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Autore: Saelde_und_Ehre    12/01/2020    10 recensioni
Fronte Orientale, inverno 1942.
L'esercito tedesco è intrappolato nell'inferno ghiacciato di Stalingrado, accerchiato e ridotto alla fame, mentre il gelo miete più vittime dei proiettili.
Due ufficiali della Wehrmacht, provati da mille difficoltà ma per nulla intenzionati ad arrendersi, decidono di unire le loro forze per proseguire l'avanzata verso la città, ma tra loro si instaura un legame più forte della rovina incombente.
Una storia d'amore, di guerra e di morte.
Genere: Angst, Guerra, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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PREFAZIONE
 

Al di là delle grandi tragedie, degli schieramenti e degli eventi che hanno forgiato la Storia, ci sono degli esseri umani che hanno sperato, sofferto, creduto come tutti gli altri.
Non se ne parla, o forse non se ne vuol parlare, ma anche loro hanno avuto un'esistenza e questa storia vuole dar loro voce.
Lungi da me ogni intento di apologia o denuncia, non è questo lo scopo del racconto.
Questa è semplicemente la storia di due uomini come tanti altri, che hanno avuto un piccolo (e forse irrilevante) ruolo in quella che normalmente si considera "l'altra parte della barricata".

Guerra, amore e morte s'intrecciano nel gelido inverno (inferno) di Stalingrado.

La storia è stata scritta per il carissimo Old Fashioned.

 

[Attenzione: in questa storia la mentalità dei personaggi è coerente con quella del tipico ufficiale tedesco *in tempo di guerra*, così come emerge dai documenti autobiografici dell'epoca e "spurgata" da ogni considerazione eventualmente maturata poi nel dopoguerra.]


 

Wo alle Straßen enden
Hört unser Weg nicht auf
Wohin wir uns auch wenden
Die Zeit nimmt ihren Lauf
Das Herz, verbrannt
Im Schmerz, verbannt

So ziehen wir verloren durch das graue Niemandsland
Vielleicht kehrt von uns keiner mehr zurück ins Heimatland

 

(Dove tutte le strade finiscono
non s‘arresta il nostro cammino
Ovunque ci voltiamo
il tempo scorre inesorabile
I nostri cuori sono bruciati,
esiliati nel dolore.
 
Vaghiamo sperduti attraverso la grigia terra di nessuno
Forse nessuno di noi tornerà mai più a casa)

 
I.

 
Un tramonto livido tinge di cobalto e d’arancio le nuvole plumbee, che si accartocciano all’orizzonte in forme contorte. La steppa russa, sommersa dal gelo, è una distesa bianca che si estende a perdita d’occhio; qua e là si vedono spuntare magrissimi alberelli che tendono le braccia verso il cielo.
Sembra quasi un quadro di Friedrich, si sorprende a pensare il maggiore Richter, mentre fissa assorto il paesaggio dal finestrino del camion – un pensiero frivolo ed effimero, subito scacciato via dalla consapevolezza che, sotto la neve che sembra dare un’illusione di purezza, ci sono città rase al suolo dalle bombe e cimiteri di croci senza nome.
Scuote la testa, cercando invano di liberarsi da quel pensiero. La guerra è guerra, si ripete, anche se ormai ha smesso di crederci da tempo. Forse non crede più in niente: semplicemente stringe i denti e tira avanti, da quando una di quelle croci che straziano il paesaggio si è impressa a fuoco sul suo cuore.
Stringendo le labbra si costringe a tornare alla realtà contingente: i mezzi militari procedono allineati sulla strada ghiacciata; i soldati marciano coi fucili in spalla e i volti sporchi di fuliggine, i piedi piagati appesantiscono i loro passi, e nessuno di loro canta più da tempo.
Ormai è buio, e dalla terra si leva una caligine evanescente.
L’agglomerato di edifici civili che funge da base, miracolosamente scampato ai bombardamenti, emerge dalla nebbia con la sua severa mole e le luci fredde che ne rischiarano il perimetro, mentre una statua mutilata di Lenin li osserva impassibile dal centro del piazzale. Qualcuno ha coperto la falce e il martello scolpiti sul frontone con le bandiere di guerra del Reich, unici elementi a conferire un tocco di colore a quell’edificio bigio e squadrato.
In un silenzio impassibile, l’ufficiale osserva i soldati del battaglione che si schierano sull’attenti di fronte a lui, passa in rassegna i loro volti ripetendo mentalmente i loro nomi. Quanti di loro non hanno fatto ritorno alla base, e quanti di loro vedrà adesso per l’ultima volta?
Non si fa illusioni: il Generale Inverno non conosce la clemenza.
 
