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Autore: evil 65    04/01/2020    15 recensioni
( Sequel di So Wrong )
Quando vengono assegnati ad una missione congiunta, Peter Parker e Carol Danvers si ritrovano costretti a ad affrontare sentimenti che credevano ormai soppressi da tempo.
A peggiorare ulteriormente la situazione già molto tesa, i problemi per la coppia di Avengers sembrano appena cominciati. Perché ad Harpswell, cittadina natale della stessa Carol, cominciano ad avvenire numerose sparizioni che coinvolgono bambini…
( Crossover Avengers x IT's Stephen King )
Genere: Fantasy, Horror, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Carol Danvers/Captain Marvel, Peter Parker/Spider-Man
Note: AU, Cross-over, Movieverse | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
   >>
- Questa storia fa parte della serie 'Avengers Assemble'
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Eccomi tornato sul fandom Avengers! E anche su quello di IT, perché questo sarà un crossover tra i due universi ;)
Questa fan fiction si colloca cronologicamente dopo “ You Got Something For Me Peter Parker” e “So Wrong”, e prima di “Avengers : The King Of Terror”. Non è necessario aver letto quest’ultima per godersi la storia, ma consiglierei a tutti di leggersi prima le alter due fan fiction.
Come Avengers : The King of Terror aveva preso King Ghidorah ( acerrimo nemico di Godzilla ) e lo aveva collocato all’interno della mitologia MCU, questa fan fiction farà lo stesso con IT aka Pennywise, antagonista principale del romanzo horror IT e della sua trasposizione cinematografica in due parti di cui consiglio caldamente la visione.
IT stesso sarà un mix di entrambe le versioni e avrà una gamma di poteri molto più vicina alla sua controparte cartacea ( quindi sì, una minaccia livello Avengers ).
E ovviamente torneranno loro, Peter e Carol, che come per So Wrong saranno i protagonisti della storia.
Ma IT non sarà l’unico villain, e infatti la nostra amabile coppia di supereroi avrà a che fare con ben otto antagonisti ( tra cui Pennywise ). Sì, sono abbastanza crudele.
Ora, tolti di mezzo i convenevoli, vi auguro una buona lettura!




The Spider, The Captain and The Clown

( Track 1 : https://www.youtube.com/watch?v=y6lQMPE6MVE )
 
Una pioggia forte e ritmata picchiettava sui tetti delle industrie Oscorp.
Miles Warren, quarantacinque anni, chiuse gli occhi e si lasciò cullare dai suoni provocati dal temporale.
Si accese una sigaretta e allungò il braccio per prendere una bottiglia di birra.
Tirò fuori dal taschino della giacca gli occhiali da lettura e controllò i parametri dei vari macchinari disposti in tutta la stanza.
Warren era un uomo decisamente alto, con il naso adunco e il viso dai lineamenti volpini, che era anche la ragione per cui molti dei suoi colleghi erano soliti apostrofarlo con un soprannome che si portava dietro dall’infanzia : lo sciacallo.
All’interno della Oscorp era conosciuto come “la risposta inglese a Victor Frankenstein”, una definizione coniata dal suo vecchio professore di scienze avanzate, che poi era diventato decano e alla prima occasione aveva licenziato Warren, costringendolo a trovare lavoro in Europa.
<< Fanculo a quella vecchia scorreggia >> borbottò Warren, per poi ingollare un sorso di birra direttamente dalla bottiglia. << E fanculo anche a te, Victor Frankenstein >>
 Il paragone con lo scienziato pazzo dell’omonimo libro lo aveva sempre infastidito. Dopotutto, i suoi interessi accademici non erano mai stati relativi alla resurrezione, bensì alla clonazione. E le due discipline avevano assai ben poco in comune, a parte la pessima reputazione che le varie opere di fantascienza avevano contribuito a creare.
La figura dello sventurato Frankenstein non aveva mai smesso di perseguitarlo.
Il suo primo incarico in Occidente era stato presso l’università dove l’uomo aveva studiato, a Ingolstadt.
Warren aveva odiato ogni minuto del suo soggiorno passato in Germania. I tedeschi non gli erano mai piaciuti, soprattutto come modelli di comportamento, e questo spiegava in parte le sue dimissioni da Berlino dopo un solo mandato e il suo ritorno in America.
<< Hai controllato i valori? >> domandò un uomo dai corti capelli biondi alle sue spalle. Si chiamava Phineas Horton, ed era il suo collega di lavoro da quasi cinque anni, alle industrie Oscorp. Un tipo decisamente irritante, che cercava sempre di avviare una conversazione con lui, non importa quali fossero le circostanze. Tuttavia, era una persona competente, ragion per cui Warren lo tollerava e non aveva fatto domanda per trasferirlo in un’altra sezione del complesso.
