Anime & Manga > Inuyasha
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Autore: LarcheeX    15/12/2019    4 recensioni
I pezzi mancanti per collegare due storie.
I ricordi necessari per raggiungere l'altra parte.
I gesti impossibili per tornare indietro.
Questa storia collega "Come un fiore da un prato" a "Scattered Shards".
Genere: Angst, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: inu taisho, Sorpresa
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Frammenti'
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oh ehi.
METTETE GIù QUEI FORCONI AIUTO

Dicevo.
Salve, è da un po' che non ci si vede :DDD
Chiedo di nuovo scusa per la mia sparizione, ultimamente mi è molto difficile mettere in fila due cose decenti, e credo che un po' di capisca anche da questa storia. Ma le cose con molto ordine, allora.
Il motivo per la mia assenza è in realtà molto semplice: ho cominciato a lavorare. Quindi il mio tempo non è più diviso in "studio-scrittura", ma in "studio-scrittura-lavoro" e ho molto meno tempo di quello che avevo prima. Il primo mese è stato una mazzata sul grugno, ma ora sono finalmente riuscita a recuperare un ritmo umano e decente, quindi posso dire con sicurezza che a breve arriverà il settantaduesimo capitolo di Scattered Shards.
Perché sto parlando di Scattered Shards su questa storia?
Perché questo è uno dei pezzi mancanti, una delle storie che collegano le varie cose che ho scritto, un paio di spiegazioni e indizi interessanti per chi vorrà trovarli. Quindi probabilmente se la leggete senza avere alcuna nozione delle puntate precedenti potrebbe essere tutto un po' confuso.
Ho deciso di pubblicarla adesso perché devo dare a voi lettori qualche momento per metabolizzare il tutto, perché sapete che il cervellino di qualcuno sta dando i numeri e quindi questo è un ottimo momento per chiudere da una parte e aprire dall'altra >:D
Inoltre, tenevo da parte questa storia per l'occasione in cui mi fossi trovata in estrema difficoltà a riprendere a scrivere in modo coerente, perché è più semplice da scrivere del resto e rosico di meno (termine tecnico) in caso di errori..

Quindi niente, buona lettura, e ci vediamo dall'altra parte <3






 
Missing pieces
 
Il migliore, il più forte, stimato, temuto
 
Da quanto tempo era lì?
Strizzando gli occhi, si rese conto che non fosse la domanda più importante.
Dov’era?
Nel bianco.
Solo sconfinato, immoto bianco.
Era l’unico punto di colore in un paesaggio che sarebbe potuto essere infinito, e al contempo una piccola scatola chiusa, con lui al suo interno.
Si osservò le mani: grandi, appuntite, forti, callose, portatrici di spade e di morte, ma anche di carezze. Aveva impugnato potenti spade, aveva seminato i propri nemici, aveva spazzato via le vite di molti demoni, ma aveva anche sfiorato le guance di qualcuno, i suoi fianchi morbidi e aveva creato la vita.
Aveva ruggito.
E aveva baciato.
Si disse che se si fosse guardato allo specchio, si sarebbe riconosciuto, ma in quell’infinito candore non c’erano superfici su cui potesse osservare la propria immagine, per cui alzò le dita per tastare il proprio viso: zigomi fieri, ciglia corte e ispide, sopracciglia folte, orecchie a punta.
Capelli corti davanti, ma lunghi dietro. Bianchi. In una coda.
Aveva un abito in tono con tutto il resto.
Scese sul collo, trovando uno squarcio ampio quanto l’asta di una lancia. Ci avrebbe potuto infilare le dita dentro, e sarebbe spuntato dall’altra parte. Però non faceva male.
Quel buco era lì, ma al contempo non era lì.
Gli fu sufficiente, però, per capire che fosse morto. Qualcuno lo aveva ammazzato.
Un grande come lui era stato ucciso.
Un grande... un grande cosa?
Un grande cretino, ammise infine con un sospiro, perché era morto per una ferita frontale, che avrebbe dovuto parare con facilità.
Anche i Grandi Generali muoiono, alla fine.
Ecco qua! Era stato un Generale! Il migliore! Il più forte! Stimato! Temuto!
Morto.
 