Il luogo adibito a infermeria è un sordido androne dal soffitto basso, dove l’odore pungente del sudore si mescola a quello acre del sangue. Interminabili file di feriti sono stese su brande di fortuna; i meno gravi sono addirittura costretti a cedere il letto a coloro che forse non passeranno la notte: si allontanano zoppicando, sostenuti dai commilitoni, per poi lasciarsi ricadere stancamente su sgabelli o panche sistemate alla rinfusa intorno alla stufa a carbone. All’arrivo del maggiore alcuni infermieri cercano di quietare i lamenti, ma la morfina non basta per tutti e viene somministrata come ultimo conforto solo ai moribondi o ai mutilati. Un ragazzo biondo, che dimostra a malapena sedici anni, piange chino su un letto col viso affondato in un involto di coperte, invocando a gran voce il nome di un camerata.
Il maggiore si fa strada tra le corsie con gli stivali ancora sporchi di fango. “Mi avete mandato a chiamare?”
“Venga, signore.”
Scortato da un ufficiale medico, Richter raggiunge uno degli ultimi lettini, situato nell’angolo più lontano e di poco in disparte rispetto agli altri: il tenente Neubach giace lì da due giorni, immerso in un torpore in bilico tra la vita e la morte. Sul suo volto pallido scorrono rivoli di sudore e il torace avvolto da bende insanguinate si alza e si abbassa impercettibilmente.
Un infermiere gli rimbocca le coperte, i lineamenti del volto corrucciati in un’espressione grave, poi alza lo sguardo sui nuovi arrivati e scuote la testa con un sospiro.
Richter non ha bisogno di spiegazioni per capire quello che sta succedendo. Si toglie il berretto e si avvicina in silenzio, fermandosi a pochi passi dal capezzale del moribondo.
“Sono qui, tenente,” mormora.
L’altro spalanca gli occhi, sono lucidi e annebbiati. Lo fissa per un po’, quasi senza vederlo, poi abbassa di nuovo le palpebre e si lascia ricadere sul guanciale. “Signor maggiore...” La voce è a malapena intelligibile, poco più che un flebile sussurro. Forse vorrebbe dire altro, ma non ci riesce.
Anche Richter, per rispetto, rimane in silenzio: tutto ciò che aveva da dire l’ha già detto.
Un grido straziante proveniente dalla stanza attigua lo distoglie da quei pensieri; alza la testa e scorge frotte di camici bianchi affaccendarsi intorno a un tavolo operatorio. Tra i gemiti sommessi gli pare di udire una supplica e delle blande rassicurazioni, poi il paziente grida di nuovo, ancora più forte. D’istinto, il maggiore ritira impercettibilmente la testa tra le spalle: non può vedere quello che accade dietro la tenda, ma vi ha assistito ormai troppe volte e certe immagini sono rimaste impresse nella sua mente.
Quando abbassa di nuovo lo sguardo sul tenente, i suoi lineamenti sono distesi e la mano penzola inerte da una sponda del letto. Anche lui se n’è andato senza un lamento, mentre la Wehrmacht tenta di tenere la linea del Don e del Volga anche a prezzo di alte perdite.
Richter si lascia scappare un sospiro: la guerra non si ferma per così poco.
 
