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Autore: PervincaViola    22/01/2020    6 recensioni
{Partecipa alla "Challenge delle Parole Quasi Intraducibili" organizzata da Soly Dea sul forum di EFP}
È certa di essere un disegno su carta, per lui, quando con un mezzo sorriso nella voce le dice «Mi sei mancata anche tu, Jo».
{Jo/Laurie ♥ Movie!verse What if?}
Genere: Introspettivo, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Josephine March, Theodore Laurence
Note: Movieverse, What if? | Avvertimenti: nessuno
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"Women, they have minds, and they have souls as well as just hearts, and they’ve got ambition, and they’ve got talent, as well as just beauty.
And I’m so sick of people saying that love is just all a woman is fit for"

(Jo March)








Inchiostro su pelle






 
Il cielo di New York è una cattedrale ardesia poggiata su edifici incastrati gli uni sugli altri, schiere di metallo e mattoni che rilucono dopo una notte di pioggia – niente a che vedere con l’Europa che dipinge Amy nelle sue sporadiche lettere, l’Europa che è tutta vecchia ed elegante, tutta un calco di esistenze passate e arte che rincorre frenetica se stessa.
Jo s’immerge nel caos ribollente della città, scrive racconti per quotidiani e insegna tutto ciò che serve a bambini che le scaldano il cuore, e davvero questo è tutto quello che ha sempre voluto: essere indipendente, lontana, libera – scrivere è la sua libertà (persino se talvolta la solitudine la prende alla gola, persino quando le sue storie per il signor Dashwood valgono poco più di carta straccia).
Eppure, a volte Jo osserva il paesaggio fuori dalla sua minuscola finestra con uno strano dolore al petto, come una nostalgia consumante per qualcosa che non è stato, e il pensiero corre selvaggio al Massachusetts, ma il Massachusetts è campi inondati di sole e riflessi d’argento su un fiume, è la dolcezza di Marmee e Meg, la civetteria di Amy e la tranquilla serenità di Beth e anche la risata totalizzante di Teddy (Teddy che è scappato in Europa come Amy, e forse allora è meglio dimenticare).
 

 
*
 
 
Sono le lettere di Amy a tenerla legata all’Europa, è un’altra lettera a farla tornare a Concord come se il fuoco la inseguisse. Beth sta male, le scrive Meg, e Jo si lascia dietro New York e si precipita a casa senza pensarci due volte (perché Beth è sempre stata la sua preferita, e la più delicata, e la sua debolezza).
C’è Marmee ad attenderla sulla soglia di casa, e con lei papà: Jo li abbraccia appena e non si ferma, incespica su tutti i gradini con la sua lunga gonna, ed è con il respiro spezzato che s’affaccia alla camera di Beth. Sua sorella ha la fronte lucida di sudore e trema sotto le coltri di lana, respira miasmi malati – e scorgerla così piccola nel letto le dà un’impressione di vertigine, di un futuro che va nella direzione sbagliata.
Meg la raggiunge mentre è chinata a lasciare un bacio sulla tempia accaldata di Beth.
«Ho scritto anche a Amy».
 
Dalla finestra sul retro della casa dei March si può osservare il sole fino all’imbrunire, finché il firmamento si riempie di stelle. Quell’angolo di cielo è l’appiglio a cui si aggrappa Jo quando il mondo prende a girarle attorno troppo veloce ed è troppo tardi per fermarlo e impedire che tutto le scivoli tra le dita. La scarlattina ha indebolito il suo fisico, dice il dottore dietro una porta socchiusa, non so quanto- non so quanto ancora potrà reggere.
Jo sopprime un singhiozzo sul nascere, sfiora le trecce fulve di Beth – guarda le stelle e vorrebbe urlare e strapparsi i vestiti, e invece le sussurra storie fantastiche all’orecchio per fare più rumore (non c’è più nessuno, ora, di fronte a cui possa essere debole).
 