<< Lo sto facendo adesso >> borbottò, in risposta alla domanda dello scienziato.
<< E ? >>
<< E sono valori >>
<< Gli stessi di prima? >>
<< Gli stessi >> confermò Warren, con un movimento sprezzante della mano destra.
Il silenzio tornò a regnare nella stanza, che pareva fuoriuscita direttamente da un film dell’orrore a basso costo, come il Centopiedi Umano.
La soffitta era illuminata da una fredda fila di luci al neon. I tavoli al suo interno erano stracarichi di stampi, catini, masterizzatori, microelaboratori.
Fogli di carta, scatolette vuote e mozziconi di sigarette ricoprivano il pavimento di laminato grezzo.
Dalle travi pendevano alcuni ingrandimenti dei disegni leonardeschi di anatomia maschile.
Legato a un tavolo in fondo alla stanza c’era un uomo basso e nudo, leggermente sovrappeso, con quattro bizzarre appendici metalliche che gli partivano direttamente dalla schiena.  Sembravano quasi le zampe di un tripode, le macchine adoperate dai marziani ne La Guerra dei Mondi.
Era collegato attraverso vari tubi ad alcuni computer e aveva gli occhi coperti da una benda. 
<< Che hai fatto durante il weekend? >> chiese improvvisamente Phineas, rompendo ancora una volta il silenzio del laboratorio.
Warren emise un sospiro quasi rassegnato.
<< Niente, sono andato al cinema >>
<< A vedere ? >>
<< Mah, una schifezza con quella nullità di Ashley Judd >> borbottò, volgendo gli occhi in direzione del soffitto.
Phineas si voltò verso di lui, guardandolo stranamente.
<< Chi? >>
<< Appunto >> rispose Warren, con un sorriso ironico. << Hai controllato la padella?>>
<< No, lascio a te questo onore. L’ho fatto io l’ultima volta >> ribattè il collega.
L’altro lo fissò seccamente. << Non è vero >>
<< Tocca a te. Guarda se il nostro Doctor Octopus ci ha lasciato un regalino >>
<< Dobbiamo segnarcelo. Perché mi ricordo di averlo fatto io anche ieri >>
<< Che…come mi hai chiamato? >>
Il tempo parve fermarsi.
A Warren servì meno di un secondo per rendersi conto che non erano stati né lui né Schults a pronunciare quella frase.
<< Oddio >> borbottò il collega, che ora aveva lo sguardo puntato verso il lettino di un certo paziente. Lo scienziato lo seguì a ruota, posando gli occhi sulla figura esanime di Otto Octavius.
<< Perché mi hai chiamato Doctor Octopus? >> borbottò l’uomo, che fino a pochi attimi prima si trovava in coma. << Mi chiamo…mi chiamo Otto. Perché mi hai chiamato così? >>
Con movimenti rapidi, Warren afferrò il cellulare che teneva nella tasca del camice, compose un numero e se lo portò all’orecchio.
<< Pronto? Sono Miles Warren, dall’ala ospedaliera dell’edificio. Dite al Signor Osborn che il nostro paziente è sveglio >> disse con voce frenetica.
Passarono circa dieci minuti. Quando quel lasso di tempo giunse al suo termine, nella stanza entrò un uomo alto e ben piazzato, probabilmente sulla cinquantina, con corti capelli rossi che incorniciavano un volto da donnola. Indossava abiti firmati di qualità impeccabile, degni della posizione che ricopriva nella società. Perché questa persona non era altri che Norman Osborn, il fondatore delle Industrie Oscorp e uno degli uomini più ricchi del pianeta.
Dopo aver salutato Warren e Phineas con un rispettoso cenno del capo, si diresse rapidamente verso il lettino di Octavius e mise una mano confortante sulla spalla dell’uomo.
<< Ah, vedo che sei finalmente sveglio. Così mi piaci >> disse con voce visibilmente sollevata.
Il corpo del paziente fu attraversato da un sussulto, che venne prontamente imitato dalle quattro braccia meccaniche.
<< Signor Osborn? Dove sono? Che sta succedendo? >> domandò freneticamente. << Mi sento stanco >>
<< Questo perché ti hanno sedato >> rispose il magnante. << Mi dispiace per questo, Otto, ma…dobbiamo parlare. Prima di tutto, qui sei al sicuro >>
<< Al sicuro? Al sicuro da che? >>
<< Ti ricordi come sei arrivato qui? >> chiese l’altro, senza preoccuparsi di rispondere alla domanda del sottoposto.
Questi deglutì a fatica.