“Signor maggiore!”
È il capitano Jünger, croce tedesca d’oro, ad accoglierlo all’uscita dell’infermeria. Insieme a lui ci sono il tenente Halls e il tenente Sajer, che sfiorano le visiere dei berretti in un saluto militare.
Richter si limita a ricambiare con un cenno del capo e li precede lungo il corridoio scarsamente illuminato, dove lo scalpiccio delle suole chiodate copre l’onnipresente ronzio delle lampade al neon. “Avete per caso visto il colonnello Brandt?”
Sajer e Halls si scambiano un’occhiata di sottecchi, Jünger esita qualche istante prima di rispondere. “Pensavo che lo sapesse già, signore.”
Il maggiore lo fissa stupito. “Non dovevate essere con lui?”
“È caduto in un’imboscata mentre ci raggiungeva,” risponde il capitano, sforzandosi di mantenere un tono neutro. “Alcuni veicoli del convoglio sono saltati in aria mentre percorrevano una strada secondaria... non c’è stato nulla da fare per lui, né per gli altri che si trovavano sulla stessa macchina.”
Richter aggrotta le sopracciglia. “Partigiani?”
“Probabile, signore, ma non abbiamo ancora notizie certe.”
Il maggiore stringe le labbra ponderando le sue parole, poi annuisce grave. “In qualità di ufficiale più alto in grado, prenderò io il comando di questo avamposto,” decreta. “D’ora in poi, per qualsiasi cosa, farete riferimento a me.”
“Sissignore.”
Proseguono per un po’ in silenzio, ognuno assorto nei propri pensieri. Fuori aleggia la luce smorta dei lampioni; il resto è immerso nelle tenebre più nere. Solo ogni tanto, come un sinistro promemoria, il lampo di un’esplosione lontana accompagna un cupo boato: forse laggiù c’è quel che resta di Stalingrado.
 