Trascorre una collana di notti insonni accanto al letto di Beth, su una sedia di legno scuro che è lì da quando ha memoria. Le passa un panno freddo sulla fronte, le bagna le labbra con dell’acqua, le rimbocca le coperte quando il buio cala nella stanza e lei crolla sfinita, finché un giorno socchiude le palpebre e incontra le sue iridi che sono come zaffiri.
«Jo» gracchia Beth con voce arrochita, con un sorriso piccolo e stanco, e per coerenza Jo non urla, si slancia su di lei e la stringe come se avesse rischiato di perderla per sempre, mentre Marmee singhiozza da qualche parte alle sue spalle.
(Per lei ci sarà tempo per piangere poi).
 

 
*
 

Amy e Teddy arrivano a casa March un paio di giorni più tardi, una mattina in cui il vento sembra voler sradicare ogni cosa. Amy è un’apparizione di riccioli biondi e seta celeste su cui Jo si sofferma intenzionalmente, con calma quasi razionale, e scopre che sono passati due anni e non è più una ragazzina, con quegli zigomi alti e gli occhi in cui perdersi e il naso che è ancora un po’ schiacciato ma perfetto nell’ovale del suo volto.  
«Beth sta meglio» le comunica Jo, e quando Amy l’abbraccia tremula, sussurrando grazie al cielo, oh, grazie, Signore, grazie, capisce che l’ha perdonata per tutto – il libro bruciato, un sogno mai vissuto (ma questo, forse, non era mai stato davvero suo).
La stanza si restringe quando Amy s’allontana lungo le scale e le voci di Meg e Marmee sono ovattate e nell’ingresso non rimangono che lei e Teddy; Jo alza lentamente lo sguardo su di lui e sente il cuore che le raschia contro il petto. È cambiato, le scriveva Amy, e certo lo è davvero, come potrebbe non essere così quando il tempo e il dolore erodono tutti (e lei lo ha ferito a morte), eppure Jo vede ancora Teddy nei lineamenti marcati di Theodore Laurence, nei suoi occhi chiari che la guardano come non fosse passato un giorno.
Jo lo scruta in silenzio e Laurie fa lo stesso, immobile sui suoi piedi, tra di loro tutto un tessuto di cose non dette e lasciate a macerare, macerare, macerare (perché non mi hai scritto, perché sei scappata, posso ancora chiamarti Teddy?), ma Jo decide che non le importa, che lo rivuole indietro. Fa un passo verso di lui e poi collassa tra le sue braccia: non si aspetta niente, non dopo quello che gli ha detto, non dopo averlo fatto fuggire da lei senza aver nemmeno cercato di fermarlo, ma dopo un istante di irrigidimento avverte Teddy ricambiare la sua stretta, i suoi capelli che le sfiorano le tempie – e questa sensazione sola è sufficiente per farle venire l’assurda voglia di piangere.
Ci sono parole imprigionate tra i denti, congelate nell’atto della parola, e Jo non riesce a pronunciarle perché è sempre stata troppo orgogliosa, troppo pronta a coprire ogni traccia di debolezza, e allora si morde la lingua e tace (mi sei mancato, pensa Jo).
È certa di essere un disegno su carta, per lui, quando con un mezzo sorriso nella voce le dice «Mi sei mancata anche tu, Jo».