<< No >> borbottò a bassa voce. << È così buio. Perché non riesco a vedere?>>
<< Hai subito un grave trauma al sistema nervoso, alla tua vista servirà tempo per tornare come una volta. Qual è l’ultima cosa che ricordi? >>
<< Io…uh…no, io… >> balbetto, mentre le braccia attorno a lui presero ad agitarsi.
Norman diede una rapida occhiata alle appendici meccaniche, prima di volgere la propria attenzione nei confronti di Warren. Questi gli lanciò un cenno affermativo.
<< Ti ricordi quello che è successo? >> domandò il miliardario, tornando a fissare Octavius.
<< N-no >> rispose questi, con un sussurro flebile. Dio, gli faceva male anche solo parlare.
Norman prese un respiro profondo.
<< C’è stato un incidente. Sei rimasto vittima di un grave incidente alle Industrie Oscorp. Sei stato in coma >> disse pazientemente.
Ci fu un attimo di silenzio, mentre Octavius cercava di elaborare l’informazione appena ricevuta.
<< Quanto tempo…quanto tempo sono rimasto in coma? >> chiese con esitazione, quasi come se temesse la risposta ad una simile domanda.
<< …Un anno >> rispose Norman, la cui presa sulla spalla del sottoposto si fece più gentile.
Lo scienziato sussultò una seconda volta.
<< Oh, mio…Io non ricordo quello che è successo. Mi sento come se stessi per vomitare e…oh, mio Dio, cos’è questo! >> esclamò all’improvviso, quando una delle braccia meccaniche gli urto la mano destra.
Norman si ritrasse, visibilmente allarmato, mentre le appendici metalliche iniziarono ad agitarsi convulsamente, come se impazzite.
 << Che cos’è questo?! Che cosa mi avete fatto?! >> ripetè Octavius, dopo aver afferrato uno degli arti.
Norman fece un segno a Warren e questi procedette ad estrarre una siringa dal tavolo operatorio. Poi, gli fece cenno di aspettare e si rivolse al paziente ancora una volta.
<< C’è stato un incidente alle Industrie Oscorp. Hai subito una grave ferita lungo la spina dorsale, che ti ha quasi ucciso. Le tue braccia meccaniche, quelle che usi per i tuoi esperimenti…quelle su cui hai scritto il tuo saggio per Scientific America…in qualche modo si sono fuse alla tua colonna vertebrale, riparando il danno al midollo spinale >> spiegò con tono paziente. << Non abbiamo ancora capito come, ma sembra che tu sia in grado di controllarle >>
<< Toglietemi le bende >> sussurrò Octavius.
Affianco a lui, il magnante rilasciò un sospiro stanco.
<< Otto, i tuoi occhi… >>
<< La prego, Signor Osborn >> supplicò lo scienziato, il volto abbassato a causa della pura sensazione d’impotenza che stava provando in quel preciso istante.
Norman sembrò prendere in considerazione la richiesta dell’uomo.
Dopo quello che sembrò un tempo interminabile, richiamò l’attenzione di Shultz e indicò la benda che copriva gli occhi del paziente.
Questi annuì esitante e procedette a scogliere il pezzo di stoffa.
Sebbene privi di cicatrici o altri segni visibili, gli occhi di Octavius erano parzialmente rossi, con chiazze scarlatte sparse lungo i bordi e le pupille dilatate.
L’uomo sbattè le palpebre numerose volte, nel tentativo di abituarsi alla luce forte e improvvisa.
Sì porto un braccio davanti al volto…e una delle appendici meccaniche seguì il movimento, comparendo nella visione dello scienziato.
Questi sussultò per la sorpresa e cominciò a scansionare freneticamente il proprio corpo.
Quando non vi trovò niente di strano, girò appena la testa per guardare dietro di sé.
<< O mio Dio >> borbottò, quando i suoi occhi si posarono sul meccanismo che collegava le braccia meccaniche alla schiena. Era completamente immerso nella carne, fuso con essa, con vasi sanguigni e capillari ben visibili appena sotto il sottile strato di pelle che ora ricopriva la parte metallica del dispositivo.
Norman sorrise tristemente. << Stiamo cominciando a capire solo ora i principi genetici di quello che è successo. C’è un documento del Dottor Reed Reechards… >>
<< O mio Dio! >> ripetè Octavius, portandosi ambe le mani davanti alla faccia, mentre copiose lacrime cominciarono a scivolargli sulle guance.
<< So che è qualcosa di devastante da scoprire >> continuò Osborn. << E il Dottor Warren è qui per parlare con te. Per aiutarti ad accertarlo >>
Si avvicinò al paziente, dandogli un’altra stretta confortante alla spalla.
<< Speriamo che, da scienziato, tu sia in grado di apprezzare le potenzialità che questo incidente ha portato nelle nostre vite >> disse con tono affabile.  << Possiamo lavorare insieme per scoprire cosa può significare questa scoperta per il futuro dell’umanità >>
Octavius alzò lo sguardo e fissò il magnante con occhi umidi e pieni di disperazione.