I quattro ufficiali entrano in una sala che è poco più di un bivacco coperto: marmitte da campo prese d’assalto da orde di soldati affamati, tavolini sbilenchi intorno ai quali ci si ammassa come bestie e panche addossate al muro. C’è un confuso vociare di mercato, canti stonati e qualche rissa. Un sergente sbraita qualcosa: redarguisce un gruppo di reclute indisciplinate, che si vanno a rintanare in un angolo come cani bastonati. Molti soldati si sono rassegnati a non trovare posto e mangiano seduti a gambe incrociate sul pavimento lurido. Hanno volti stanchi e scavati, le barbe incolte, si lamentano delle mani piagate dai geloni.
Quasi nessuno fa caso a loro, neanche quando ottengono il tacito lasciapassare dei cuochi che hanno messo da parte delle magre razioni e un caffè acquoso per ciascuno. Richter e i suoi uomini ricevono il rancio e si vanno ad appartare in un angolo, in piedi contro il muro. È una delle poche notti in cui possono contare su un rifugio sicuro, senza dormire all’addiaccio sui camion o in sistemazioni di fortuna. Soldati e ufficiali, dal più umile fantaccino al comandante di battaglione, condividono la stessa sorte e lui non se la sente di ostentare ulteriormente il divario tra loro.
“Non riesco ancora a credere che il Vecchio sia morto...” mormora il tenente Halls tra sé, rimestando il cucchiaio nella sua gavetta. “Te lo ricordi, Sajer, quando fumava quel suo sigaro puzzolente e si chiedeva chi sarebbe stato il prossimo dei suoi a schiattare? La sorte sa essere beffarda!”
“Nessuno può sapere quando sarà il suo momento: i proiettili non guardano in faccia a nessuno!” ribatte il più giovane, che non arriverà a vent’anni. “Ma questo non è un buon motivo per cedere al disfattismo: dobbiamo tenere duro, arriveranno i rincalzi dalla Germania...”
Halls apre la bocca per replicare, ma un’occhiata glaciale del maggiore lo induce a tacere: certi discorsi abbattono il morale dei soldati e minano alla base l’unità del gruppo. Sono già troppi i veterani sfiduciati che tuonano sentenze apocalittiche e diffondono panico e scoramento tra i più giovani, facendo apparire le difficoltà ancora più insormontabili. Richter ha ormai perso il conto di tutte le veglie insonni trascorse a parlare coi suoi uomini intorno ai fuochi da campo, per esortarli a non abbandonare la lotta in preda alla disperazione.
Il tenente annuisce e passa ad argomenti più leggeri, riprendendo a scherzare insieme al camerata come se quel discorso non fosse mai iniziato.
È Jünger a rivolgersi al maggiore, ancora una volta. “E Neubach, signore?”
Anche Richter, almeno per quella sera, decide di tacere del gesto avventato che è costato la vita al tenente. “Non ce l’ha fatta nemmeno lui.”
Il sorriso di Halls si spegne tutto d’un tratto, il tenente Sajer rimane in silenzio a fissare un punto indefinito di fronte a sé.
“Si può essere temprati da mille battaglie, ma non ci si abitua mai a questo.” Jünger sospira e scuote la testa. “Tenere duro nonostante tutto: è questa la prova di forza più grande.”
“La guerra va avanti,” replica il maggiore in tono duro. “Con o senza di noi.”
Cala qualche istante di silenzio imbarazzato, poi il capitano si ravvia i capelli castani con un gesto nervoso. “Che ne dite se ci beviamo un goccio alla memoria del buon vecchio Neubach?”
Halls drizza le antenne. “C’è ancora un po’ di Schnaps?”
“Se non te lo sei scolato tutto tu, sì!” lo punzecchia Sajer.
“Ce lo serbiamo per le occasioni speciali,” puntualizza Jünger, sorridendo appena. “Come quella volta, col capitano Altendorf... viene anche lei, signor maggiore?”
Come trafitto da un dardo di ghiaccio, Richter si irrigidisce. “La ringrazio, capitano... ma devo occuparmi di alcune questioni importanti. Brindate anche per me.” Il suo tono, più categorico di quanto egli stesso si aspettasse, non ammette repliche. “Domattina prima dell’alba verrete a rapporto da me e faremo il punto della situazione.”
Gli altri annuiscono senza fare domande. “Sissignore.”
Richter finisce di mangiare in fretta, ingolla in un sol sorso il caffè ormai freddo e si congeda con un saluto asciutto, per poi allontanarsi a grandi passi. Cercherà di soffocare le sue preoccupazioni concentrandosi sul lavoro: scrivere alle famiglie dei caduti, redigere rapporti per i comandanti di divisione, riorganizzare i reparti superstiti in vista della giornata campale dell’indomani.
Non può permettersi di cedere alla malinconia, non quando a gravare sulle sue spalle ci sono le sorti di un reggimento sbandato.
 
Nella penombra della stanza angusta che gli funge da ufficio, Hermann Richter si avvicina alla finestra e fissa con sguardo indifferente le sagome degli Opel Blitz allineati sul piazzale. Da lontano gli giungono le chiacchiere apparentemente svagate degli altri soldati, che cercano di smorzare le fatiche della guerra nel calore dell’amicizia e nella convivialità.
Non gli importa di quello che penseranno di lui, il lupo solitario che si trincera nel silenzio e rifugge la compagnia dei commilitoni. Non sente il bisogno di effimere distrazioni quando il gelo perenne, quello che non lascia scampo, si è fatto strada anche dentro di lui.
Nella notte fosca e senza stelle, fiocchi iridescenti danzano nell’aria, ma l’ufficiale sa che quella calma apparente non durerà a lungo. Non ricorda nemmeno più da quanto tempo non dorme sonni tranquilli: i bombardamenti d’artiglieria e gli incubi lo tormentano ogni notte, senza tregua.
Esala un profondo sospiro e si passa una mano tra i corti capelli biondi. Quell’inverno infido ha mietuto migliaia di vittime, prostrando il morale dei soldati e allontanandoli sempre di più da quella che sembrava una vittoria sicura.
La Wehrmacht arranca nella neve e nel fango delle trincee, seppellendo ogni giorno soldati valorosi che potrebbero rendere alla Patria un servigio migliore: il freddo, la fame e gli stenti uccidono più dei proiettili e delle granate.
Stalingrado, al di là del Volga, non è mai sembrata così lontana.
A quel pensiero, si avvicina al vetro e scruta all’esterno, pur non riuscendo a vedere nulla oltre il velo di neve sempre più fitta. Sulla lastra trasparente si riflette l’immagine di un giovane uomo, il cui sguardo cupo come acciaio contrasta significativamente con le medaglie appuntate sulla sua divisa – inutili orpelli, cimeli di una vita che sente non appartenergli più.
Sospira ancora e il vetro si appanna, cancellando quella visione. Si dice che il tempo lenisca le ferite dell’anima, ma Hermann ha smesso di credere anche in quello. È facile imparare a dissimulare e a mantenere la compostezza, ma la verità è che nessuno si abitua mai del tutto all’onnipresenza della morte. Ci si può solo ergere a testa alta tra le rovine, facendo in modo che nessuna goccia di sangue sia versata invano.
 
