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Autore: Roscoe24    20/12/2019    0 recensioni
Le tre storie presenti in questa raccolta sono state scritte per il contest di novembre "Regalami un sogno" indetto dal gruppo Facebook Fanfiction Shadowhunter Ita
Genere: Azione, Commedia, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Alec Lightwood, Altri, Isabelle Lightwood, Jace Wayland, Magnus Bane
Note: AU, Raccolta | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Ciao a tutti!
Questa è la terza storia che partecipa al contest.
In realtà è stata la prima che ho scritto, sebbene in ordine sia l’ultima. Le parole in questo caso erano: canarino e studio, mentre la canzone era Country Road di John Denver.
Mi piaceva l’idea di immaginarmi i Lightwood da piccoli ed è nato tutto ciò. Spero vi piaccia!
Ancora una volta, ringrazio Rurijo Sama e chiunque abbia deciso di proseguire a leggere questa raccolta fino a questa ultima storia.
Mi sono divertita molto a scrivere queste storia, soprattutto perché l’idea dei prompt era nuova per me!
Vi saluto, a presto! <3



                                                                           ◊



                                                  I Lightwood adottano un canarino.



Alec ha nove anni e, come a tutti i bambini, gli piacciono tante cose.
La pizza, i muffin al cioccolato, le patatine fritte, i videogames e i libri; la sua cameretta con tutte le sue cose, la coperta degli Avengers – lui e suo fratello Jace litigano sempre su chi sia il più forte, sua sorella Isabelle, invece, è convintissima che sia la Vedova Nera.
Gli piace guardare i cartoni animati e i film fantasy – fare la maratona di Harry Potter durante il periodo natalizio è ormai una tradizione, in casa Lightwood. Gli piace giocare con i suoi fratelli e dormire tutti nello stesso letto, quando, dopo aver passato tutta la sera a inventarsi giochi sono troppo stanchi per tornare nelle rispettive camere. Di solito succede che Jace ed Isabelle –  il primo più piccolo di un anno, la seconda di due – si addormentano nel suo letto e lui deve farsi piccolo piccolo per lasciare a loro più spazio.
Ad Alec piacciono tantissimo quelle serate. E la mamma li lascia sempre fare. Il bambino sospetta che le piaccia trovarli uno vicino all’altro la mattina, quando li va a svegliare per andare a scuola.
La scuola… Un’altra delle cose che gli piace. Non troppo, ma diciamo che in una scala da uno a dieci, dove uno sono i broccoli lessi e dieci è la cioccolata calda con i marshamallow, si  trova ad un onesto sei – lo stesso livello dei dolci alla carota (buoni, ma non buonissimi).
Va abbastanza bene, a scuola, se deve essere onesto. La sua materia preferita è geografia perché ad Alec i vari posti del mondo piacciono tantissimo, mentre la matematica… bleah, la matematica  è addirittura sotto ai broccoli lessi, è lo zero per eccellenza – come il divieto che ha imposto papà di non tenere animali in casa. Ecco, quel divieto rientra, invece, nelle cose che ad Alec non piacciono per niente. Papà dice che non si possono tenere animali in casa perché la mamma sta per partorire e un cucciolo e un bebè sono troppo impegnativi da gestire. Per questo Alec è un po’ arrabbiato con suo padre.
Niente cani in questa casa, bambini!  - aveva detto, quando lui e i suoi fratelli gli avevano chiesto se potevano prendere un cucciolo di labrador.
Ma loro un cane lo volevano. Eccome se lo volevano!
Alec ne aveva persino parlato con il suo amico e compagno di banco Magnus, che però aveva un gatto con un nome buffissimo tipo Presidente Miao, e lui gli aveva detto che forse doveva anzi chiederlo alla sua mamma.
Alec lo reputava un consiglio saggio. D’altronde, Magnus aveva chiesto un gattino alla sua mamma e l’aveva ottenuto, quindi, forse, se anche lui avesse chiesto un cane alla sua forse gliel’avrebbe regalato.
Così, una mattina di ottobre, mentre è seduto a tavola per fare colazione, Alec attira l’attenzione di Maryse, che è ancora ai fornelli, intenta a cuocere i pancakes. L’odore riempie l’aria e fa brontolare lo stomaco affamato di Alec.