 
*
 
 
Il ritorno di Amy e la guarigione inaspettata di Beth regalano loro insperati giorni di sole, in cui Jo crede di poter mangiare ogni nuvola. Meg è la prima ad accorgersi della sottile fascia d’oro che circonda l’anulare di Amy; Io e Fred ci siamo sposati prima che tornassi qui, gongola Amy, e allora sono parole di giubilo e risate: Beth grida di gioia, Meg si congratula abbracciandola, Marmee ha gli occhi lucidi al braccio di papà, Laurie racconta di Parigi e Jo ride e le scompiglia i capelli, sorpresa che Amy sia riuscita a tenersi per sé una notizia del genere.
È come guardare in uno specchio che riflette il passato, in quei giorni, vedere le corse sulla neve, i pomeriggi aranciati trascorsi su un palcoscenico improvvisato in soffitta e un pianoforte in regalo il giorno di Natale (Meg che sarebbe dovuta essere un’attrice, Beth una pianista, Amy un’artista e Jo una scrittrice).
Jo potrebbe quasi credere a questo sogno di cristallo (e Dio solo sa quanto vorrebbe farlo), ma il cristallo è trasparente e si sporca senza che nessuno se ne avveda. Per quanto Jo si sforzi di non vedere, Beth è una bambola di porcellana che si sta incrinando lentamente – ha le dita sempre più fredde e sottili e una voragine bulimica nel petto che niente può saldare (è solo questione di tempo).
«Ti porto al mare» decide Jo, e nel sorriso di Beth c’è una tenera rassegnazione.
 
Le onde arrivano in una lenta carezza sul bagnasciuga, prima l’acqua scura e poi la spuma morbida che indugia sulla sabbia, una vampa bianca che non vuole estinguersi. Beth le chiede un racconto mentre gioca con i lembi della coperta rattoppata su cui sono stese, mentre il sole fa sembrare la sua chioma un’aureola d’oro brunito.
«Non scrivo più, Beth» le risponde Jo, più dolce di quanto avrebbe mai creduto possibile.
«Perché?»
«Forse era tempo sprecato» mente, ma è una bugia a cui non crede nemmeno lei.
Beth corruga la fronte, d’improvviso sembra molto più vecchia dei suoi anni, molto più vecchia di quanto potrà mai essere (forse è solo la prospettiva di Jo che non si rassegna, che vuole vederla crescere, diventare donna, invecchiare). «Io non penso fosse tempo sprecato» considera lei, ed è di nuovo una bambina (un dipinto di neve) quando dopo un secondo di silenzio aggiunge «Scrivi ancora per me, Jo».
 
Se Beth vuole delle storie, Jo le scrive senza protestare, impiastricciandosi le dita con inchiostro nero, piegata sullo scrittoio mentre Beth riposa e sogna e sembra schiumare via nel cuscino di piume. Jo la porta sull’oceano con i pirati, in California con la corsa all’oro e i cowboy che sollevano polvere rossa sotto gli zoccoli battenti dei loro destrieri, in un villino sperduto nelle verdi brughiere inglesi. Qualche pagina racconta anche di una famiglia di Concord e quelle pagine Beth le ascolta attenta e con un sorriso – dovresti scriverlo davvero un libro, Jo.
Sente che sta scivolando via, ma Jo continua a leggere anche quando le parole si confondono sotto i suoi occhi (finché legge per lei Beth non può morire).
 
(Una sera, quando sono nello stesso letto, così vicine che i loro respiri si fondono e Jo può tracciare costellazioni tra le minuscole lentiggini di Beth, sua sorella rompe il tacito accordo che aleggiava tra loro, ma lo fa con così tanta delicatezza che Jo non riesce nemmeno a fargliene una colpa.
«E Laurie?» chiede, sommessa, ma Beth non fa mai domande senza ragione, senza aver rimuginato nella testa e aver dato voce ad ogni possibilità – Beth è troppo oltre il suo stesso destino per non vedere ciò che Jo non riesce neppure ad afferrare.
«Laurie cosa?»
Le lenzuola fresche di bucato frusciano appena mentre Beth intreccia le gambe magre alle sue. «È tornato» afferma, con una semplicità che non si discute – semplicemente si accetta. Sono solo due parole, due pietre che rotolano sul fianco di una montagna e causano una frana, una valanga di consapevolezze ignorate che adesso pungono come spine e Jo non sa cosa dire. Beth s’addormenta prima ancora che possa trovare una risposta, il suo respiro è sempre più flebile – per un momento le ricorda la bellezza di un soffione un attimo prima che si disperda nel vento).
 

