girava con il naso tappato e anche I Grilli chiudevano prudentemente per ferie.
Presso la sede dell’Immobiliare Reno, la pianta di ficus spelacchiato all’ingresso ignorava da sempre l’esistenza di concime e fertilizzanti in genere, nel minuscolo bagno lo scarico funzionava a regime ma l’atmosfera si poteva ugualmente tagliare col coltello, quello grosso da macellaio. Nel giro di un paio d’ore, Massimo Passerini aveva ridotto in cenere due pacchetti di sigarette, divorato con risucchi da formichiere un intero vassoio di pasticcini, litigato con la collega che non voleva saperne di mettersi alla ricerca di una casa per lui, essendo già indiavolata per conto suo.
“Rivolgiti a qualcun altro!” strepitava la Granella, avvelenata col mondo intero. “Io non voglio più saperne di voialtri morti di fame!”
Anche lei, a quanto pareva, correva le mille miglia sul circuito della sfiga: dopo mesi di trattative, l’affare con Scanabissi era colato a picco con la rapidità di una barchetta di carta dentro a un tombino. Per di più, il programma della serata non prevedeva nessun appuntamento galante.
A quel punto il Passerini adottò la stessa strategia di quando, trent’anni prima, s’era trovato faccia a faccia con la Fonsa che minacciava terrificanti vie di fatto dal ballatoio: recuperò il cappotto, guadagnò in fretta l’uscita e tirò un bel respiro soltanto quando fu a distanza di sicurezza. Il brusio del traffico che procedeva incolonnato, i clacson che inveivano contro un furgone parcheggiato in doppia fila, gli parvero rilassanti come il silenzio della campagna in pieno inverno.  
Presso la rivendita di giornali e tabacchi lo attendeva il secondo scoglio della giornata. Praticamente un iceberg che affiorava insidioso dal marciapiede, dov’erano piazzate le locandine con le notizie del giorno. Dentro al negozio, gli venne incontro una sfilza di titoli pubblicati, senza eccessive varianti, da tutti i quotidiani:
“Mistero nella bassa: trovato un terzo corpo.”
“Cadavere nel Reno, l’identità dell’uomo rinvenuto nel fiume col cranio fracassato.”
Un rotocalco aveva esiliato a fondo pagina gli ultimi pettegolezzi sui reali d’Inghilterra e strombazzava un titolo che eccelleva su tutti per piglio e fantasia: “La maledizione della maga Gisella, tutti i dettagli nello speciale a pagina tre.”
Il Passerini sapeva già di chi si trattava ancora prima di sfogliare una sola pagina: Gianluigi Balotti detto due ante. Il Punghèn. Quel nuovo disegno apparso sul muro della Cà D’Anime.
Con l’aria del malvivente colto in flagrante, si assicurò una copia del Carlino e del Corriere, oltre a una stecca intera di sigarette. Non se la sentì di tornare in agenzia ed esporre la refurtiva sotto agli occhi della Granella. Riparò nel pandino e si dedicò a letture più che esaustive.
Più o meno nella stessa sequenza, i giornali riportavano la vicenda del ritrovamento da parte del contadino Raggi. Di seguito, la salma era stata identificata da coloro che nelle ultime ore avevano segnalato la scomparsa di Gianluigi Balotti, di professione imprenditore: una moglie legittima e due amanti clandestine avevano pensato bene di accapigliarsi nei locali dell’obitorio, rimediando ciascuna una denuncia per interruzione di pubblico servizio e lesioni. Una sberla se l’era presa anche il medico legale e ora si trattava soltanto di scoprire chi delle tre aveva avuto la mano più svelta.
Un certo Dagnini Dante, responsabile di una delle palestre della Fitness e benessere, riferiva che il Balotti era rimasto vittima di un incidente nella sala attrezzata per la pesistica. No, il bilanciere in testa non gliel’aveva tirato nessuno. Ovviamente il Balotti era stato soccorso, ma da quel momento in poi se n’erano perse le tracce. Naturalmente sarei in grado di descrivere il tizio che l’ha portato via su un furgone, ce l’ho davanti agli occhi come se lo vedessi in questo preciso istante. So che la faccenda è finita in consiglio comunale ma qui la sicurezza non c’entra, il titolare ha rifiutato l’assistenza del trainer. Non sto dicendo che se l’è andata a cercare. Come ho detto, si è trattato di un incidente.
A margine dell’intervista, il quotidiano riportava un grossolano identikit, una faccia da topo con due occhietti spiritati che per fortuna non erano dell’Anguilla e neppure del Secchio. Quanto al Punghèn, il Passerini non l’aveva mai visto ma più di un sospetto, in realtà, ce l’aveva. Però mica poteva andare alla polizia a raccontare che in quel delitto, come già in quello della maga Gisella, c’entravano i fantasmi della Cà D’Anime.  
Decise di rientrare in ufficio, spaventato all’idea che i fantèsmi l’avrebbero passata liscia ma lui invece no, perché ben tre clienti dell’Immobiliare, clienti suoi per la precisione e tutti interessati ad acquistare la villa, avevano staccato un biglietto per l’aldilà nei modi più fantasiosi.
Mai come in quel momento avvertiva il bisogno di non restare solo con quei pensieri che, proprio come il letame, più venivano rivoltati in qua e in là, più gli riempivano la testa con la puzza di guai in vista.  