“Mamma, stavo pensando…” Comincia il piccolo, guardando i suoi fratelli, che annuiscono vigorosamente, dandogli man forte. La sera prima, mentre erano in camera di Jace, avevano fatto una riunione speciale e avevano discusso sulla possibilità di parlare anzi con la mamma della questione labrador. Sembrava un buon piano. Cercare di convincere lei, che a sua volta avrebbe convinto papà, e così avrebbero ottenuto il cane che tanto desideravano.
«Lo chiameremo Thor,»  aveva sentenziato Alec, «Come l’Avenger più forte.»
«Non pensarci nemmeno!
» Si era indignato Jace, «Lo chiameremo Tony!»
«Tony non è un nome da cane!»
«Sì, invece, che lo è!»
«No, invece!»
Alec aveva persino rivolto una risoluta linguaccia al fratello.
A quel punto, Isabelle, che a sette anni era già testarda e restia a sentirsi dire di no, aveva alzato il visetto paffuto e aveva affermato, convinta ed irremovibile, che erano entrambi in torto.
«Siete degli stupidi se pensate che prenderemo un cane maschio. Prenderemo una femmina e la chiameremo Natasha.»
«Perché una cane femmina?»
Avevano ribattuto entrambi i bambini.
«Perché in questa casa ci sono tanti maschi e poche femmine! Ci siete voi due, papà, e quando uscirà dalla pancia della mamma, ci sarà anche Max. Tanti maschi, poche femmine. Il nostro cane, quindi, sarà una femmina!» 
«NO!»
Si erano opposti in coro Alec e Jace.
«SI!» Si era altrettanto imposta Isabelle.
Quel battibecco era andato avanti fino a quando la discussione non aveva portato degli strilli che avevano attirato l’attenzione di mamma e allora, il trio – che a volte sapeva essere davvero pestifero – si era ammutolito. Avevano assicurato alla mamma che tutto andava bene e che stavano solo facendo finta di litigare. Maryse alla fine aveva ceduto e se n’era andata, lasciando però la porta della cameretta aperta, in modo che riuscisse a sentire meglio i discorsi dei suoi figli.
Adesso, la parte importante era parlare alla mamma. Per questo Alec fa un sospiro grosso e continua.
“Stavo pensando che sì, insomma, noi potremmo… prendere un cane.”
Maryse si volta, il suo pancione che si muove con lei, e guarda il maggiore dei suoi figli con stupore. “Pensavo che la questione cane fosse archiviata.” E poi fece passare lo sguardo anche su Jace ed Isabelle perché era sicura come lo era del sorgere del sole, che quei due fossero coinvolti. Lo erano sempre, del resto. Se si trattava di uno solo dei suoi figli, era certa che anche gli altri due fossero parte integrante di qualsiasi piano le loro testoline avessero elaborato.
Come la volta che Jace era caduto dall’albero in giardino, spaccandosi un braccio, perché Isabelle aveva avuto la brillante idea di costruire una casetta sull’albero, da soli, e per sondare il territorio aveva mandato Jace sull’albero perché era il più bravo ad arrampicarsi.
(Due settimane di punizione.)
O come la volta che Alec si era rotto il naso perché Jace l’aveva sfidato a correre per strada il più velocemente possibile con gli occhi chiusi. Lui era inciampato ed era caduto di faccia.  
(Altre due settimane di punizione.)
O, ancora, come la volta che Isabelle si era sbucciata le ginocchia perché Alec l’aveva spinta giù dalla bicicletta in corsa, convinto che in realtà le stesse insegnando a mantenere l’equilibrio.
(Di nuovo, punizione.)
I suoi figli sono delle pesti, talvolta, e Maryse ne è pienamente consapevole.
“Non possiamo prendere un cane, bambini.”
I tre si allungano sul tavolo della cucina, quasi spalmandosi sulla superficie in legno. “Perché?” Lagnano, in coro.
“Perché i cani vanno portati a spasso, fatti giocare, richiedono molto tempo e non è il momento adatto per prenderne uno.”
“Perché Max sta per uscire dalla tua pancia?” Domanda Isabelle, i lunghi capelli neri che le incorniciano il visetto paffuto. I suoi occhi sono neri come quelli di Maryse. È l’unica, in effetti, ad averli come la madre.
“Papà ha detto così.” Aggiunge Jace, quasi come se volesse giustificare la domanda della sorella.