 
Tra i reparti di fanteria aleggia un silenzio sospeso, in attesa dell’ennesimo attacco dei russi.
Gli elmetti di un grigio indefinibile emergono dalle muraglie ghiacciate a protezione delle trincee, mentre i soldati si spostano da un cunicolo all’altro, come formiche, affondando gli stivali nel tappeto di neve. Il freddo penetra fin nelle ossa, aggredisce e invade i loro organismi pulsanti.
Il maggiore Richter finisce di schierare le truppe e si dirige a colpo sicuro verso la prima linea, fermandosi di tanto in tanto a scambiare qualche parola coi sottufficiali per controllare che le sue disposizioni siano rispettate. Qualcuno si irrigidisce sull’attenti e saluta; altri semplicemente non ci fanno caso, ormai abituati a vederlo lì piuttosto che nelle retrovie. La sua presenza sembra infondere nuovo coraggio agli uomini, che drizzano le spalle o rinsaldano la presa intorno alle cinghie dei loro fucili. Non c’è più tempo per la retorica o i discorsi altisonanti, ma ciascuno di loro – lui compreso – è chiamato a dare tutto se stesso per contenere la marea rossa.
Il tenente Sajer si avvicina e si mette sull’attenti. “Signor maggiore, gli Ivan hanno schierato una compagnia in prossimità del bosco. Ci stanno osservando.” Sembra uno scricciolo con quell’uniforme troppo larga, il cappotto che gli arriva quasi alle caviglie e le gote arrossate dal freddo, ma non si perde mai d’animo.
Richter registra l’informazione, solleva il binocolo che gli pende dal petto e punta le lenti verso la striscia di abeti scuri che nasconde l’orizzonte. Nulla sembra muoversi, ovunque regna una quiete quasi innaturale: chiunque potrebbe illudersi di essere solo, se non è abbastanza avvezzo ai metodi dei russi. Solo ogni tanto un elmetto chiaro riemerge appena dal bordo della trincea, rivelando la presenza di un fuciliere che striscia tra le pieghe della terra di nessuno.
Non fa in tempo a dire niente. Un sussulto come di terremoto squassa il terreno; dietro le linee tedesche si leva un geyser di fango e neve. “Copertura!”
Tutti si buttano per terra, un vecchio inizia a sgranare un rosario. Altre scosse seguono la prima, i colpi di mortaio impattano al suolo facendo tremare le pareti della fossa. Con una guancia quasi schiacciata per terra, le mani guantate intirizzite dal freddo, il maggiore sente un cumulo di neve crollargli sulla schiena.
Passa un istante interminabile, poi i russi iniziano a gridare come una ridda di demoni partoriti dal lago di Cocito. Alla cacofonia si sovrappongono gli spari e le detonazioni degli obici tedeschi.
Richter si scrolla di dosso il fardello ghiacciato e balza di nuovo in piedi, la pistola tra le mani. “Ai vostri posti! Non dobbiamo lasciarli passare!”
 