Norman sospirò tristemente.
<< Io voglio poterti aiutare, Otto. La domanda che ti pongo è…mi permetterai di farlo? >>
 
                                                                                                                                   * * * 
 
Prologo 

Nella volta grigia del cielo erano comparse delle crepe azzurre attraverso cui i raggi del sole scendevano fino in strada.
Da qualche parte, in mezzo alla foresta, arrivava il suono costante del gocciolare dell’acqua.
 In una situazione ordinaria, Jackie lo avrebbe considerato un piacevole sottofondo al traffico e agli altri rumori della città cui era abituata, se non fosse per un piccolo problema : era arrabbiata.
A circa sette anni, Jackie Myers era stata testimone della prima litigata tra i suoi genitori. Era stata anche la prima volta in cui aveva visto due adulti discutere l’uno con l’altro, e l’esperienza l’aveva lasciata a disagio come mai prima d’ora. Specialmente a causa di tutte quelle strane parole che la mamma gli aveva raccomandato di non ripetere mai, nonostante fossero state usate diverse volte durante l’intero confronto.
Parole come “ puttana” o “ bastardo” che ancora riecheggiavano nella sua mente come colpi di pistola.
Da quel momento in avanti, le cose non avevano fatto altro che peggiorare.
Le litigate dei suoi genitori si erano fatte sempre più frequenti, fino a quando sua madre non aveva trovato un modo per ridurle : gite in famiglia.
Solitamente, alla bambina non importava dove andavano durante questi week-end, e avrebbe accettato più che volentieri una bella scorpacciata di parchi dei divertimenti e minigolf, soprattutto perché avrebbero ridotto al minimo quelle liti sempre più raccapriccianti.
Ma sua madre voleva che le gite fossero anche istruttive, motivo per cui aveva scelto i monti Appalachi come loro prossima destinazione. Più precisamente, una piccola frazione nell'angolo ovest dello stato del Maine, una zona attraversata dalle Witch Mountains.
Inutile dire che la bambina non era rimasta particolarmente elettrizzata dall’idea.  Avrebbe preferito rimanere a casa, e andare a dormire da una delle sue amiche.
Ma naturalmente non aveva fiatato. Era l'idea stessa di andare in gita il sabato a essere sbagliata, ma i suoi genitori non l'avrebbero mai accettato. L’opinione di suo fratello di cinque anni, ovviamente, non andava nemmeno preso in considerazione.
La sera prima, seduti al tavolo in cucina, il padre aveva mostrato loro le fotografie della loro destinazione in una brochure turistica, raffigurante perlopiù sentirei tra gli alberi e certi punti panoramici, in cui le persone erano impegnate a proteggersi gli occhi con la mano e a scrutare al di là di vaste vallate verde smeraldo, consumate dal tempo ma ancora imponenti.
Jackie odiava le passeggiate.
A peggiorare le cose, suo padre aveva calcolato male la quantità di benzina necessaria per arrivare al campeggio, motivo per cui erano stati costretti a deviare in una strada secondaria e perdere almeno un paio di ore di viaggio, per trovare una stazione di servizio in grado di rifornirli. E, com’era prevedibile, l’evento aveva scatenato un’altra lite tra i suoi genitori.
Dopo essersi fermati nei pressi di uno spazio, Tom Myers era uscito dalla macchina con un’espressione adirata, aveva chiuso a chiave la portiera e si era incamminata verso un cartello con la scritta BENVENUTI A HARPSWELL.
Poi, era tornato al sedile del guidatore, aveva aperto la cartina dello stato e se l’era rigirata tra le mani per qualche minuto.
Indicò una serpeggiante linea blu.
<< Questa è la Route 35 >> disse con tono di fatto. << E noi ci troviamo qui >>.
Posò il dito su un quadratino azzurro. Poi, percorse con il polpastrello una serpentina rossa. << La stazione di servizio più vicina si trova a circa sei miglia in quella direzione, ma non penso che riusciremo a raggiungerla in tempo. Dovremo farci portare direttamente i rifornimenti >>
La moglie sospirò seccata, volgendo la propria attenzione nei confronti dei figli.
<< Avete le vostre mantelle? >> chiese, dando un’occhiata significativa in direzione della volta celeste. Grosse nubi avevano cominciato ad ammassarsi da Ovest, accompagnate da un distinto odore di terra bagnata. Con tutta probabilità, si sarebbe presto messo a piovere entro la prossima mezz’ora.
<< Io ho la mia >> borbottò Jackie, con tono poco impegnativo. Affianco a lei, Mike cinguettò un rapido sì.