Maryse sospira e spegne il fuoco sotto alla padella. Sistema i pancakes in tre piatti e ne appoggia uno di fronte ad ognuno dei suoi figli.
“Lo so quanto vi piacerebbe avere un cane. Sono degli animali bellissimi e piacciono molto anche a me, ma… in un certo senso vostro padre ha ragione. È difficile gestire un bambino appena nato e un cucciolo. Hanno entrambi delle esigenze e non è giusto non poter riempire entrambi delle attenzioni che meritano, vi pare?”
I bambini annuiscono. La mamma ha ragione, ma è comunque triste non poter avere un Thor/Tony/Natasha che gira per casa e scodinzola e riporta la palla.
Si mettono a mangiare la loro colazione in silenzio, scoraggiati dal fallimento del loro piano, quando ad Alec viene un’idea.
“Però potremmo prendere un gatto! Magnus ha un gatto e dice sempre che l’unica cosa che fa è dormire e mangiare.”
“Sì, sì! Un gatto va bene lo stesso!” Afferma Isabelle, mentre Jace si limita ad annuire con vigore, dal momento che ha la bocca troppo piena di cibo per riuscire a parlare.
Maryse, nonostante tutto, si trova a sorridere, perché trova tenera quella fiammella di perseveranza che caratterizza i suoi figli.
“Papà è allergico ai gatti.” Li informa, e la delusione che per la seconda volta attraversa i volti del trio, le fa venire in mente una cosa. Un compromesso. “Facciamo così, oggi dopo scuola, andiamo al negozio di animali e vediamo di prenderne uno piccolo, va bene?”
I visi dei bambini si illuminano all’istante. “Sì!” Esclamano in coro.
“Io voglio un coniglio!” Sentenzia Isabelle.
“No, i conigli puzzano, prenderemo una tartaruga!”
“Guarda che quelle vere non sono mica ninja!”
“Lo so, scema!” Afferma Jace, facendole la linguaccia.
“Non sono scema, tu sei scemo!” Ribatte Izzy con una sonora pernacchia.
“Nessuno qui è scemo! E non voglio che vi diciate certe cose!” Interviene Maryse, ponendo fine al battibecco. “Al negozio di animali ci andremo solo se vi comporterete bene, intesi?”
“Sì, mamma.” Rispondono i due bambini all’unisono.  
La donna si siede al tavolo con loro. “Bene, adesso finite di mangiare, altrimenti facciamo tardi.”
Il trio annuisce e finisce la colazione. Alec non aveva espresso preferenze, perché in realtà, escluso il cane, non ne aveva. Tra le tante cose che gli piacciono ci sono anche gli animali, quindi gli va bene quasi tutto – quasi perché si sente di escludere con assoluta certezza i ragni, dal momento che gli fanno davvero schifo.
Hanno troppe zampe e sono disgustosamente pelosi.
Rabbrividisce al solo pensiero, quindi decide di smettere di concentrarsi sugli aracnidi e di continuare la sua colazione.
Il solo pensiero di un giretto al negozio di animali lo rende felice, tanto che persino la scuola, quel giorno, passa dal livello sei al sette, come la macedonia di frutta con lo zucchero.


Alec non riesce a contenere il suo entusiasmo. Fissa l’orologio sulla parete della sua classe da almeno venti minuti, seguendone ogni minimo movimento e ogni avanzata verso la fine dell’ultima ora di scuola.
Sa che appena la campanella suonerà, dovrà andare alla fontanella in corridoio – perché è lì che lui e i suoi fratelli si vedono sempre quando le lezioni finiscono in modo che escano tutti e tre insieme da scuola.
“Alec? Mi hai sentito?” Domanda una voce al suo fianco, distraendolo dalla sua attenta analisi dell’orologio.
Il bambino si volta alla sua sinistra e trova Magnus, i suoi occhi a mandorla lo fissano, perplessi.
Magnus è il suo migliore amico, il primo che ha avuto al di fuori di Jace ed Izzy. Il primo giorno di scuola in assoluto, Alec aveva tanta paura che sarebbe rimasto solo perché era consapevole di avere un carattere chiuso e riservato. Era timido a livelli patologici, aveva detto suo padre una volta, anche se lui non sapeva bene cosa significasse quella parola tanto strana. Però sapeva cosa significasse timido e poteva dire che fosse vero. Per questo aveva avuto paura, perché sapeva di essere timido e di avere difficoltà ad avvicinarsi agli altri bambini.