Se non che ad attenderlo in agenzia, oltre alla collega, c’era anche il terzo e più impegnativo ostacolo che quella giornata all’insegna della iella gli aveva riservato.  
“Gianni Draghetti è lei?” lo apostrofò il brigadiere.  
“Io veramente sono Massimo Passerini.”
“E Draghetti dov’è?” incalzò l’appuntato.
“In vacanza in Thailandia,” ammise il Ninèn. Chissà perché aveva la strana sensazione di star coprendo un malestro senza neanche sapere che cosa era successo.  
“Confermo,” si udì dietro le quinte la voce della Granella. “Il titolare è assente, tornerà a fine mese.”
L’appuntato continuava a guardarsi intorno come se Strazzamaroni fosse nascosto in qualche armadio, dietro alle scrivanie, dentro al contenitore della carta da riciclo.
“Va bene, Passerini,” brontolò il brigadiere, sfogliando una cartellina contenente chissà quali indizi schiaccianti. “Se non le dispiace, siamo qui per rivolgerle qualche domanda. Buganè Adalgisa, Fabbri Moira e Balotti Gianluigi. Erano suoi clienti?”
Ci siamo.
“Solo la Buganè e Balotti. La Fabbri era l’assistente della maga Gisella, alla televisione erano sempre insieme. Io però quella sera…”
“Lasci perdere la tivù. A noi interessano i fatti avvenuti qui in agenzia.”
“Entrambi i clienti erano interessati a una villa di campagna per la quale l’Immobiliare possiede un regolare mandato di vendita. Si tratta della Cà D’Anime in località I Grilli,” vuotò il sacco il Passerini. La sensazione che provava era quella di un cappio che cominciava a far presa attorno al suo collo.
“A noi interessano soprattutto i rapporti che intercorrevano tra il suo titolare, Draghetti Gianni, e il Balotti Gianluigi,” puntualizzò il brigadiere.
Quindi io non c’entro? Il nodo scorsoio si allentò impercettibilmente.
“Circa dieci giorni fa, ho ricevuto una telefonata dal mio titolare. Il signor Draghetti mi informava che c’era un altro cliente interessato alla villa. Dopo l’Adalgisa Buganè, naturalmente.” Quel nome scottava sulla lingua del Passerini come se avesse appena ingoiato un tizzone. “Immagino si trattasse di Gianluigi Balotti. Draghetti mi chiamava dalla Thailandia e la linea era disturbata.”
“Molto bene,” annuì il brigadiere. “Continui.”
Di nuovo l’impressione di stare rivelando fatti gravi, precisi e concordanti, proprio quello che ci voleva per un’imputazione in piena regola. Ma ormai era in ballo e quando ormai ti sei lanciato dal decimo piano non è che puoi ripensarci e fare marcia indietro. Il Passerini diede una scorsa all’agenda: “Il giorno venti novembre ho incontrato Gianluigi Balotti alla Cà D’Anime. Il cliente mi ha riferito di avere già discusso la proposta col Gianni… pardon, col signor Draghetti.”
“A quanto ammontava l’offerta del Balotti?” Il brigadiere scambiò un’occhiata d’intesa con l’appuntato. Appollaiata tra le scartoffie della sua scrivania, la Granella tendeva le orecchie come antenne.
“Cinquantamila euro, anche se dalla stima l’immobile era stato valutato per ventimila.”
“Direi che è sufficiente. Se non ha altro da riferire…”
Veramente ci sarebbero quei disegni sul muro. Se lor signori desiderano, avrei anche le foto.
Il Passerini stava già per aprire bocca, quando il suo sesto senso lo avvertì che parlarne equivaleva a levare il telo di salvataggio di sotto al famoso tizio che stava precipitando.  
“Non c’è altro, direi,” si limitò a confermare.
“Si tenga a disposizione,” concluse l’appuntato, lanciandogli un’occhiata carica di minacciosi e incomprensibili sottintesi.

 
******

 
Immobile sottoposto a sequestro giudiziario.
Così recitava l’avviso che il giorno seguente il Passerini e la collega trovarono sulla porta dell’agenzia, sigillata da molteplici giri di nastro adesivo.
Una pioggia torrenziale annullava ogni rumore e lungo la strada i fari, accesi come di notte, si squagliavano in una foschia giallognola mentre le auto procedevano a passo d’uomo. Sul marciapiede, poche ombre filavano rapide a capo chino. Un tizio in bicicletta, interamente coperto da una cerata, rischiò di travolgerli passando come una saetta sul marciapiedi.
“Qualcuno mi spieghi che cosa è successo.” Ritta sotto l’ombrello che scolava acqua da tutte le stecche, la faccia della Granella era in tinta con la pozzanghera che si allargava ai suoi piedi.    
“Mi sa che non si può entrare,” balbettò il Passerini, con insolito acume. Fece un bilancio rapido: nel giro di ventiquattr’ore, aveva perduto la casa e forse anche il lavoro. Evidentemente, la gara di campionato mondiale della sfiga, a cui si trovava iscritto suo malgrado, si svolgeva in più giornate come il Giro d’Italia. D’un tratto la maglia rosa della salute che indossava sotto a giacca e cravatta acquistò un significato del tutto nuovo e imprevisto.