<< La colazione? >> chiese di nuovo il genitore, rivolta verso Jackie.
In tutta risposta, la bambina si limitò ad alzare il sacchetto in cui, la sera prima, aveva messo alcuni toast imburrati e ricoperti di marmellata di fragole.
La donna annuì soddisfatta e procedette ad avvicinarsi al marito.
Non passarono che appena dieci minuti, e Jackie cominciò a sentire i primi stralci di una discussione in divenire.
Con uno sbuffò stizzito, prese il sacchetto, chiuse Mike in macchina e urlò : << Vado a fare pipì! >>
Suo padre interruppe la conversazione che stava avendo con la madre, guardandola con la coda dell’occhio.
<< Va bene, ma non allontanarti, rimani sul sentiero >> ordinò con un tono di voce che non ammetteva repliche.
La bambina annuì in accordo, e si inoltrò nel piccolo sentiero che confinava con lo spiazzo.
In realtà, non aveva davvero bisogno di fare pipì, voleva solo allontanarsi dai suoi genitori il più possibile.
Appena inoltratasi nel boschetto, venne raggiunta da una cacofonia di piacevoli sensazioni.
L'odore dolce e resinoso dei pini, per esempio, e la vista di quelle nuvole che spiccavano tra le cime degli alberi, più simili a strisce di fumo grigiastro che a nubi.
Solitamente, Jackie riteneva che bisognasse essere adulti per chiamare passatempo una cosa così noiosa come camminare, ma una volta tanto non era poi così catastrofico.
Non sapeva se tutto il sentiero fosse così largo e ben tenuto come quel tratto, le sembrava poco probabile, e sinceramente non le importava. Voleva solo allontanarsi e ritrovare un briciolo di serenità, tutto qui.
Mordicchiò il toast che si era portata dietro e continuò la sua avanzata.
Dopo circa un minuto, arrivò ad un bivio. La pista principale proseguiva sulla sinistra, dove un cartello indicava: CENTRO STORICO.
A destra cominciava un sentiero più modesto e in gran parte invaso dalla vegetazione e, all'imboccatura, il cartello diceva: LAKE PLACID 100 METRI.
Gli occhi della bambina parvero illuminarsi. Non aveva mai visto un lago in vita sua, se non nelle illustrazioni delle enciclopedie e sui libri di scuola.
Forse questa gita non si sarebbe rivelata una completa perdita di tempo.
Presa dalla curiosità, diede un altro morso al toast e arrancò tra pini e abeti che si facevano via via più alti e minacciosi. La luce del sole penetrava obliqua tra le loro cime, in fasci polverosi di colore sempre più sbiadito.
Scese per un dolce pendio, scivolando un po' sul tappeto delle foglie morte dell'anno prima e, quand'era arrivò in fondo, si trovò davanti l’immensa superficie del Lake Placid.
Si guardò, intorno, prendendo una lunga occhiata della splendida vista che si stagliava di fronte a lei, ricolma di uccelli migratori e qualche insetto occasionale. Poi, i suoi occhi vennero catturati da qualcos’altro.
C’era un pozzo, all’estremità opposta di quella piccola radura, semi-nascosto dall’alta vegetazione. Si ergeva di circa un metro al di fuori del terreno, un grosso blocco cilindrico in calcestruzzo quasi completamente ricoperto di alghe lungo i bordi.
Curiosa, la bambina compì alcuni passi in direzione della struttura. Sembrava decisamente fuori posto in mezzo alla bellezza idilliaca del lago. 
Tese l’orecchio, e scoprì che in tutta l’area era calato un silenzio quasi sovrannaturale.
Beh, non proprio. Sentiva ancora il sibilo del vento tra i grandi pini secolari, ma per il resto…niente. Zero assoluto.
 Nemmeno il grido di una ghiandaia, oppure il lontano tamburellare di un picchio che scavava la sua merenda di metà mattina da un albero cavo,  o il rumore fastidioso delle zanzare. Era come se in quel posto ci fosse solo lei e, sebbene l'idea fosse ridicola, non potè fare a meno di pensarlo.
Posò ancora una volta lo sguardo sul pozzo di scolo.
L'acqua precipitava nell'oscurità in uno scroscio sordo. Era un rumore da brividi. Gli ricordava...
( Track 2 : https://www.youtube.com/watch?v=MuCPaRbEuv8 )
<< Ciao! >> esclamò una voce alle sue spalle, facendola sussultare.
Jackie si voltò di scatto…e si blocco, troppo sorpresa da ciò che vide per poter fare altro se non rimanere completamente immobile.
La persona che aveva appena preso posto dietro di lei indossava quello che sembrava un costume da clown color bianco argento. Gli tremava intorno al corpo in quel vento pomeridiano.