Con Magnus era stato sorprendentemente facile diventare amici. Erano capitati per caso vicini di banco e da subito, il viso solare di Magnus gli aveva suscitato simpatia. A volte, tendeva a parlare troppo, ma ad Alec andava bene così, perché c’erano dei giorni dove lui non riusciva a parlare per niente e avere qualcuno vicino che lo faceva al posto suo lo aiutava a sentirsi meno strano. Ed erano proprio quelle infinite conversazioni che lo spingevano a chiacchierare anche quando a lui sembrava impossibile riuscire a spiccicare parola.
Magnus gli faceva bene, o almeno così diceva la mamma. Era convinta che l’avrebbe aiutato ad aprirsi un po’, a vincere la sua timidezza, o quanto meno a smussarla – e ancora, Alec non aveva idea di che cosa significasse quella parola, ma da come la pronunciava mamma, doveva essere sicuramente qualcosa di positivo.
“No, scusa,” risponde Alec, “Ero concentrato sull’orologio.”
“E perché?”
Alec sorride e si avvicina all’amico con aria cospiratoria, quasi gli stesse per confessare un segreto di stato. “Andiamo al negozio di animali, dopo scuola.”
Magnus ricambia il sorriso di Alec, sinceramente felice per lui. “L’hai convinta? Prenderete un cane?”
“No,” risponde, in un sussurro per non farsi sentire dalla maestra, “Però possiamo scegliere un animale piccolo.”
“È sempre una buona cosa,” Afferma Magnus, convinto delle sue parole. “Cosa prenderete?”
“Izzy vuole un coniglio, Jace una tartaruga.”
“E tu?”
Alec fa spallucce. “Io non lo so, qualsiasi animale mi piace.” 
“Potresti prendere un canarino.”
“Un canarino?” domanda perplesso Alec.
“Sì, sono carini.”
“E se poi, quando vieni a giocare da noi con Presidente, lui se lo mangia?”
“Presidente è vegetariano.” Dichiara Magnus, con una certa risolutezza.
Alec per poco non scoppia a ridere rumorosamente. Riesce a trattenersi solo perché se la maestra lo sentisse, lo manderebbe in punizione e lui si giocherebbe l’opportunità di andare al negozio di animali. Ci andremo solo se farete i bravi, aveva detto la mamma a colazione – e finire in punizione non significa fare i bravi.
“Questa è una bugia, e lo sai. Il tuo gatto ha mangiato un sacco di lucertole, nel nostro giardino.”
Magnus assume un aria di superiorità – lo fa spesso, quando non vuole ammettere di essere in torto e Alec lo trova un po’ buffo quando fa così. “Allora diciamo che è vegetariano, tranne se si tratta di lucertole, contento?”
Alec ridacchia. “Va bene, va bene. Ci penserò per il canarino. In realtà mi piace come idea.”
Magnus annuisce soddisfatto e felice di aver dato un buon consiglio al suo migliore amico. Alec sta per chiedergli se verrà a vedere il loro animale, qualsiasi sarà quello che sceglieranno, ma la campanella suona, segnando l’ora x e lui deve scappare. Saluta Magnus in fretta e gli promette che il giorno successivo gli racconterà tutto. Magnus annuisce e lo saluta, prima di guardarlo sparire dalla porta in tutta fretta.



I negozi di animali hanno un odore strano, se lo si chiede ad Alec. Un misto di mangime, fieno, e semi mischiato a qualcos’altro che il bambino non riesce a identificare.
Si guarda intorno, curioso. Ci sono animali di ogni genere: criceti, orsetti russi, conigli, pappagalli, tartarughe, pesci – di quelli ce ne sono tantissimi e tutti super colorati – e canarini.
Alec si dirige verso quest’ultimi, mentre nota che i suoi fratelli si dirigono verso gli animali per cui avevano dimostrato il loro interesse quella mattina.
Dovranno arrivare ad un compromesso per scegliere quello che piacerà a tutti e tre, ma Alec sa che la presenza della mamma li aiuterà ad arrivare ad un accordo.