Tra i labirinti di filo spinato la battaglia infuria da ore. Tedeschi e sovietici combattono in un confuso groviglio di corpi, riconoscibili soltanto dal diverso colore delle uniformi; ogni tanto si scorge il guizzare metallico di una baionetta.
Le mitragliatrici crepitano in un parossismo angosciante, sovrapponendosi alle urla dei feriti; il fumo acre delle esplosioni giunge a zaffate che fanno bruciare la gola e gli occhi.
Più distante ruggiscono i motori dei T-34, mostri d’acciaio che travolgono ogni cosa incontrino sul loro cammino. Aggrediscono i fanti che cercano di tenerli lontani a colpi di PAK e Panzerfaust, abbattono gli alberi schiacciandoli sotto i propri cingoli.
La purezza della neve è intaccata da striature di mota bagnata, olio bollente e rivoli scarlatti.
“Signor maggiore!” Il capitano Jünger ha una fasciatura insanguinata intorno al braccio e sostiene un soldato privo di sensi. “Siamo accerchiati! Abbiamo avvistato un contingente di siberiani e...” Deve alzare la voce per farsi sentire attraverso il caos; una raffica di mitragliatrice buca i sacchi di sabbia della postazione del maggiore, sparpagliandone per terra il contenuto.
“Qualcuno vada a cercare un portaordini!” ordina Hermann, mentre i proiettili fischiano a pochi centimetri dalla sua testa costringendolo ad abbassarsi fino quasi ad affondare il viso nella neve. “Dobbiamo impedire l’accerchiamento, altrimenti rischiamo di rimanere isolati. Portaordini!”
Si fa avanti un ragazzo con un elmetto troppo grande. “Qui, signore.”
L’ufficiale striscia in un posto più protetto, scribacchia delle coordinate su un foglio che teneva in tasca e glielo porge. “Fai trasmettere il messaggio a tutte le unità che si trovano nel raggio di dieci chilometri. Qualcuno risponderà. Presto!”
“Signorsì!” La recluta si dilegua correndo.
Di nuovo, Hermann si sente chiamare. Un sergente che lo ha appena raggiunto, trafitto alla gola da un proiettile, si accascia per terra gorgogliando: non ha avuto neanche il tempo di fargli rapporto.
Trascinato a forza nel fulcro della mischia, il maggiore recupera l’MP40 del sottufficiale e fa cenno alla squadra di seguirlo. Spara una raffica, scivola dietro un ridotto, cerca di tenere lontane le schiere nemiche che si avventano su di loro con rinnovata foga, come un’ondata di marea. Balzano fuori dalle trincee brandendo fucili, mitra e baionette, travolgendo con raffiche di piombo l’intera avanguardia dello schieramento tedesco. Sciamano intorno a lui e si avventano sui soldati della squadra.
Richter sfila una granata a manico dalla cintura, la lancia alla cieca nella buca da cui escono i russi e stringe i denti in attesa dell’impatto, che non tarda ad arrivare.
La vista dei cadaveri disseminati per terra gli provoca un brivido lungo la spina dorsale, che neanche lui saprebbe se attribuire alla temperatura o a quel gelo senza nome che lo accompagna dalla fatale giornata in cui tutto ha avuto fine. Qualunque cosa sia, non ha il tempo di pensarci.
Attende ancora qualche istante carponi nella neve che gli morde le ginocchia, poi arrischia la testa oltre la barriera e si guarda intorno allarmato, realizzando con orrore di essere circondato dagli elmetti dei sovietici. Qualcuno lo colpisce col calcio di un fucile e mani callose, da contadino, lo afferrano con violenza per la collottola, scaraventandolo all’indietro; il mitra rotola per terra.
“Questo è il comandante germanski,” gli sembra di captare, da quel poco che capisce di russo.
Hermann tenta di divincolarsi, ma un energumeno alto quanto lui e largo il doppio gli sferra un calcio negli stinchi, immobilizzandogli le braccia dietro la schiena. Disarmato, l’ufficiale reprime un grugnito tra i denti, mentre i russi lo spintonano di malagrazia e gli piantano la canna di un Mosin-Nagant tra le scapole.
“Avanti, si muova,” ringhia una voce aspra. “Su le mani.”
Per tutta risposta, Hermann si libera con uno strattone, impugna la pistola e si avventa sul primo dei tre uomini. Spara un colpo e il soldato che aveva di fronte cade esanime in una pozza di sangue.
Di nuovo un calcio di fucile lo colpisce alla schiena, un braccio si serra intorno al suo collo, facendo forza per stringere. L’ufficiale si sforza di rimanere impassibile, mentre la vista gli si annebbia e il petto sembra scoppiargli per la mancanza d’aria. Non ha intenzione di consegnarsi: ha sentito storie agghiaccianti e crede che perfino il suicidio sia preferibile ai campi di prigionia sovietici.
Fa forza sui piedi e sferra una spallata all’uomo che lo tiene stretto, facendolo barcollare.
 