Portava abnormi scarpe arancioni ai piedi. S'intonavano ai bottoni a pompon che aveva sul davanti del costume. In una mano stringeva un mazzo di spaghi che trattenevano un grappolo variopinto di palloncini, e quando la bambina si accorse che quegli areostati erano inclinati nella sua direzione, la sensazione di trovarsi in un mondo irreale si fece ancora più pronunciata.
Nell’altra mano, invece, il clown stringeva un bastoncino di zucchero, come quelli che solitamente si ricevono a Natale. Lo reggeva come una silvestre bacchetta magica, o forse uno scettro.
<< Ehm…salve >> rispose la bambina, compiendo inconsciamente un passo all’indietro.
Il clown, il cui volto era adornato da un grande sorriso dipinto di rosso, inclinò leggermente la testa.
<< Chi sei, ragazzina? Come sei arrivata qui? >> domandò con una voce allegra e squillante.
Jackie, rendendosi improvvisamente conto di trovarsi da sola con un completo conosciuto, deglutì nervosamente.
<< M-mi chiamo Jackie >> balbettò con un sussurro. << E…sono arrivata qui per caso >> aggiunse rapidamente.
Il silenzio tornò a regnare nella zona.
Il clown la scrutò con occhi incredibilmente gialli, che non sembravano affatto occhi ma orbite incastonate nella sua pelle cirricea.
Poi, quasi a imitazione di un cane, il pagliaccio annusò l'aria, alzò il bastoncino di zucchero e se lo portò alla bocca. Il muso s'increspò e, per un attimo, Jackie credette di avere le allucinazioni.
Le era quasi sembrato di vedere una doppia fila di enormi denti macchiati di rosso, in quella piccola bocca.
Nel mentre, il clown succhiò l'estremità del bastoncino, e l’azione le ricordò un po' un bambino con un chupa-chups. Poi, con precisa intenzione, serrò i denti sul rivestimento di zucchero e lo spaccò in due.
A causa del silenzio che permeava la zona, Jackie udì distintamente il suono che fecero i suoi denti durante la masticazione, come il rumore dello spezzarsi di un osso.
<< Jackie…Non mi sembra il nome adatto ad una bambina >> disse il clown, dopo quel breve attimo di silenzio.
Detto ciò, compì un inchino aggraziato.
<< Ma chi sono io per criticare? Permettimi di presentarmi. Mi chiamo Pennywise, il clown ballerino! Ma puoi anche chiamarmi il signor Bob Gray. E questo è il mio giardino >> continuò, allargando ambe le braccia e indicando l’area circostante.  
Nonostante l’insolita situazione, Jackie non potè fare meno di rilasciare una piccola risata.
<< Ehm…piacere >> salutò con esitazione, le guance adornate da un rossore imbarazzato. << Mi dispiace, non pensavo che questa fosse un’area privata >>
 Il clown ridacchio a sua volta.
 << Non ti preoccupare, che razza di clown sarei se rimproverassi un bambino per una piccolezza del genere? Ora, piccola Jackie, perché quel muso lungo? >> domandò con tono cantilenante.
 La bambina non era sicura se avrebbe dovuto rispondergli o meno.
Suo padre e sua madre le avevano sempre detto che non avrebbe mai dovuto parlare con gli sconosciuti. Tuttavia, il pensiero dei suoi genitori intenti a litigare la riempì di rabbia, e quel sentimento ebbe la meglio sul buon senso.
<<  Ho solo avuto una giornata stressante >> mormorò a bassa voce.
Al sentire tali parole, Il volto pallido del rinomato Pennywise parve illuminarsi come un albero di natale.
<< Oh, ma allora ti tiro su il morale! Lo vuoi un bel palloncino? >> domandò con fare entusiasta.
Porse la mano destra in avanti e la bambina cominciò a scrutare attentamente il grappolo di areostati.
<< Galleggiano >> osservò lei, notando come questi sembrassero sfidare la gravità stessa. Per di più, andavano contro vento. Non sembravano affatto palloncini normali.
Se possibile, il sorriso sul volto del clown si fece ancora più grande.
<< Ma certo che galleggiano! Tutto galleggia qui intorno! >> esclamò , mentre compiva una piroetta su  se stesso.
Porse un palloncino in avanti, aspettando che Jackie lo prendesse.
Nonostante ciò, la bambina rimase fermo e immobile, gli occhi adornati da una punta di sospetto.
Il ghigno sul volto del pagliaccio si afflosciò leggermente.
<< Se non ti piace il colore posso dartene un altro. Ne ho di blu, gialli, verdi…ti prego, non fare complimenti! >>
Tuttavia, quando Jackie non fece alcun segno di voler rispondere, il clown simulò un’espressione rattristata.