Il suo sguardo, intanto, passa su tutti i canarini che cinguettano nelle gabbie. Ce ne sono alcuni gialli, alcuni bianchi, ed altri rossi. Per ogni gruppo di volatili, ci sono tre grosse gabbie in cui vengono raggruppati. Ad Alec piacciono quelli gialli, il classico colore dei canarini, come si vede nei cartoni di Titti e gatto Silvestro.
Al bambino scappa un sorrisetto al pensiero che se davvero dovesse prendere un canarino, la sua vita si trasformerebbe in quel cartone ogni volta che Magnus verrà a fargli visita con Presidente. Dovrà posizionare la gabbietta molto in alto – chiederà a mamma di farlo – per evitare che il gatto meno vegetariano del mondo finisca per nutrirsi del suo animaletto.
Con un’attenta analisi, Alec continua la sua ispezione. I canarini gialli si assomigliano tutti, tanto che il bambino inizia a pensare che uno o l’altro sia lo stesso, quando i suoi occhietti curiosi si posano su uno in particolare. È giallo, come tutti i suoi simili, ma una delle sue ali è grigia. Gli ricorda tanto Jace, che ha una parte dell’occhio sinistro marrone, mentre invece il destro è tutto azzurro, e prova subito simpatia per quel piccolo pennuto.
“Jace!” Lo chiama, “Vieni a vedere.”
La testina bionda, seguita ovviamente da una curiosa Izzy, fa prestissimo a raggiungere il fratello.
“Guarda,” Dice Alec, “Quel canarino è duo-colorato come te!”
“Si dice bicromatico, Alec.” Lo corregge Maryse, che era stata attirata dalla voce del figlio esattamente come gli altri due.
“Prendiamolo!” Dice subito Isabelle. “A me piace più dei conigli.”
“Anche a me piace…” Azzarda Alec, con un filo di voce.
Jace rimane a fissare l’animale. Chissà se si è mai sentito diverso. Chissà se nel mondo animale esistono le prese in giro e i commenti cattivi, chissà se ha avuto una mamma che gli ha insegnato a non ascoltare quelle voci e a prestare attenzione solo alle voci di chi gli vuole bene.
Jace non aveva mai prestato attenzione alla diversità dei suoi occhi, perché in famiglia nessuno l’aveva mai preso in giro per questo. Il timore che potessero essere brutti era arrivato quando, a sei anni, il primo giorno di scuola un gruppetto di bambini l’aveva preso in giro perché un occhio era diverso dall’altro. Jace non aveva pianto, perché era estremamente orgoglioso e davanti agli altri non piangeva mai, ma c’era rimasto davvero molto male. Soltanto un bambino aveva preso le sue parti, mentre gli altri o erano stati in silenzio o si erano aggiunti alla presa in giro – Simon.
Io penso che i tuoi occhi siano ok, invece. Come quelli di uno stregone super potente, hai presente?
Jace non aveva molto presente, perché non conosceva nessuna storia dove gli stregoni hanno occhi di colori diversi, ma aveva annuito lo stesso perché la faccia gentile di Simon e il tuo tentativo di stare dalla sua parte l’avevano rallegrato.
Era così che si era fatto il suo primo amico al di fuori di Alec ed Izzy. E gli piaceva quando Simon veniva a casa sua e c’erano anche Magnus, l’amico di Alec, e Clary, l’amica di Isabelle. Giocavano sempre tutti insieme. Andavano in giardino e si ricorrevano, o giocavano a nascondino, o accudivano tutti insieme il gatto grasso di Magnus, fino a che la mamma non li chiamava in casa per la merenda. E mai nessuno di loro l’aveva preso in giro per i suoi occhi.
Non lo fanno perché non c’è niente per cui prenderti in giro, tesoro – gli aveva risposto la mamma, quando lui le aveva chiesto come mai loro non facessero come gli altri bambini. Non dare ascolto alle prese in giro, dai piuttosto importanza al comportamento dei tuoi amici. Il fatto che loro non abbiano mai detto niente al riguardo, dimostra quanto gli altri bambini si sbaglino a prenderti in giro.  
Jace aveva imparato quella lezione e adesso qualsiasi commento non lo feriva più, anzi aveva anche imparato a rispondere a tono e a vedere nei suoi occhi un segno di particolarità, anzi che di stranezza.
E quel canarino era particolare, non strano, proprio come lui – era speciale, come i suoi fratelli che gli volevano bene e mai una volta l’avevano fatto sentire strano, o diverso.