“Non hai sentito ieri il telegiornale?” attaccò la Granella, che gocciolava pioggia persino dal naso. “Quel tuo cliente, il Balotti, pare fosse coinvolto in affari poco puliti. Non si trattava neppure di un pesce piccolo e, se vuoi il mio parere, in questa faccenda c’è dentro anche il Draghetti. Ci sarà pure un motivo per cui la polizia è venuta a cercarlo in ufficio.”
“Non era la polizia, erano carabinieri,” fu l’unica osservazione che uscì da sotto l’ombrello del Passerini. La sera precedente era crollato nel letto così com’era, senza neanche cavare il consueto yogurt dal frigo e senza accendere la tivù: a digiuno nello stomaco e a digiuno di notizie sui fatti della Cà D’Anime. Al posto della testa, gli pareva di avere una boccia di pesci rossi in tempesta.  
“E adesso che facciamo?” D’un tratto la Granella pareva aver smarrito tutto il suo spirito: faceva acqua non solo dalle stecche e dal naso, ma anche tra le ciglia c’era un velo tremante, pronto a straripare in un pianto dirotto.    
“Adesso si fa colazione. Poi cercheremo di capirci qualcosa,” rispose il Passerini puntando decisamente verso il caffè all’angolo, non uno qualsiasi ma quello che esibiva il miglior assortimento di pasterelle. “Per me, cappuccio e cornetto. Al cioccolato, se c’è.” Lasciò l’ordine alla collega, quindi s’incamminò diretto all’edicola.
Le locandine del giorno erano un capolavoro di sintesi giornalistica: “Cadavere nel Reno, da tempo erano in corso indagini per riciclaggio.”
I quotidiani riportavano con dovizia di particolati il modo in cui il denaro depositato in Thailandia veniva utilizzato per ottenere credito ed essere reinvestito in Italia, utilizzando il marchio Fitness e benessere. L’elenco dei reati ipotizzati dal sostituto procuratore Radicchio – traffico di armi, scommesse clandestine, droga, prostituzione – era praticamente un Bignami del codice penale.
Con l’ombrello risucchiato qua e là dalle raffiche e i giornali sottobraccio, il Passerini rientrò nel caffè tirandosi dietro una coda di pioggia.
Seguì una lunga pausa dedicata alla lettura delle notizie. Per la prima volta da quando la conosceva, la Granella aveva inforcato un paio di occhiali a catenella e scorreva le righe fiutando come un segugio. Dal cassetto dei peggiori ricordi del Passerini, sempre molto affollato, saltò fuori l’immagine della sua vecchia professoressa di matematica, intenta alla correzione di un compito in classe particolarmente catastrofico.
“Quindi, secondo te, in tutta questa faccenda c’entra anche Strazzamaroni?” domandò dopo un poco. A tutto quel polverone, lui ci credeva fino a un certo punto. Li aveva visti con i suoi occhi, i disegni della Cà D’Anime, e non aveva dubbi che anche il terzo ritratto, quello di due ante Balotti, fosse opera del Punghèn.
Strazzamaroni c’entra, e c’entrano ovviamente le sue vacanze a Phuket,” ribadì la Granella. “Ti ricordi anni fa, quando Draghetti riuscì a piazzare l’ex salumificio Zampetti per duecentomila euro? Era una bicocca peggio della tua villa, e se non sbaglio l’acquirente era proprio la Fitness e benessere.”
“Questo non spiega niente. E poi che mi dici della maga Gisella?”
“Probabilmente era coinvolta anche lei. Magari aveva ricevuto delle minacce e non ha voluto mollare l’affare.”
“Andiamo, non sta in piedi,” replicò il Passerini con uno starnuto, perché lo zucchero a velo che ricopriva il cornetto gli era andato a finire su per il naso. “Di ruderi in campagna ce n’è quanti ne vuoi. Mica si può far fuori la gente soltanto per avere due muri da tirar giù.”
“Guarda che quelli non si fan degli scrupoli. Per loro , ammazzare è roba di tutti i giorni.”  
In quell’ora che veleggiava pigramente verso il culmine della mattinata lavorativa, nel piccolo caffè non c’era nessuno.
La luce smorzata da una serie di lampade creava lunghe ombre senza contrastare il buio che veniva da fuori. Il ticchettio della pioggia, il tavolino ingombro di giornali sfogliati, tutto contribuiva a creare un’atmosfera da naufragio senza superstiti.
Nel silenzio da veglia funebre che era caduto a un tratto, le note di Suspiria echeggiarono con la potenza di un’orchestra sinfonica nel taschino del Passerini. Aggrappata alla tazza del cappuccino fumante nel tentativo di scaldarsi anima e corpo, la Granella rivolse al collega un’occhiata guardinga.
“Studio notarile Pungipeli, buongiorno,” esordì all’altro capo una voce tremula, da persona anziana. Probabilmente centenaria oppure già morta, vista l’aria che tirava. “Parlo con il signor Massimo Passerini?”
“Chi lo cerca?” rispose l’interpellato, pronto a buttar giù nel caso di trattasse del Punghèn, di Draghetti o del procuratore Radicchio in persona, tutti con la voce in falsetto e sotto mentite spoglie.
“Finalmente la trovo, signor Passerini!” esultò il vecchietto, con un trapestio di carte che s’intuì sullo sfondo. “Sono il notaio Arrigo Pungipeli, esecutore testamentario del conte Filippetto Ludovico Giorgio Marino D’Anime di Valbella.”