 
*


Se il mondo fosse un posto non migliore, solo più giusto, si sarebbe fermato con la morte di Beth; se il mondo fosse stato un posto più giusto, un’anima fragile e buona e mite come quella di Beth non sarebbe scivolata via così presto ma- (ma non vivono in quel mondo e forse quell’universo parallelo nemmeno esiste). Ma c’è la luce che bacia i capelli biondi di Amy, erba verdissima sotto le scarpe eleganti del signor Laurence e ci sono le cinciallegre che cinguettano lontane, su rami carichi di boccioli – il mondo girerà anche senza di noi, realizza Jo.
È Jo l’ultima a rimanere; guarda la terra umida e scura e pensa che lì non c’è niente di Beth, che quei fiori non servono a niente e che le sue lacrime sarebbero solo l’ennesima beffa. Dietro di lei, i passi di Laurie non fanno rumore (lei non li ha mai sentiti) e lei ha quel groppo in gola che non riesce a mandare via. Le dita che si posano sulla sua spalla, vicino alla clavicola, chiudono uno spazio che le era sembrato infinito, e sono delicate e calde e leggere di vita.
Inizia a piangere stringendo la mano di Teddy (quella su cui porta ancora il suo anello).
 
Quella sera tira fuori dai cassetti tutti i fogli che riesce a trovare (gialli di anni passati a guastarsi, friabili come la polvere) e li getta uno ad uno tra le lingue di fuoco del camino. Jo guarda bruciare la carta che gronda inchiostro e storie (vita) finché non rimangono solo le ultime braci, crateri rosso papavero sul nero dello spazio tra le stelle.
Diventa tutto cenere, meno i racconti scritti per Beth (mai quel sacrilegio, mai, mai, mai).
 

 
*
 

Trascorre giorni interi chiusa in soffitta, a pensare, pensare, pensare – le svolazzano attorno le infinite possibilità di ciò che potrebbe scrivere, far nascere dalla sua penna, ma le sfiora soltanto con la punta delle dita (e non riesce a trattenerne nessuna). Gli scalini di legno scricchiolano spesso: Marmee le porta delizie disposte in ordine su un vassoio, Meg le copre le spalle con uno scialle, Amy commenta che dovrebbe uscire – ma nessuna di loro può fermarsi e capire la sua anima selvaggia in un corpo di ragazza (Marmee con il suo spirito acquietato, Meg con John e la sua vita e i conti che non tornano mai, Amy che ripartirà presto alla volta dell’Europa).
 
Quel pomeriggio lo scricchiolare del legno è più forte e Jo riconosce all’istante i passi di Teddy: appare sulla sommità delle scale qualche secondo più tardi, prima la chioma scura e la bocca piegata in un sorriso e poi le lunghe gambe, fasciate negli alti stivali di cuoio.
«Andiamo al fiume, Jo».
Fuori il sereno sta prendendo il posto di un acquazzone mattutino e quella di Laurie non è una proposta, nemmeno un ordine, piuttosto qualcosa a metà strada, e d’impulso Jo prende il soprabito e lo segue sotto il cielo screziato.
Una volta (una vita prima, quando erano poco più che bambini), quando era arrabbiata Jo era solita fare lunghe camminate stancanti lungo il fiume, l’unico modo per calmare la sua natura impetuosa, incline ad accendersi come una miccia e scoppiare come un temporale (e Teddy lo sapeva ed era la sola persona a cui era concesso assistere a quegli scoppi di tuoni). Adesso camminano fianco a fianco, i piedi che affondano nel fango e le mani che forse si sfiorano ma non si trovano mai.
«Cosa fai tutto il giorno chiusa là dentro?» le chiede Laurie, inclinando la testa, quando il rumore morbido dell’acqua è l’unico suono rimasto tra loro.
«Penso».
«A cosa?» insiste lui.
«A come sarà il mio libro» risponde Jo, guardandolo con un lampo di orgoglio negli occhi, sfidandolo a ribattere, ma lui si limita scrutarla pensoso, scuotendo poi la testa.
«Non è una cosa da te» sentenzia infine, e Jo avverte già un pizzicore alle dita, l’aria che lascia i suoi polmoni mentre sta per urlare indignata. «Tu pensi e fai, Jo. Non pensi e basta» sussurra, lanciandole una sguardo che le mozza il respiro (per la tenerezza che legge nei suoi occhi, perché la conosce così a fondo).
Il sangue le affluisce immediatamente alle gote (una sensazione che ha sempre detestato e che adesso le muove qualcosa alla bocca dello stomaco) e Jo agisce d’istinto. «Questa è una cosa più da me, Theodore Laurence?» lo provoca, poggiando le mani sul suo petto e spingendolo con forza verso il lato del sentiero, ma Teddy è pronto e lesto ad afferrarle gli avambracci, tirandola giù con sé nella caduta. Jo si ritrova in un groviglio di braccia, gambe e tessuto mentre ruzzolano nell’erba alta, mentre rotolano per evitare la fanghiglia e il mondo diventa solo una macchia verde e azzurra.
Laurie la lascia andare solo quando è certo che sia sopra di lui, e che sia incolume.
«Decisamente» ribatte con una piccola risata che cancella tutto il resto – e anche Jo ride, suo malgrado, ride guardando il cielo finché perle salate non le solleticano gli angoli degli occhi.
 