<< Vedo che non sei molto in vena di compagnia. Mi dispiace di averti disturbato >> disse con voce pietosa, per poi dare una rapida occhiata all’area circostante. << È solo che qui intorno non ci sono molte persone con cui parlare. A volte mi sento davvero solo. >>
Al sentire tali parole, il cuore di Jackie venne avvolto da una stretta sgradevole.
Forse era stata un po’ troppo dura con quel clown, in fondo non sembrava una persona cattiva. Un po’ strano certo, ma era pur sempre un clown.
Non aveva fatto alcun tentativo di farle del male, né aveva cercato di rapirla. E in quel momento, sulla riva del lago, c’erano solamente loro due. Se avesse voluto farle del male…probabilmente lo avrebbe già fatto.
<< Ora me ne torno a casa >> continuò il pagliaccio. << Continua pure a fare quello che stavi facendo. Ma non avvicinarti al fiume! A volte qualche alligatore sceglie di venire qui in vacanza >>
E, detto questo, le fece un occhiolino e procedette a incamminarsi verso il pozzo di scolo.
Gli occhi di Jackie si dilatarono come piatti.
<< Tu abiti lì dentro?  >> domandò incredula.
Pennywise si fermò di colpo e, per un attimo, la bambina fu preoccupata di averlo offeso. Invece, il clown si voltò verso di lei con un sorriso ritrovato.
<< Oh, non solo io. Tutto il circo si trova lì sotto! >> esclamò gioviale.
Poi, si chinò verso di lei con fare cospiratorio.<< Lo senti l’odore del circo, Jackie? >>
La bambina inarcò un sopracciglio e allungò il collo per vedere meglio il pozzo.
Improvvisamente, sentì un odore. Odore di…noccioline! Noccioline arrostite e ancora calde!
Diede un paio di rapide annusate, sentendo anche l’aroma di aceto bianco, lo stesso che gli inservienti del Mc Donald spruzzavano sulle patatine fritte! Per non parlare del profumo dello zucchero filato e delle ciambelle che friggevano nell'olio, accompagnato dal fetore più debole di sterco di animali selvatici, forse elefanti o cammelli.
Percepì anche l'aroma allettante della segatura, misto…a qualcos’altro. Qualcosa di decisamente più sgradevole, che sapeva di rame. E c'era anche il puzzo di foglie in decomposizione, un odore fradicio e marcio. Odore di fogna. Tuttavia, gli altri erano più intensi.
Pennywise si avvicinò a lei con passo furtivo, e le posò una mano amichevole sulla spalla.
<< Ci sono le noccioline... >> disse con quel suo sorriso smagliante. << Lo zucchero filato... gli hot-dog... e… >>
<< Pop corn? >> azzardò Jackie, con tono incerto.
 << Pop-corn! >> confermò il clown, annuendo energicamente. << È quello che ti piace di più, non è vero? >>
La bambina sorrise timidamente.
<< Soprattutto quello dolce >> ammise.
Pennywise scoppiò in un allegro schiamazzo.
<< Ne ero sicuro! Anche io lo adoro, lo sai? Perché fa pop! >> disse picchiettando il naso della bambina.
Questa volta, anche Jackie si ritrovò incapace di trattenere una risata.
Sì, quel clown era decisamente una brava persona. Era forse l’individuo più amichevole e spensierato che avesse mai incontrato.
Inoltre, guardandolo meglio, si rese conto di aver commesso un errore. Gli occhi del pagliaccio, infatti, non era affatto gialli, bensì di un blu vivace e limpido, come il cielo stesso.
<< Penso che ti piacerebbe, Jackie >> continuò Pennywise, indicando il pozzo. << A tutti i ragazzi e le ragazze che incontro piace molto, perché lì sotto è come l'isola dei divertimenti di Pinocchio e il paese del Mai-Mai di Peter Pan. >>
Jackie lo guardò stranamente, come se avesse appena detto qualcosa di incredibilmente stupido.
Il clown annuì ancora una volta.
 << È vero, non devono mai diventare grandi ed è quello che tutti i bambini desiderano, no? >> domandò retoricamente.
Inutile dire che Jackie si ritrovò d’accordo con le parole del clow. Nemmeno lei voleva crescere, e lo stesso valeva per tutti i suoi amici.
Posò brevemente lo sguardo sul pozzo, e la cosa non passò certo inosservata agli occhi di Pennywise.
<< Vuoi dare un’occhiata? >> offrì con tono amichevole, quasi come se avesse letto la mente della bambina.
Gli occhi di Jackie parvero illuminarsi. E se questo clown fosse magico, come i personaggi dei film Disney che sua madre la portava sempre a vedere al cinema?