Un gelido fantasma
 
« C’è qualcuno. »
Si riscosse, ma quella voce non apparteneva a nessuno, era solo un’allucinazione, e la sua testa si abbassò di nuovo, ciondolante. Era esausto, non sapeva dove andare. Aveva camminato per anni, ma non si era mai mosso, era intrappolato lì, senza ricordi al di là del proprio nome.
Sensazioni della propria essenza lo sfioravano, ma rimanevano distanti, parole sulla punta della lingua che non sarebbero mai state espresse e che l’avrebbero tormentato per sempre, in quel luogo accecante da cui non riusciva a fuggire.
« So che mi hai sentito. »
Si riscosse di nuovo. Non era un’allucinazione allora!
« Non sono un’allucinazione. »
« Ma dove sei? » chiese, la voce che graffiava nella gola.
« Questa è l’unica domanda a cui non posso rispondere. »
« Perché no? »
« Perché la mia anima non esiste più. »
« E allora come fai a essere? »
« Sono solo una coscienza. »
Non era una risposta adatta alla sua domanda, ma era abbastanza per fargli capire che non lo sapesse nemmeno lui. Lui, la voce bassa e stentorea come un tuono, che non era ma aveva coscienza.
Un concetto incomprensibile, per un guerriero come lui. Era Hayashi quello sapiente.
Hayashi! Un amico, un compagno! Lui era vivo, vero?
Come se l’avesse evocato, gli parve di sentire la sua presenza, da qualche parte in quel bianco. Gli parve che gli fosse passato attraverso come un gelido fantasma, e che fosse sparito nel nulla, anche se non era propriamente apparso.
« Sei Hayashi? » chiese con apprensione.
La voce rise: « Non so chi sia. »
« E allora chi sei? »
« L’ho già detto, non sono. »
« E di chi è la tua coscienza? »
Non ci fu risposta.
 
Bianco e terribile
 
Aveva provato a interrogare ulteriormente la voce, ma per un lungo periodo fu di nuovo da solo con sé stesso e la paura di non sapere nulla di quel sé. Forse era stato crudele, e quello era un inferno che avrebbe dovuto sopportare per sempre, fino alla follia, fino a disgregarsi e diventare solo una coscienza senza corpo.
« Sei ancora qui. »
Saltò in piedi, sollevato. Che fosse la sua stessa mente a cedere e inventare un interlocutore o l’effettiva, mistica realtà in cui era caduto non era importante, aveva bisogno di parlare, di ricordare.
« Non dovrei? » chiese.
« Di solito le anime qui passano e basta, poi svaniscono e vanno dall’altra parte. Tu sei rimasto. »
« Come vado dall’altra parte? »
Un’altra risata profonda scosse l’inconsistente universo: « Credi che, se lo sapessi, sarei ancora qui? »
« E perché sei qui? »
« È la mia punizione. »
« Punizione? »
« Per ciò che ho fatto. »
« E cos’hai fatto? »
Di nuovo il silenzio, ma a quell’occasione la sua mente si mise al lavoro: si era meritato una punizione? Aveva commesso qualcosa di abominevole, in effetti, lo sapeva anche senza conoscere la natura del suo crimine.
O la contro-natura del suo crimine.
La sua mente vide qualcuno di bianco e terribile, ma non ne fu spaventato. Se ne sentiva attratto, amava quella figura come e più di sé stesso, e l’amore si mescolava con la pena, la colpa, l’ammirazione, la paura del futuro. E se anche quell’individuo puntava un dito lungo e affilato contro di lui e lo disprezzava, sapeva che non poteva far altro che adorarlo.
« Sesshomaru » mormorò, e il cuore si strinse in una morsa violenta, gli occhi pizzicavano. L’aveva lasciato da solo quando lui aveva bisogno di attenzione, cura, gentilezza.
La voce non rispose ma, per qualche bizzarra sensazione, ebbe l’impressione che avesse sentito.
 