Ritornano a casa intanto che i raggi sfumati del tramonto si riflettono nelle pozze d’acqua lungo la riva del fiume, un caleidoscopio di grigio, arancione caldo e blu pervinca; lei ha la gonna umida e sporca, lui la camicia chiazzata di terriccio e una foglia nei capelli, ed entrambi si guardano le scarpe inzaccherate – sono tutto fuorché decorosi, e Jo non ricorda di essere stata così felice da tempo, con appena una goccia di buio nel cuore.
«Dovresti farlo davvero» le confida prima di salutarla, davanti alla porta di casa, e Jo lo osserva quasi tremante, con la paura di non aver compreso nulla per l’ennesima volta e di stare illudendosi ancora (non l’aveva capita allora, lei e la sua voglia di libertà, di scrivere e fuggire, e potrebbe non capirla adesso). «Scrivere un libro».
 
(Davvero non ricorda da quanto non fosse così felice).
 

 
*
 

Le viene un’idea folle, di quelle che la maggior parte delle persone accarezza una volta nella vita, una sola, e poi relega distrattamente in un angolo – tutti ma non Jo. Comincia a scrivere il giorno in cui Amy torna a Parigi e la casa si svuota un po’ di più, dopo Meg e Beth, e c’è quel silenzio imperturbato che Jo ha sempre fatto fatica ad accettare. Comincia a scrivere il giorno in cui Amy torna a Parigi e ricostruisce la storia dall’inizio; c’è tanto da raccontare, tante cose riempite e accumulate, a cominciare da Marmee e papà e quattro sorelle, e poi la voce dolce di Hannah e il kajal per sembrare pirati, la neve che ammanta Concord e i giorni a pattinare sul fiume ghiacciato, le dita di Beth che scorrono come una piuma sui tasti bianchi e neri del pianoforte.
«Potrebbe mai interessare a qualcuno, una storia come la nostra?» riflette Jo, lasciandosi cadere accanto a Laurie sul vecchio sofà, un foglio ricoperto di scritte nella mano sinistra e una penna che rischia di scivolarle dalla presa della mano destra.
«Se fosse così non fosse, comprerei io metà delle copie del tuo romanzo» gioca Teddy, e lei sbuffa, gli tira un pugno sulla parte alta del braccio.
«Non dirlo nemmeno per scherzo!» soffia, eppure ha uno strano sussulto al cuore quando lui alza la mano e le passa delicatamente un pollice sulla guancia, a cancellare una sbavatura di inchiostro – Jo abbassa lo sguardo e ricorda a se stessa che è stanca, stanca delle persone che dicono che l’amore è tutto ciò per cui è adatta una donna.
 
(A volte però si domanda se non fosse stata troppo categorica su quella collina spazzata dal vento, troppo smaniosa di conquistare il mondo con le sue sole forze, nel suo tutto o niente, e non sa rispondersi).
 