Il Passerini s’era già smarrito al secondo nome. Di fronte al suo silenzio, il notaio continuò: “Lei è figlio ed erede del fu Passerini Enrico, a sua volta figlio ed erede di Passerini Eleuterio?”
“Direi che sono io, però…”
“L’attendo nel mio studio per importanti disposizioni che la riguardano. Mi trova a Bologna in via del Riccio numero 10. La prego di non farmi attendere ulteriormente, ho impiegato parecchi anni per ritrovarla e adesso non vorrei che si mettesse di mezzo pure la vecchiaia. Sa com’è, a novantotto anni il tempo ormai si fa breve…”
Il Passerini rimase per un po’ col telefono appiccicato all’orecchio, a dir poco perplesso dopo avere concluso quella strana conversazione.
“Quindi?” indagò la Granella.
“Non ho capito niente,” ammise il Passerini, “però devo andare.” Pagò il conto alla cassa, salutò la collega che ancora lo guardava con le due catenelle che penzolavano ai lati del naso. Solo in quel momento, dopo averci pensato sopra per anni, gli venne in mente che la Granella assomigliava a un kiwi, quel grosso uccello brizzolato col becco come una stecca. Con un sorriso a fior di labbra, uscì dal caffè e pochi minuti dopo sfrecciava sul pandino, diretto in via del Riccio.
 

 
******

 
Lo studio del notaio Pungipeli era in cima a una scala di cinque piani, illuminata appena da un abbaino sigillato da polvere, ragnatele e dai secoli. I gradini di pietra mostravano in certi punti l’impronta infossata e lucida di coloro che, per un tempo che s’indovinava lunghissimo, avevano preceduto Massimo Passerini nell’impresa di arrampicarsi su a piedi. In un vano scavato in quei muri da catacomba era stato impiantato un moderno ascensore, probabilmente per regalare ai visitatori il brivido della sepoltura da vivi: forse per via dell’umidità eccessiva, forse perché a eccedere era il peso del Passerini, fatto sta che non appena le porte si chiusero con un fruscio discreto, la luce interna si spense, l’apparecchio sussultò e non diede altri segni di vita.
Dopo un primo tentativo, seguito da un secondo tanto per non far sempre la figura del cacasotto, il Passerini decise ch’era molto più saggio salire a forza di gambe piuttosto che finire a sua volta sul giornale sotto al titolo: “Resti umani mummificati rinvenuti all’interno di un antico palazzo.”
Neanche a farlo apposta, il dottor Pungipeli esercitava la sua professione di notaio arroccato nella piccionaia dell’ultimo piano. Il Passerini arrivò su che respirava a stento, fischiando come un merlo.
Il portone di legno scuro si aprì su un metro e mezzo di gobba e il volto dolce e decrepito di una donna. Dietro s’intravedeva il quadrato di luce morbido di una cucina, con le presine e i burazzi appesi ai loro ganci e e un tegame che borbottava sul fornello. Il Passerini seguì la donna in fondo a un corridoio in cui l’aroma del ragù di una volta, quello che resta a cuocere per almeno due ore, si mescolava alla cera dei grandi mobili in legno, armadi e cassapanche tutti ugualmente scuri.
Il corridoio era immerso in una tenebra da oltretomba e il Passerini raggiunse lo studio del notaio praticamente rimbalzando da uno spigolo all’altro. La vecchina si dileguò dopo avere dischiuso uno spiraglio e infilato dentro la punta del naso:
L’è arivè il ragazuòl,” disse, un attimo prima di scomparire.     
A quel punto il Passerini si fece coraggio e infilò a sua volta dentro alla stanza dapprima il naso, poi tutto quanto il resto.
Quello che si presentò davanti ai suoi occhi era una via di mezzo tra un labirinto e un museo. Enormi librerie dividevano la sala in corsie strette come le cavedagne. Appesi al buio in alto, grandi lampadari a gocce tintinnavano mossi da correnti invisibili.
Sui ripiani, trovavano spazio non soltanto volumi più o meno corposi, ma ogni sorta di oggetti bizzarri: civette e barbagianni, appollaiati in fila su un ciocco di legno, lo scrutavano coi loro occhi di vetro. Poco più in là, rinchiusi in una teca, facevano capolino dei pesci mai visti, forniti di una mascella così vigorosa e denti così aguzzi che il Passerini provò un certo sollievo nel leggere la didascalia sottostante: “rana pescatrice degli abissi, vive a 3.000 metri di profondità.”
Spero non qua da noi, si limitò ad aggiungere, mentre la voce tremula già sentita al telefono lo invitava a proseguire:
“Si accomodi, Passerini! Avanti, sempre dritto.”
Un’altra teca conteneva dei ragni di dimensioni tali che al Passerini ricordarono i tempi in cui furoreggiavano le bestiacce di gomma e il Secchio e l’Anguilla ne avevano infilato più d’uno negli armadietti della sala dei professori.
Una volta raggiunto il centro del labirinto, gli si parò dinanzi una scrivania monumentale, dietro alla quale era assiso un vecchietto azzimato. Quando il notaio scese dal suo scranno per venirgli incontro, il Passerini si accorse ch’era ancora più fragile e trasparente della donna del ragù. Aveva gli stessi occhi limpidi e azzurri, sul volto la medesima espressione benevola e sulla schiena una gobba ancora più poderosa.