Qualcuno, dietro di lui, grida qualcosa in russo. Una serie di spari secchi fende la caligine e Hermann finisce in ginocchio per terra, coi gomiti affondati nella neve e i polmoni che reclamano aria. Annaspa e tossisce, lottando disperatamente per sciogliere il nodo che gli opprime la gola.
Un soldato si china vicino a lui. “Tutto bene?” chiede una voce gentile, in perfetto tedesco. È la stessa di prima: ha una sfumatura calda e profonda, velata d’apprensione.
L’ufficiale alza la testa e cerca di mettere a fuoco l’uomo che gli sta davanti. Come attraverso una superficie annebbiata, vede l’ovale pallido di un volto, circondato da capelli di un castano chiaro. “Sì”, balbetta in tono sbrigativo, massaggiandosi il collo indolenzito.
Con la coda dell’occhio vede un tenente sconosciuto dare ordini a una squadra, mentre due soldati allestiscono in fretta e furia una MG42.
“Andiamo via da qui,” lo sollecita l’altro, senza perdersi in convenevoli.
Richter si lascia trascinare dietro ciò che resta di un terrapieno e si abbandona con la schiena contro la parete. Gli echi della battaglia continuano a giungergli ovattati all’orecchio, la nebbia che gli offusca la vista lentamente si dirada.
La voce dell’altro lo richiama alla realtà. “Questa dev’essere sua, l’ha lasciata cadere poco fa.” Prima ancora che possa aprire bocca, una mano gli tende la pistola e gliela posa sul palmo con un gesto garbato. Ora che può vederlo distintamente, Richter si accorge di trovarsi di fronte un uomo all’incirca della sua età, di poco più basso di lui, stessi gradi e stesse medaglie. Ha l’uniforme sgualcita dalla battaglia e dalla sua spalla pende un fucile Mauser 98k.
Egli annuisce, facendo scivolare l’arma nella fondina. “La ringrazio, maggiore...?”
L’altro gli tende la mano ed egli la stringe: è calda, nonostante il gelo che avvolge il paesaggio. “Schwerin. E lei?”
“Sono il maggiore Richter. Hermann Richter.” Si volta verso le trincee gremite, nelle quali continuano ad affluire centinaia di altri uomini armati. “Suppongo che sia lei il comandante del battaglione che è stato inviato in nostro soccorso.”
Schwerin sorride impercettibilmente. “È così,” conferma. “O meglio, sono colui che ha risposto per primo alla sua chiamata.”
Hermann vorrebbe fargli altre domande, ma la realtà contingente gli impone di riprendere il controllo della situazione. “Avremo il tempo per presentarci meglio al termine della battaglia,” gli dice, sbrigativo. “Adesso venga con me, dobbiamo organizzare un contrattacco.”
  
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