 
*
 

La casa di zia March è grande, persino troppo, e ha l’odore delle case vecchie e vissute – il sentore di legno dei mobili, il vago profumo di acqua di rose e talco dolce che alita ancora. Jo cammina tra le stanze semivuote, inseguendo antichi pensieri (i lunghi pomeriggi passati con la zia e i suoi libri, il sole che filtrava dalle finestre illuminando il pavimento di quercia) e non riesce a credere che quel posto sia suo, tutto suo.
«Cosa ci farai?» le chiede Meg, trattenendo a sé Daisy e Demi – Plumfield offre così tante possibilità che è difficile srotolarle ordinatamente una accanto all’altra, prevederle tutte.
Jo sorride guardando correre i due gemelli, nella mente le balena un’immagine che è come una rivelazione. «Servirebbe una vera scuola a Concord, non trovi?»
 

 
*
 
 
Il vecchio sofà è l’unica superficie della soffitta rimasta libera. Ha scritto giorno e notte, intingendo costantemente il pennino nel calamaio, utilizzando la mano destra e quando necessario anche la sinistra, sporcandosi dita e palmo con inchiostro sempre più nero, talvolta in silenzio, piegata sullo scrittoio, talvolta con Laurie e le sue morbide melodie in sottofondo (ma Teddy è sempre lì). Adesso pagine dense di parole svolazzano in ogni dove: sullo scrittoio, sul davanzale della finestra, ingombrano persino il pavimento, a disegnare un mosaico di lettere e storie. Poggiata al muro, Jo rilegge frenetica ogni frase, mentre fuori si allungano le ombre della sera e gli occhi le si fanno sempre più pesanti e deve strizzare le palpebre per mandare via la stanchezza.
Quando rialza lo sguardo il buio è rosso, dietro al vetro cantano le cicale e Laurie è addormentato nell’angolo sinistro del divano. Jo gli s’avvicina per svegliarlo, allungando le gambe per evitare la carta sul pavimento, eppure quando gli è di fronte si ritrova impossibilitata a fare qualunque cosa fuorché guardarlo: agli ultimi sospiri di una candela morente, Teddy ha il capo leggermente inclinato, il respiro appena più pesante del solito, e il cuore di lei è pieno di una strana nostalgia.
Jo si china su di lui, osserva il boccolo scuro che gli ricade sulla fronte pallida, l’ombra delle lunghe ciglia che gli sfiora gli zigomi, e lo trova bello e impossibile, e improvvisamente il desiderio di toccarlo è così intollerabile da farle paura. (Gli traccia il contorno delle labbra, ma solo con la punta delle dita, una scia di fuoco che s’attarda sui polpastrelli, e domani fingerà di non essersi mai avvicinata).
«Pensavo che allora volessi cambiarmi» sussurra, e non sa se stia parlando a se stessa o al giovane uomo che le sta accanto.

 
(La prima volta che propone il romanzo al signor Dashwood tiene le mani in grembo per impedirsi di tremare. Lui le rivolge un’occhiata annoiata da sotto gli occhiali da lettura, non è il genere di storie che incontrano il favore del pubblico, le dice, e nella confusione ronzante della sala Jo è certa di sentire il fragore dei suoi sogni che vanno in frantumi.
La seconda volta che propone il romanzo al signor Dashwood è lui ad averla chiamata, a voler stampare il suo libro. Discutono di diritti d’autore e compensi e pubblicazioni, e di come debba finire la storia, amore o morte, una delle cose a cui una donna è sempre costretta a soccombere, e questo è ciò che fa più male. Cedere al compromesso è sempre un po’ morire, rinunciare a una parte di sé senza volerlo davvero, ed è così ingiusto che Jo vorrebbe urlare al mondo che le donne hanno altre ambizioni – ma pubblicare il proprio manoscritto, riflette, è già una crepa in una società che non concepisce ciò che possono realizzare).
 