Una donna, una principessa
 
Si era convinto ormai di meritarsi quel castigo, perché era stato egoista e aveva fatto soffrire suo figlio. Ma perché l’aveva fatto, perché aveva lasciato ciò che aveva di più caro su quel mondo, perché aveva lasciato che gli venisse portata via la possibilità di proteggerlo?
« Quindi questo è ciò che succede dopo la morte? »
« No, dopo la morte ci si reincarna. »
« Come fai a saperlo? »
« Perché l’ho visto » fu la solenne replica: « è questo ciò che mi è stato imposto: guardare tutte le anime del mondo passarmi davanti, dall’altra parte, in un altro corpo, e rimanere qui a impazzire nell’impossibilità di fare lo stesso. Ho visto di tutto: » e, mentre gli raccontava delle anime che trapassavano, i simulacri delle loro antiche essenze apparvero come spettri, funghi evanescenti e fumosi che crescevano dal candido pavimento e si disperdevano subito dopo, ascendendo verso l’alto. Ne vide chiaramente solo pochi: una bambina dalla pelle scura che chiamava suo padre, una volpe dai capelli rossi, una femmina di cane con i capelli corti che urlava e consumava i propri polmoni inesistenti in un’incomprensibile maledizione, poi una donna, una principessa, i capelli neri e lunghi che ondeggiavano come mossi dal vento.
Quel fantasma non sparì allo stesso modo degli altri: lo riconobbe, gli sorrise e mormorò: « Mi dispiace. » Parole che rimbombarono nelle sue orecchie. Non era lei che doveva scusarsi, era lui il colpevole, lui il vigliacco!
Balzò in avanti, sentì la propria voce gridare, in uno strillo che sperava avesse raggiunto ciò che rimaneva di Izayoi anche nella sua vita futura. « Izayoi » era diventato un lamento, il rammarico e il terrore avevano consumato la sua anima, che vibrava, corrotta. Si sentì trascinato verso il basso, fuori dal bianco, verso il mondo, dove sarebbe tornato come spirito piangente all’eterna ricerca di consolazione, all’eterna incapacità di averne.
Come poteva essere già morta?
« Non è già morta » la voce lo trasse di nuovo nel bianco, e il mondo reale scomparve.
« In questo spazio il tempo non esiste, i morti non hanno data. »
« Che intendi? »
« Intendo che la tua Izayoi potrebbe essere morta anni dopo di te. Ma poi cosa importerebbe, in caso lei lo fosse? »
 
Un capriccio del tempo
 
Era umana, era ovvio che prima o poi avrebbe raggiunto quel posto, e non comprendeva la natura della propria disperazione. La verità era che mancavano ancora dei pezzi, ancora la sua essenza non era completa, e non avrebbe mai potuto passare dall’altra parte se non fosse stato tutto intero. Non aveva idea di come potesse saperlo, ma era anche certo del fatto che fosse vero.
Lui non era come la voce, lui si meritava di avere un’altra occasione, e si sentì più leggero nel contemplare quell’idea. Persino l’aldilà non era così spaventoso, persino lì vigevano delle regole ed esisteva una sfida che poteva superare.
Ma per farlo, doveva continuare a parlare. Il pensiero non era abbastanza, l’anima doveva esprimersi al massimo della sua potenzialità per definirsi, e fu quella la soluzione.
Siamo il riflesso di coloro che amiamo, nacque in lui la vera consapevolezza, e siamo l’immagine che li genera. Siamo il risultato di coloro che odiamo, e la causa che li provoca. È questa la realtà.
« Un modo presuntuoso di dire che siamo tutti collegati » lo schernì la voce.
« Tu sai chi sono io, vero? »
« Sei la causa primigenia della mia condizione. Il padre di Inuyasha. »
 
« Non ha senso tutto ciò! Perché combattere, quando possiamo convivere? » gridò. L’umano non rispose, emise un grido belluino. Non era più umano. Si sentiva svenire, le fiamme bruciare la sua pelle, il fumo soffocare il suo petto, il sangue fuoriuscire dalle ferite inferte dal drago.
La lancia lo perforò, la casa crollò, e tutto fu nero, e tutto fu bianco.
 
Ancora più indietro.
 