“Prego, signor Passerini,” lo invitò Pungipeli, tentando di avvicinare una sedia imbottita che era palesemente più grande di lui e doveva pesare il doppio. “Mi perdoni se la mia collezione l’ha un po’ inquietata. Amo le cose strane, le tante curiosità di questo pazzo mondo.”
“Io l’ho trovata davvero interessante,” mentì il Passerini, per buona educazione. D’un tratto, avvertiva l’impulso di grattarsi dappertutto, come se uno di quegli aracnidi a pelo lungo fosse a passeggio su e giù per la sua schiena. Era anche incerto se dare una mano all’anziano oppure trattenersi per timore di offenderlo. Quando però si avvide che la monumentale sedia imbottita era sul punto di crollare addosso al notaio, si affrettò a sollevarla con una sola mano, la trasportò di peso fino alla scrivania e si sentì due ante per un brevissimo istante.
“Grazie Passerini e beata la gioventù! Orbene, procediamo!” Pungipeli recuperò il suo posto sullo scranno, lesto come un folletto. Da una scansia alle sue spalle levò un grosso faldone, barcollò per un attimo, riuscì a depositarlo indenne sul tavolo. “A quanto mi risulta, lei è l’erede designato dal conte Filippetto eccetera D’Anime, che in gioventù fu amico carissimo di suo nonno Eleuterio.”
“Il conte Filippetto?” Ma se era vivo e vegeto solo pochi giorni fa…
Il notaio Pungipeli frugava assorto tra i meandri del faldone. Dopo un poco, riprese: “Lei che è del posto avrà senza dubbio sentito parlare della leggenda del violinista della Cà D’Anime. Si dice che lo sfortunato musicista si sia impiccato proprio dentro alla villa e che da allora il suo spirito si aggiri per le sale, traendo dalle corde melodie inquiete e addirittura in grado di condurre alla pazzia.”  
“Conosco questa storia,” ammise il Passerini. “Me la raccontava mia nonna quand’ero un cinno. Diceva che alla Cà D’Anime accadono cose strane.” E Dio solo sa quanto aveva ragione.
“Il conte Filippetto amava molto il violino, ma soprattutto amava l’Agostina Dall’Olio, figlia dei contadini che badavano al podere,” continuò Pungipeli.
Di quale Filippetto stiamo parlando? Quello del viulèn o quello dei burattini?
“La storia dell’impiccato fu in realtà una scusa inventata dai conti D’Anime per salvare la faccia, dopo che Filippetto fuggì dal paese assieme alla ragazza. Fu il Passerini Eleuterio a sventare il suicidio, un giorno in cui aveva appuntamento alla villa col giovane conte, per accompagnarlo in cerca di funghi. Lo trovò con la corda al collo e riuscì appena a soccorrerlo con l’aiuto di una certa Ildefonsa, cameriera della famiglia. Per farla breve, l’Eleuterio convinse il conte ad andarsene e gli donò… mi faccia controllare… esatto, gli donò duemila lire in contanti, tutti i risparmi che lo stesso Passerini teneva ben cuciti nel materasso. Erano molto amici.”
“Mi perdoni se la interrompo,” intervenne a quel punto il Passerini. “Mio nonno non mi ha mai raccontato nulla in proposito. Anche mio padre, credo, non ne sapeva niente.”
“Ecco qui il testamento redatto e sottoscritto dal conte D’Anime di suo pugno.” Pungipeli gli piazzò sotto al naso una serie di fogli vergati da una stilografica sbiadita. “Mi è stato consegnato dal conte Filippetto ancora molti anni fa. Nonostante la sua vita raminga, i suoi gli conservarono il titolo di erede, anche perché non c’era nessun altro parente. Io andavo spesso ad assistere agli spettacoli di burattini in piazza, a quel tempo la buonanima e sua moglie lavoravano per una compagnia molto in voga. Lui suonava il violino e l’Agostina cuciva i costumi delle marionette. Ci siamo conosciuti in quei tempi felici.
Non durò a lungo, nel giro di breve il conte rimase vedovo e a quanto pare perse anche l’unico figlio. Fu allora che prese l’abitudine di tornare di tanto in tanto alla villa. Durante una di quelle visite, realizzò lui stesso un affresco che ritraeva la sua amata nelle sembianze di una ninfa dei campi. Era proprio così che era apparsa ai suoi occhi la prima volta che l’aveva incontrata, nei giorni della mietitura. Spesso, quando gli capitava di tornare alla villa, il conte rispolverava la sua passione per il violino. In verità suonava solamente per lei, l’Agostinella, per ricordare gli anni vissuti insieme. È tutto molto romantico.”  
“Direi invece che è strano. Quando sarebbe morto il conte Filippetto?”
“Ho qui il certificato che ne attesta la morte alla data del 22 novembre 2008. Tra poco, e per la precisione domani, saranno dieci anni prezìs.”
Ma se io l’ho incontrato solo pochi giorni fa, stava per dire il Passerini. Invece, domandò: “E in tutto questo tempo non si è fatto vivo nessuno?” E soprattutto, io che c’entro?