“Anche a me piace,” Afferma quindi, sorridendo prima ad Isabelle e poi ad Alec, con una certa complicità. “Possiamo prenderlo, mamma?” Domanda, poi, alzando il visetto verso Maryse.
“Certo, se siete tutti d’accordo.”
“Lo siamo!” Esclama in coro il trio.
Maryse sorride e accarezza le testoline una ad una, prima di dire loro di aspettare esattamente dove sono, mentre lei va a chiamare il titolare del negozio. Con passo ondeggiante a causa del suo grosso pancione, si avvicina al bancone, dove poco prima un ometto giovane ed allampanato li aveva informati che, se avessero avuto bisogno di qualsiasi cosa, lui era lì.
Ma quando Maryse raggiunge il bancone, l’uomo non c’è più. Al suo posto, c’è una radiolina che trasmette una canzone che le sembra di conoscere vagamente, ma di cui le sfugge il titolo.
Sta per suonare il piccolo campanello che si trova proprio sul bancone, quando una voce blocca il suo intento sul nascere. Da sotto il bancone infatti, la donna sente cantare.
Country rooooad, take me hooome, to the place I belooong, West Virginia mountain mamaaa, take me hooome country rooooad!”
Sporgendosi trova l’ometto, intento a sistemare qualcosa dentro a delle scatoline, e le viene quasi da sorridere per l’entusiasmo messo nel cantare con tanto sentimento quella canzone.
“Ehm, mi scusi?” domanda piano, attirando l’attenzione del cantante improvvisato. L’uomo alza la testa con tale stupore che la picchia contro al bancone, prima di sollevarsi del tutto.
“Va tutto bene?” domanda Maryse, preoccupata, mentre lo osserva massaggiarsi la parte lesa con una mano e con l’altra spegnere la radiolina.
“Sì, signora, non si preoccupi. Sono solo… sbadato. Mi piace ascoltare la musica, quando sistemo i semi di girasole nelle scatole, e a volte mi faccio prendere la mano.”
Maryse sorride. “Ho notato. È intonato, comunque, complimenti.”
L’ometto arrossisce e dopo aver borbottato a mezza voce dei ringraziamenti imbarazzati, si ricompone. “Ha bisogno di qualcosa, signora?”
“Volevo chiederle se gentilmente potrebbe darci un canarino. I miei figli ne hanno visto uno con un’ala grigia che li ha colpiti particolarmente e vorremmo prenderlo.”
“Ma certo, signora, arrivo subito!” E detto ciò, circumnaviga il bancone, afferra una gabbietta da una delle pareti e si dirige con Maryse verso i canarini. L’uomo apre la grande gabbia con delicatezza e facendo molta attenzione a non far uscire gli altri, prima di afferrare il canarino con l’ala grigia e sistemarlo gentilmente dentro l’altra gabbietta. Quello prende a cinguettare e a sbattere le ali non appena si trova nel posto nuovo, quasi come se avesse capito che sta per traslocare. E i bambini guardano l’animaletto affascinati ed eccitati all’idea di tornare a casa con un nuovo amico piumato.
“Oh, è così bello!” Afferma Isabelle. “Come lo chiamiamo?”
“Tony!” Risponde subito Jace.
“No, Thor!” Ribatte Alec.
“Ehm, bambini…” comincia cautamente il negoziante, “Questo canarino è una femmina.”
Gli occhietti neri di Isabelle si illuminano, come se avesse appena conquistato una vittoria. “AH!” Esclama, entusiasta, “Allora la chiameremo Nat!”
E così, mentre Maryse va a pagare, i bambini continuano a parlottare tra loro del  nuovo animaletto e di come, alla fine, Izzy l’avesse avuta vinta.
“Le femmine e la loro solita fortuna!” Conclude Jace, come se fosse una verità ineluttabile, prima di salire in macchina e lasciarsi mettere la cintura dalla mamma. Alec ridacchia, Izzy, invece, gli fa una linguaccia e si tiene stretta al petto la gabbietta con Nat dentro perché il primo viaggio lo deve fare con me, da femmina a femmina.



Nel viaggio di ritorno verso casa, Isabelle ha un’idea e si sente di proporla alla mamma.
“Mamma? Cosa ne dici se passiamo a trovare papà e gli facciano vedere Nat?”