Quando il soffio vitale tornò in lei, Izayoi si contrasse senza coscienza e con l’ultima, potente, spasmodica spinta donò la vita a suo figlio. Nel buio, tra l’odore del sangue e degli umori del parto, si levò uno strillo flebile eppure sonante, abbastanza da acquietare ogni altro suo senso e dilatare il tempo. Quel pianto vitale lo riportò al giorno in cui era nato Sesshomaru, quando la forza di Seiya l’aveva buttato fuori e lui aveva visto per la prima volta suo figlio. Era un cane piccolo dai ciuffi sparsi che sembrava debole ma che non esitò ad alzare il muso per odorare e conoscere per la prima volta e appendersi con i denti alla sua coda.
Non c’era nulla di simile a quel parto umano e contro natura, ma il sentimento era lo stesso.
Raccolse suo figlio, lo volle coprire con la propria coda. Le sue piccole mani appuntite e violacee si alzarono, afferrarono istintivamente il pelo bianco.
Poi vide le sue orecchie.
Inuyasha.
« Ti ho già incontrato » mormorò alle sue piccole orecchie morbide, il tono tremante per l’emozione: « per un capriccio del tempo. Non potrò mai prender parte di ciò che sarai, ma ne sarò fiero lo stesso. Buona fortuna Inuyasha. »
Izayoi rinvenne, e istintivamente alzò le braccia per accogliere suo figlio. Le sue mani ancora tremavano per la fatica e il suo collo era ancora coperto di sudore, ma la sua presa non vacillò mentre lo stringeva a sé e lo benediceva.
« Voglio che si chiami Inuyasha. »
Lei si riscosse da quell’idillio e tornò alla realtà di pericolo.
« Vai » la incitò e, quando lei scomparve, l’umano apparve.
E fu nero, e fu bianco.
 
Ancora
 
Le lacrime rigavano il suo volto.
Ecco chi era.
Un generale, un amico, un padre, un amante e un amato, un padre, ancora.
Una leggenda pronta per essere narrata.
Una storia da essere scritta ancora.
« Sono pronto » dichiarò.
« Non lo sei » gli disse la voce, sprezzante: « nessuno lo è. Ma a te è concesso andare. »
Una porta apparve davanti a sé, bianca come il resto, ma di una tonalità sfolgorante che fece ingrigire tutto l’ambiente attorno. Era composta da pannelli di una materiale sconosciuto, coperti da una tela indefinibile dalla consistenza impalpabile. Eppure era lì, pronta per essere aperta.
Alzò una mano, ma poi la riabbassò.
« Mi hai aiutato » enunciò.
« Non ti illudere » rispose il suo misterioso interlocutore: « L’ho fatto per noia. »
« Ma l’hai fatto. »
Lo udì ridere con pura e velenosa cattiveria, se lo immaginò mentre si piegava sulle ginocchia per riprendere il fiato necessario per canzonarlo ancora: « Tuo figlio soffrirà immensamente a causa mia, e io godrò del suo dolore » annunciò: « più di una volta. »
« E chi ha vinto alla fine? »
Non ci fu risposta. Nella sua mente, la voce aveva taciuto, colta alla sprovvista. L’atmosfera mutò, e il silenzio non fu più ironico, ma carico di qualcos’altro che non riuscì a definire. Sembrava quasi essersi fatto solido, e tosto dal nulla apparve una massa amorfa che rimase per un lungo istante sospesa nel vuoto. Poi prese la forma di un uomo alto, dai capelli corposi e mossi, dalla pelle diafana, dagli occhi vermigli. Sul suo volto era apparso un ghigno arrogante.
Non spiegò il proprio silenzio, lo osservò con occhi freddi. Qualsiasi cosa fosse successa, qualsiasi sentimento avesse provato pochi attimi prima, non ve n’era più traccia. Un’altra porta apparve di fronte a quella che già si era manifestata, ma il suo bianco non era puro, era invece sporco.
« Non vuoi passare dall’altra parte? » domandò.
« E perdere tutti i miei ricordi? » ringhiò l’altro: « Certo che no. Ho ancora una vendetta da compiere. E tuo figlio morirà per mano mia. Ti pentirai di tutto questo. »
Avrebbe dovuto preoccuparsi e provare a fermarlo, ma non lo fece. In un certo senso, ebbe pietà di quell’essere colmo di furia, delle sue emozioni feroci che non vedevano oltre il proprio obiettivo.
Misero mano alle porte.
Lui sarebbe andato avanti.
L’altro sarebbe tornato indietro.
Entrambi avrebbero vissuto, ancora.
  
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