<< Posso? >> chiese incerta, con le mani che tremavano per l’eccitazione a mala pena contenuta.
Pennywise le diede una rapida pacca sulla spalla.
<< Ma certo che puoi! Il mio lavoro è rendere i bambini felici, dopotutto >> disse con tono di fatto. <<  Perciò vieni! Vieni a vedere tutte le meraviglie, prendi un palloncino, dai da mangiare agli elefanti, gioca sullo scivolo…puoi fare quello che vuoi! Purchè tu segua l’unica regola, ovviamente >>
<< E cioè? >> domandò Jackie, sentendosi improvvisamente preoccupata.
L’espressione allegra sul volto del clown cambiò improvvisamente, venendo prontamente sostituita da uno sguardo molto più serio.
<< Non devi mai e poi mai…essere triste! >> terminò, recuperando il suo solito sorriso.
Jackie ridacchiò ancora. Glie l’aveva quasi fatta, dovette ammettere a se stessa.
Poi, puntò lo sguardo in direzione del sentiero da cui era venuta.
<< Non penso di avere il tempo per fare tutte quelle cose >> borbottò riluttante. << Se non torno presto i miei genitori potrebbero preoccuparsi. >>
Pennywise inclinò la testa di lato, cosa che alla bambina ricordò molto un gatto. Il pensiero la fece sorridere, ma quella sensazione di divertimento venne ben presto schiacciata dalla consapevolezza che non avrebbe potuto visitare il circo del suo nuovo amico.
Dopo qualche attimo di silenzio, il clown si strinse nelle spalle.
<< Mi sembra giusto. Va bene, allora, dai solo una rapida occhiata e poi corri subito da mamma e papà! Non vorremmo farli arrabbiare, vero? >> disse con tono malizioso.
Jackie annuì rapidamente, e Pennywise cominciò a guidarla fino al pozzo. Una volta arrivati, la aiutò a salirci sopra, e la bambina si sdraiò a quattro zampe per vedere oltre il bordo dell’apertura senza il rischio di cadere. Tuttavia, l’oscurità fu l’unica cosa ad accoglierla.
Alzò lo sguardo verso Pennywise. << Io non vedo niente >>
<< Guarda con più attenzione, Jackie >> la incitò il clown, con quel suo sorriso apparentemente intramontabile.
Porse ulteriormente la testa in avanti, fino all’altezza del collo. Poteva già sentire il sangue defluirle nel cervello, a causa dell’improvvisa forza di gravità. Eppure, ancora niente. Solo la più completa e tetra oscurità, accompagnata dal suono ritmato dell’acqua gocciolante e dal puzzo delle alghe cresciute lungo le pareti dello scolo.
Girò appena la testa per parlare con Pennywise…e si bloccò. Il clown era sparito, come se si fosse volatilizzato nel nulla.
Un brivido improvviso attraversò la spina dorsale della bambina.
E poi, prima ancora che potesse domandarsi dove diavolo fosse finito il pagliaccio, una pallida mano fuoriuscì dall’oscurità del pozzo e afferrò il volto di Jackie, intrappolandola in una morsa.
La bambina tentò di urlare, ma la presa era troppo serrata, le impediva di aprire la bocca.
E in quel momento, gli occhi impauriti di Jackie si posarono sul volto ghignante e familiare di Pennywise, che ora non era più affianco a lei…ma dentro il pozzo.
E allora Jackie vide la faccia del clown trasformarsi in qualcosa di talmente orrido che, a confronto, le sue più tetre fantasie sul mostro sotto il letto persero ogni consistenza: la sua sanità mentale ne fu distrutta in un sol colpo.
<< Oh ti piacerà, Jackie >> ringhiò l’essere travestito da pagliaccio. << E una volta che sarai con gli altri bambini… vedrai come galleggerai! >>
Con un brusco movimento del braccio, il mostro trascinò la bambina dentro il pozzo.
Si udirono strani scricchiolii, seguiti da gemiti disperati. Infine, sulle rive del Lake Placid tornò a regnare un silenzio spettrale, che venne interrotto solo pochi minuti dopo dalle urla disperate di Tom e Amanda Myers, alla ricerca della loro figlia.



Com’era? Spero bello!
Ho cercato di rendere l’introduzione di IT più originale possibile, distaccandomi da quella del romanzo pur mantenendovi alcuni elementi base. Volevo realizzare qualcosa che fosse al livello dell’incontro tra Pennywise e George senza fare un copia e incolla della suddetta scena, spero di esserci riuscito. Fatemelo sapere nei commenti!
Per chi se lo stesse chiedendo, Miles Warren ( aka Lo Sciacallo ) è un antagonista ricorrente di Spider-Man, mentre Phineas è uno scienziato pazzo dei fumetti Marvel.

 
  
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