Il vecchio notaio si grattò i pochi capelli che ancora gli restavano tra la zucca e la gobba: “L’unico figlio è morto. Non esiste nessun altro, che io sappia, che possa far valere diritti sulla Cà D’Anime. In tutti questi anni, il mio compito in qualità di amico personale del conte D’Anime è stato ricercare l’erede disegnato. Non le nascondo che è stato come frugare in un pagliaio per cavar fuori un ago. Leggendo il testamento, ero convinto che il nome corretto fosse Passarini Eleuterio e lei non ha idea di quanti Passarini ci siano in tutta la pianura padana. A un certo punto ho dovuto sospendere le ricerche per curarmi di un brutto male. Ma anche in quei giorni, il mio pensiero era sempre rivolto alle ultime volontà del mio amico. Lei forse è troppo giovane per capire, ma quando qualcuno muore, qualcuno che è profondamente caro al nostro cuore, a chi rimane spetta di vivere anche per lui.”
“Mio nonno è morto da molti anni. Mi spiace che lei abbia cercato tanto a lungo per nulla.”
“Si sbaglia, giovanotto,” sorrise il notaio. “A questo punto, è opportuno che dia lettura delle clausole testamentarie vere e proprie: io sottoscritto Filippetto D’Anime, eccetera eccetera, nomino mio erede universale Passerini Eleuterio e in sua assenza i suoi legittimi discendenti, con diritto ad acquisire la proprietà della villa denominata Cà D’Anime in località I Grilli, nonché i campi per un totale di dodici ettari di terreno. Tradotto in soldoni, l’erede del conte è lei, signor Passerini. Non può immaginare quanto sono felice di aver finalmente adempiuto alla mia promessa, realizzando gli ultimi desideri di un caro amico.”
“Dev’esserci un equivoco.” Oppure sto sognando, tra poco mi sveglierò per andare al lavoro, troverò l’agenzia aperta e darò un bacio in fronte a Strazzamaroni Draghetti. Non so se avrò il coraggio di baciare la Granella, ma ciò che importa è che tutta questa faccenda non sarà mai accaduta.  
“Non c’è nessun equivoco, può esserne certo.” Il notaio gli rivolse un sorriso così largo che anche le orecchie si mossero, prese dall’emozione. “L’unico vincolo imposto all’erede consiste nell’impegno a conservare in buono stato l’immobile e a non deciderne l’abbattimento per nessuna ragione.”
Finalmente una lampadina si accese tra i neuroni parecchio ingarbugliati del Passerini: “Non credo che potrò permettermi le spese per restaurare quel rudere.” Certo di aver trovato una scusa coi fiocchi, andò avanti a spiegare: “Ho qualche risparmio da parte, ma sarei più interessato a investire in un campicello, proprio in memoria di mio nonno Eleuterio.”
“Qui ci sono dodici ettari di podere. E se proprio vogliamo metterla in questi termini, anche questa è pur sempre eredità di suo nonno.”
“Posso pensarci su e darle una risposta.”
“Non abbiamo molto tempo,” incalzò Pungipeli. “La successione si è aperta alla morte del conte. Come lei ben saprà, da quel momento è iniziato a decorrere il termine per accettare l’eredità: dieci anni prezìs, che scadono per l’appunto domani. Sicché lei dovrebbe decidere adesso.”  
La sensazione che tutti i ragni del mondo si fossero dati convegno sulla sua schiena rimase a lungo impressa nella mente del Passerini, insieme a una domanda: Ma se il conte era già morto e sepolto, io chi ho incontrato al teàter di buratèn?
 

 
******

 
Ad aprile, i quattro ciliegi piantati lungo il declivio della Cà D’Anime erano diventati dieci, una fila sparuta che però dimostrava di avere attecchito bene. I rami ancora spogli si erano rinforzati, moltiplicando i getti e accennando qua e là una timida fioritura. Tra le dita del Passerini, quei calici picchiettati di rosa proprio al centro ricordavano l’ultima neve, caduta all’improvviso quando già era marzo e gli stormi di rondini cominciavano a tornare.
L’è un bel disâster,” aveva detto il contadino Raggi, scrutando il cielo basso e i fiocchi che cadevano in file disciplinate.
Quando erano riusciti a tornare sulla collina dopo quella tormenta di tre giorni e tre notti, avevano trovato parecchi rami spezzati. Il Passerini non aveva fatto neppure in tempo a preoccuparsi: una palla di neve, compatta e massiccia come solo l’Anguilla sapeva farle, l’aveva centrato in pieno sfarinandosi in schegge ghiacciate giù per la schiena. Rabbrividendo, un poco per il gelo e molto per la sorpresa, il Ninèn s’era voltato in cerca del simpaticone di turno. Dietro di lui, naturalmente, non c’era nessuno.
A metà del pendio, il contadino Raggi era intento a sgombrare l’orto, a rassettare i teli che coprivano le semine e a rimettere in piedi i paletti. “Tutto bene, lassù?” aveva detto schermando la voce con la mano, per farla arrivare a quel mamalόcc di città lo stava fissando. “C’è da lavorare, qua, mica da divertirsi,” aveva brontolato, udendo una risata che in realtà proveniva dai tetti della Cà D’Anime, bianchi sotto la coltre di quella nevicata che, a sentire i giornali, non se n’era mai vista una uguale da quando c’era il paese.
Non sono io che rido, aveva commentato tra sé il Passerini, schivando un’altra palla e cavando un intero blocco, così grosso che andava bene per costruirci un pupazzo, due bottoni per gli occhi e una carota al posto del naso. Con quel proiettile era sceso fino alla più vicina breccia nel tetto e l’aveva lanciato dentro, suscitando un tripudio di voci di ragazzini e lo sbigottimento negli occhi di Elpidio Raggi.