Maryse ci pensa su. Robert, suo marito, lavora in uno studio legale molto importante a New York. È un avvocato molto impegnato e costantemente al lavoro sui nuovi casi che gli vengono proposti.
Non è sicura che avrà il tempo per riceverli e teme che un possibile rifiuto possa far rimanere male i bambini, ma… non riesce dire di no al tono entusiasta di Isabelle.
“Va bene, però se papà è impegnato andiamo via e gli facciamo conoscere Nat a casa, quando torna questa sera.”
“Ok,” e poi si rivolge all’uccellino, “Vedrai, anche papà ti vorrà bene come te ne vogliamo noi!”



Lo studio di cui Robert Lightwood era socio, si trovava nella Fifth Avenue, in uno di quei palazzi altissimi e pieni di luci. Alec aveva sempre pensato che fossero così alti da arrivare al cielo e quando una volta l’aveva chiesto alla mamma, lei aveva sorriso e gli aveva risposto che se i palazzi alti venivano chiamati grattacieli un motivo ci doveva necessariamente essere.
Quei  grossi palazzi grattavano il cielo e Alec, con la sua mente di bambino, associava l’immagine ad una grattugia che riduce in tanti piccoli filamenti un pezzo di formaggio.
Chissà se la neve che cadeva d’inverno non era frutto di quel meccanismo. Magari, a forza di grattare e grattare, si accumulava per tutta l’estate e poi quando arrivava l’inverno cadeva tutto dal cielo, sotto forma di neve.
Ad Alec piace molto, la neve. Nella sua scala delle preferenze si è guadagnata un bell’otto pieno pieno.
Maryse parcheggia davanti al palazzo dove lavora Robert e dopo essersi assicurata che i tre bambini siano ben coperti, li fa scendere dall’auto, prima di chiuderla a chiave.
Il trio si riversa come una piccola fiumana verso l’ingresso e Maryse, con il suo passo ondulante, fa quasi fatica a starli dietro.
“Aspettatemi!” Esclama ad alta voce e i tre si fermano immediatamente. “Dovete sempre stare vicini alla mamma quando siamo in strade così affollate.” Continua, quando li raggiunge. I tre bambini annuiscono e con un movimento della testa, Maryse fa cenno loro di entrare.
Jace entra per primo, attraversando la porta girevole. Isabelle, invece, che ha un po’ paura di quelle porte, guarda Alec, come se volesse chiedergli silenziosamente di entrare con lei.
“Prendi la gabbietta con una mano sola e dammi l’altra.” Le dice, perché Izzy stava ancora abbracciando Nat. La bambina fa come le viene detto, sorreggendo la gabbia per il gancio che si trova sulla cima con una mano e offrendo l’altra al fratello.
“Sei pronta?”
Izzy annuisce e Alec la stringe senza pensarci due volte. Insieme attraversano le porte girevoli e adesso che sono dall’altra parte, Isabelle ha meno paura.
“Sei una fifona molliccia, Izzy.”  
“Non è vero!” Si difende la bambina, usando la mano che prima stringeva quella di Alec, per lasciare un pizzicotto sul braccio di Jace.
“Isabelle, non alzare le mani su tuo fratello.” Interviene Maryse, dopo essere entrata. “E Jace, non prendere in giro tua sorella!”
I bambini si guardano e si scambiano una linguaccia, ma nessuno dei due dice altro. Maryse sta per dirli di chiedersi scusa a vicenda, quando un ragazzo attira la sua attenzione.
“Signora Lightwood, che piacere! Non pensavo arrivasse, il signor Lightwood non mi ha detto niente.”
Asher, lo stagista/segretario di Robert non che addetto alla gestione degli appuntamenti. È un ragazzo alto, un po’ cicciotto, con un viso dai tratti dolci e l’espressione costantemente curiosa.
“Ciao Asher, infatti non dovevo venire. Volevamo solo fare una sorpresa a Robert. Puoi dirgli che siamo qui? Se non è troppo impegnato?”
“Ma certo, signora, vado subito!”
Il ragazzo si inoltra in un corridoio pieno di porte. La struttura dello studio legale è piuttosto strana, ma solo perché prima era un hotel. L’ingresso, dove ora si trova la scrivania di Asher, era la reception e il corridoio pieno di porte – che adesso sono tutti gli uffici dei vari avvocati – era riservato alle camere del primo piano.