 
*
 
 
Amy fa ritorno al fianco di Fred Vaughn mentre l’estate cede il passo all’autunno – c’è una sfumatura d’oro chiaro che avvolge tutto, olmi e castagni che proiettano ombre ordinate lungo il vialetto che conduce all’ingresso della loro casa.  
La sala in cui hanno deciso di dare la festa (per il loro matrimonio, per il libro di Jo) è un turbinio di tessuti e colori, il raso indaco dell’abito a balze di Amy e il velluto prugna di quello di Meg, e poi il luccichio irregolare di decine di candele, il loro riflesso caldo sugli specchi e sul bronzo dei candelabri, e così tante persone che Jo si sente soffocare.
Quando iniziano le danze cerca istintivamente riparo dietro i pesanti tendaggi che nascondono un salotto più raccolto, dove la luce è più fioca e l’aria più fredda, e per un assurdo contrappasso incontra gli occhi sorpresi di Teddy.
«Non sapevo ci fosse qualcuno qui» dice, con un sorriso complice, una gamba che dondola ritmicamente dalla poltrona su cui è seduto così scomposto, e Jo corruga le sopracciglia, e poi gli occhi le si fanno grandi di consapevolezza (è come il loro primo incontro, è così che è cominciato tutto).
«Puoi rimanere, se vuoi» gli concede, incrociando le braccia dietro la schiena, con fare quasi teatrale, ma mantenere la facciata seria per più di qualche secondo le è impossibile, e allora ride cristallina, accovacciandosi sul bracciolo rimasto libero.
Laurie le fa spazio, scosta delicatamente la semplice gonna borgogna che le impaccia i movimenti. «Dovresti essere a festeggiare con tutti».
«Non è una cosa da me» si schernisce, facendogli il verso ancora una volta, ma poi poggia la testa sulla spalla di lui e sospira, serena. «E poi sono tutti noiosi».
La risata di lui la coglie di sorpresa, e così il brivido che le vibra a fior di pelle quando il suo respiro le si insinua tra i capelli.
«Mi ritengo fortunato per essere stato escluso dal gruppo di persone che non destano l’interesse della signorina March, dunque» proclama pomposamente, e lei deve sbuffare.
«Tu sei il più noioso di tutti, Teddy» ribatte, e si trattiene dal ridacchiare quando lui finge un colpo al cuore.
Tacciono entrambi, mentre una musica più frenetica arriva dalla sala principale.
«Balliamo» le propone Laurie d’improvviso, e Jo quasi cade dalla poltrona nella fretta di voltare il capo per guardarlo.
«Cosa?»
Ma Teddy si è già alzato e la osserva con un guizzo giocoso in fondo alle iridi e ha la mano aperta, rivolta verso di lei. «Hai rovinato anche questo vestito?»
Si rizza in piedi anche lei, non prima di avergli scoccato uno sguardo di fuoco. «Lì davanti agli altri, Cristoforo Colombo? Farei morire di imbarazzo entrambi!» constata, eppure Teddy non arretra di un passo.
Jo studia la mano che le porge, grande e pallida e dalle dita affusolate di pianista (una mano che conosce quasi quanto la propria, di cui può fidarsi), e la afferra senza pensarci, conducendolo fuori dalla stanza.
«Seguimi».
 