Zitadèn, che combini?” aveva detto allora il vecchio contadino, con la pala a mezz’aria. “Fai i dispetti ai fantèsmi?”
Contro tutte le previsioni, aprile aveva portato quella fioritura imprevista. Grappoli bianchi e rosa su quei rami apparentemente stecchiti, che disegnavano l’aria di trame nodose e nere e parevano buoni per accendere il camino.
In quel periodo, la campagna era in pieno fermento e ogni angolo risuonava di voci.
Dai torrenti che ruzzolavano a capofitto dall’Appennino, arrivavano al fiume le acque del disgelo. Al pàzz di melcuntànt, dove solitamente la corrente si arrestava e restava là a cincischiare senza andare né avanti né indietro, il silenzio che regnava al tempo della nebbia aveva ceduto il passo a tutto un affaccendarsi di scrosci e gorgoglii.
Fu in quel periodo che il Passerini lasciò il suo appartamento in città. Dopo aver caricato gli ultimi scatoloni e percorso le stanze per vedere se aveva dimenticato qualcosa, aveva consegnato le chiavi a Maga Magò con un mese di anticipo sui tempi stabiliti.
“È stato un piacere, signor Passerini,” aveva cinguettato la vecchia Poggioli, che tanto per cambiare brandiva la scopa e gli venne incontro scivolando sulle pattine. “Mi rincresce perdere un inquilino come lei, così silenzioso. Se ha bisogno di referenze…”
Il Passerini rispose che non gli occorreva altro. Un po’ di magone in realtà ce l’aveva, all’idea di lasciare quelle quattro pareti dove di lui, ormai, non era rimasto niente. Attraversando le stanze, sgombre e con le tapparelle abbassate, era rimasto sopraffatto dal silenzio. Solo il grande frigo della cucina gli rimandava il suo ronzio rassicurante.
Caracollando sul pandino con gli scatoloni che ostacolavano la visuale, si era avviato in direzione della campagna. I rumori del traffico della prima mattina giungevano ovattati come se intorno a lui non ci fossero camion carichi di derrate, auto ferme ai semafori e motorini sfreccianti, ma soltanto la quiete senza tempo dei campi, il fruscio del fiume che attraversava la pianura diretto al mare e davanti a lui il nonno Eleuterio, col badile e la zappa sulle spalle ricurve.  
Dopo un breve tragitto parcheggiò di fronte alla sede dell’Immobiliare, che pareva una Cà D’Anime in miniatura, relegata nell’ombra dall’avviso di sequestro sbiadito dalla pioggia. Sulla vetrina, dove erano ancora erano appesi vecchi avvisi di affittasi, lo smog aveva steso una patina scura, a colpi di cazzuola a giudicare dallo spessore.
Del Draghetti non s’erano più avute notizie. Anche l’inchiesta relativa alla morte e ai proficui traffici di due ante Balotti doveva essersi arenata da un po’, fatto sta che i giornali avevano smesso di parlarne. All’edicola, i quotidiani erano tornati a occuparsi di politica e sui rotocalchi fioriva il gossip sui reali d’Inghilterra, le principesse di Monaco, qualche volto della tivù, insieme alle prime diete per arrivare pronti alla prova costume.   
Poco più in là, era stata aperta da poco un’agenzia di viaggi. Dalla porta filtrava un odore di arredi nuovi. Scalza su un telo azzurro, mosso qua e là per rappresentare le onde del mare, la collega Granella era intenta a disporre in vetrine conchiglie e dépliant. Alle sue spalle, un poster mostrava spiagge di sabbia candida, un’amaca tra due palme e un panda in bermuda, che poi era il logo del tour operator.
“Anch’io sono in partenza,” sorrise il Passerini. “Ci vediamo al paese.”
“Quindi alla fine ti hanno appioppato quel rudere. Voglio proprio vedere come riuscirai a tenerlo in piedi. Già ti avranno pelato con le spese di successione.”
“Infatti, non ho più un soldo,” rise il Passerini. “Per ora mi occupo solo delle colture. Speriamo di riuscire a vendere due radicchi.”
La Granella finì di sistemare un veliero in miniatura tra i marosi di tela azzurra, dopo di che scese dal ripiano con cautela, cercando le scarpe con le punte dei piedi.
“E del Draghetti, hai più avuto notizie?”
“Secondo me è rimasto in Thailandia, ad aspettare che si calmino le acque.”
“Forse non tornerà,” annuì la Granella, dirigendosi verso una scrivania decorata con il panda in bermuda, questa volta in peluche. Da un cassetto cavò una busta e la infilò nella tasca del Passerini: “Tu però, vedi di non sparire. Fammi sapere come procede con i lavori e i radicchi.”
Solamente più tardi, quando era già alla villa e cercava di raccapezzarsi tra gli scatoloni impilati, il Passerini sentì qualcosa che gli pungeva nelle tasche e si ritrovò in mano la busta della Granella. Dentro, c’erano duecento euro in contanti e un biglietto: “Ogni fine è un inizio,” scriveva la collega, con la sua calligrafia simile a zampette di uccello. “Stammi bene e non mangiarteli tutti in pasticcini.”