Alec si guarda intorno curioso. Gli piace il posto dove lavora papà. Il pavimento è di marmo nero e rosa, così come le colonne che si trovano a sostegno dell’edificio. Il soffitto è pieno di dipinti - nuvole sopra alle quali stanno piccoli angioletti che guardano verso il basso, come se stessero osservando gli uomini a cavallo che marciano verso chissà che cosa. Ad Alec piace il cavallo nero in modo particolare.
Il cinguettio improvviso di Nat attira la sua attenzione, quasi come se la piccola pennuta lo rimproverasse per aver guardato un altro animale. Alec sa che non è possibile, ma si china comunque verso la gabbietta e infila un dito al suo interno per accarezzare il suo canarino – dal quale Isabelle non si è ancora separata.
“Bambini.” li chiama Maryse, mentre rimangono in attesa di Asher. I tre si voltano verso la madre, ma la sua attenzione è rivolta principalmente ad Jace ed Izzy. “Voglio che vi chiediate scusa reciprocamente, per prima.”
Isabelle mette il broncio. “No, mi ha chiamato fifona molliccia.
“E lei mi ha dato un pizzicotto, sa che non mi piace quando mi pizzica e l’ha fatto lo stesso!” Ribatte Jace, incrociando le braccia al petto.
Maryse fa un profondo respiro, facendo scorta della sua pazienza. “Avete sbagliato entrambi. Per questo è giusto chiedere scusa.”
Jace ed Isabelle si fissano per un attimo, infastiditi, ma poi si avvicinano uno all’altra e si stringono in un abbraccio rappacificatore.
“Scusa se ti ho chiamata fifona.” Comincia Jace, stringendo la sorella.
“Scusa se ti ho pizzicato.” Conclude Isabelle, ricambiando la stretta.
“Bravi i miei teso-AHI!” Maryse non riesce a finire quella frase perché un dolore improvviso alla pancia le spezza il fiato. Si mette d’istinto le mani alla pancia, in un primo momento troppo spaventata per realizzare che le si sono appena rotte le acque. “Oh, cavoli!” Esclama, non appena nota i suoi pantaloni bagnati.
“Che succede, mamma?” Chiedono i tre bambini all’unisono, preoccupati.
“La mamma sta bene, tesori miei. È solo…” Una contrazione, una smorfia di dolore. “Vostro fratello Max ha deciso di venire al mondo una settimana prima del previsto.”
I bambini si guardano, non sapendo cosa fare. Ma, in quel momento, proprio come nei film dei supereroi, Asher  torna da loro, seguito da Robert Lightwood, che nota subito le smorfie della moglie.
“Ci siamo?” le domanda, cingendola con un braccio.
Maryse annuisce. “Sì.”
“Allora andiamo in ospedale. Asher, ti spiace occuparti dei miei ultimi impegni?”
“Non si preoccupi, signore, mi occupo di tutto io!”
“Grazie.” E detto questo, si rivolge di nuovo alla moglie. “Hai la macchina qui davanti?”
Maryse annuisce e gli porge le chiavi. Fa grossi respiri profondi, come le avevano insegnato al corso pre-parto e cerca di mantenere le calma. Andrà tutto bene, si ripete, posso farcela.
“Forza, bambini, salite in macchina.” Dice Robert, una volta fuori dallo studio, dopo aver aperto la portiera del sedile posteriore. Dopo aver aiutato Maryse a salire sul sedile del passeggero, torna ad occuparsi dei figli. Si sporge su ognuno di loro per assicurarsi che le cinture siano ben assicurate.
“Sai papà, abbiamo un canarino, però è una femmina!” Gli dice Isabelle, quando sistema la sua cintura, facendo mostra della gabbietta. E Robert non riesce a trattenere un sorriso.
“Mi fa molto piacere, tesoro. Dopo me la farai conoscere.” Le lascia un bacio sulla testa e poi si mette alla guida.
La corsa all’ospedale Alec la ricorda piena di luci che gli sfrecciano davanti agli occhi, con papà che controlla l’orologio per vedere quanti minuti passano tra una contrazione e l’altra, mentre mamma fa grossi respiri profondi e rumorosi, ma, nonostante tutto, può dire con assoluta certezza che avere un altro fratellino, nella sua lista delle preferenze, si becca un imbattibile dieci.



 
   
 
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