Per un attimo, il Passerini si sentì come il conte Filippetto, soccorso in extremis da suo nonno Eleuterio. Mentre frugava a caso in cerca del fornelletto, del sacco a pelo e della lampada da campeggio – dentro alla Cà D’Anime si gelava - incominciò a pensare a come avrebbe potuto far fruttare quella piccola somma: ovviamente pensava ad altre colture, ma forse poteva anche concedersi lo sfizio di un secchio di vernice, per cancellare quei famosi disegni che per fortuna nessuno, a parte lui, aveva mai visto.    
Soprappensiero percorse corridoi e vani ombrosi, finché non arrivò alla sala degli affreschi.
Ritratta di profilo su un orizzonte di colline e cipressi, la ninfa campestre fissava con lo sguardo un punto lontano. Degli inquietanti schizzi che ritraevano la maga Gisella, la moracciona coi cavatappi e due ante Balotti non c’era alcuna traccia, neppure una macchia a indicare che un nuovo strato d’intonaco era stato spalmato là sopra di recente. Persino il pentacolo e il caprone erano svaniti nel nulla.
Bella, Ninèn, che fai? Hai visto un fantasma?” saltò su a un tratto una voce ben conosciuta.
“Se cerchi i disegni, sono spariti tutti insieme al Punghèn,” attaccò la seconda. “Meglio così, facevano proprio schifo. Se vuoi te lo faccio io, un bel ritratto. Avevo nove in disegno.”
 “Chissà dov’è andato a finire, quel bravo umarell,” riprese l’Anguilla. “Forse non aveva più niente da fare qui, oppure nessuno si ricordava più di lui.”
“Io direi che lui c’ha messo dello sbuzzo[1], per farsi ricordare,” osservò il Passerini, che si sentiva ancora un fuorilegge a piede libero. Nonostante fossero passati dei mesi, continuava a pensare che nell’ufficio del procuratore Radicchio, in tutte le stazioni dei carabinieri e addirittura presso la polizia thailandese, fosse affisso un manifesto con la sua foto e la scritta wanted, come nei film western.
“Forse il compito del Punghèn era semplicemente proteggere la villa,” azzardò il Secchio. “Adesso sarà andato a farsi una pennichella al camposanto insieme al suo furgone. Tra l’altro, mi sa che gli era scaduta la patente. Da un bel pezzo, direi.”
“Voi invece non ci pensate proprio, a farvi un bel sonno?”
“Noi siamo tuoi amici,” rise l’Acciuga. “E finché starai qui ci saremo anche noi, per fare un po’ di balotta insieme come ai bei vecchi tempi.”   
Mo che bellezza,” rispose il Passerini, che non voleva ammetterlo ma in fondo era contento.
Il giorno seguente, dopo avere trascorso la notte insonne non per via dei fantasmi ma per il gelo artico che infestava la villa, il Passerini uscì all’alba per scaldarsi le ossa, più che per lavorare. Lungo il pendio pareva che fosse tornata d’un tratto la neve. Ovunque si ammassavano quei riccioli di lanugine che la primavera dei pioppi manda a spasso col vento.
Tutt’intorno regnava il silenzio incantato della mattina presto, interrotto soltanto dall’abbaiare di un cane che giungeva a folate da qualche casolare. Il Passerini, che quella mattina aveva deciso di dissodare un altro pezzo di terra e si sentiva sfinito ancor prima di cominciare, si fermò ad ascoltare: quel richiamo che andava e veniva insieme alla brezza, gli aveva messo addosso una gran nostalgia. Era ancora assorto nei suoi pensieri quando dalle file imbiancate dei pioppi gli venne incontro un bracco tale e quale alla Trifola. O meglio, un mucchio d’ossa dotato di quattro zampe e un mozzicone di coda che batteva l’aria a destra e a manca, in preda a un parossismo di festa.
Quel cane che, a guardarlo, pareva centenario, saliva il pendio ansando con la lingua di fuori. Forse perché in procinto di tirare le cuoia o forse con l’intenzione di piazzare un paio di poderose leccate sul primo pezzo anatomico di proprietà del Passerini – mani o faccia o entrambi – che gli fosse capitato a tiro. Sul dorso ispido si distingueva una macchia talmente riconoscibile e familiare che il Passerini, a quel punto e alla faccia dell’evidenza, non ebbe più dubbi.
“Qua Trifola! Vieni qua, bello!”
Il bracco passò sfiorando le gambe del Passerini, acchiappò una carezza al volo poi proseguì la corsa e se ne andò così com’era venuto, sparendo tra i cespugli e la bambagia dei pioppi.
Solo allora il Passerini si accorse dell’altra figura ferma più a valle, nei pressi della Cà D’Anime. Si trattava di un tizio che indossava una palandrana d’altri tempi e teneva un violino posato sulla spalla, come fosse in procinto di attaccare a suonare.
“Signor conte!” chiamò il Passerini, sbracciandosi dalla cima del colle e senza rendersi conto di quell’assurdità. “Signor Filippetto! È mica suo quel cane?”
Vista da lassù, nel vento che iniziava a spirare più forte, la piccola figura era poco più di un’ombra. Il Passerini la vide sollevare la mano in segno di saluto, dopo di che la brezza la portò via con sé. Fu a quel punto che la melodia malinconica di un violino iniziò a farsi sentire per la campagna intorno, per tutta la pianura e fino all’argine del fiume, finché fu superata dal canto del primo usignolo della stagione.
 
 
 
 

[1] Creatività, inventiva.
  
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