Questa volta fuori non c’è la neve e lei non indossa un abito rosso con l’orlo bruciato dal fuoco.
La musica s’ode leggera dall’interno, come una pallida eco, e Laurie è di fronte a lei e le s’inchina leggermente davanti, senza mai lasciare la sua mano (e ha un sorriso che da solo basterebbe per illuminare l’intero giardino). Jo s’aggrappa alle sue dita e si ritrova a danzare nell’aria frizzante della sera; lei e Teddy corrono davanti alle finestre illuminate e rallentano negli angoli più nascosti, dove lui le lascia una mano solo per guidarla in una giravolta – un paio di volte finisce maldestramente sui suoi piedi, lei si scusa e lui ride di una risata che la riempie, mentre la trascina seguendo una melodia immaginaria.
Jo ride quasi senza fiato, volteggia e saltella senza grazia sul patio, e lì fuori di casa, lontana da tutti, lì con Teddy, si sente assurdamente nel posto giusto (lei che non si incastra in niente, che eccede da ogni parte). Il pensiero le sfiora appena la mente e la sua gamba cede, scivolando malamente: è già pronta all’impatto al suolo, ma Laurie l’afferra con prontezza, la trattiene al suo petto.
«Attenta, Jo» bisbiglia sulle sue labbra, un po’ ansimante, talmente vicino che Jo può avvertirne l’alito che ricorda il brandy, indovinare le pagliuzze grigie che gli screziano gli occhi.
C’è la sua mano che le stringe la vita, il suo viso alla distanza di un respiro, e i suoi occhi non lasciano la sua bocca, e Jo lo rivede sulla collina (ti ho amata fin dal primo momento che ti ho vista, Jo), dilaniata tra il fuggire e il rimanere e quella paura che non sa spiegarsi. Si allontana da lui in un scatto, e sul viso di Teddy fiorisce qualcosa di simile a dolore.
Rientrano in casa che la musica è terminata.
 
(Poco prima che torni a casa Amy le si siede accanto su un sofà di broccato color crema, indica Laurie con un cenno e quasi con noncuranza sussurra «Ci sei sempre stata solo tu, per tutto questo tempo»).
 

 
*
 
 
Dalla finestra sul retro della casa dei March si può osservare il sole fino all’imbrunire, finché il firmamento si riempie di stelle. Jo s’appoggia al davanzale e si perde ad osservare il fiume di astri che allaga il nero assoluto del cielo – è solo un caso che gli occhi corrano all’unica candela rimasta accesa in casa Laurence, solo un caso.
È notte fonda, Jo non dorme e Laurie sta suonando il pianoforte: ne percepisce le note struggenti e distorte che oltrepassano i muri, il vetro, lo spazio. È notte fonda e dovrebbe dormire, eppure i suoi piedi rifiutano di schiodarsi dal proprio posto e i suoi occhi cercano il lucore di una candela, più luminosa di qualsiasi stella. Jo pensa a Teddy e alle parole di Amy e a quel bacio mancato, e Jo pensa ai rimpianti, alle cose non dette e a quelle che possono ancora essere gridate, e c’è quello strano dolore al petto che non ne vuole sapere di andarsene.
Jo non voleva legami, perché lei ha ambizioni e carattere, oltre che un cuore; ha una mente e un’anima, e la sua vocazione da scrittrice e la scuola che sta costruendo, ma c’è quel vuoto lancinante che s’allarga ad ogni passo che li allontana e che non può riempire da sola, non quando Teddy è l’unico che sappia estinguerlo. E forse è questo l’amore, ridere insieme e ballare da soli su un patio e non poter respirare a pieni polmoni quando si è lontani – forse lui intendeva questo con incontrerai qualcuno, e lo amerai pazzamente, e vivrai e morirai per lui, e subito Jo rimane schiacciata dall’enormità di questo pensiero.
Ci pensa un istante appena: getta un’ultima occhiata alla candela (è ancora lì, è accesa) e si precipita silenziosamente giù per le scale.
 
Il legno pesante e lucidato della porta d’ingresso sussulta sotto il suo pugno; è notte fonda, ma qualcuno la sentirà, qualcuno aprirà. Jo non è mai stata capace di aspettare (tutto o niente, tutto e subito) e questa volta non poteva aspettare che fosse mattina, per non perdere tutto il coraggio, per evitare che la candela si smorzasse.
È una domestica a schiudere l’uscio, a riconoscerla e farla entrare senza dire una parola; Jo non l’attende, si dirige verso la sala del piano con il cuore in gola, seguendo la musica come in un sogno. Lui indossa ancora l’abito della festa e le dà le spalle, e lei si prende un momento per respirare, mentre la melodia le riempie la carne.
«Teddy» lo chiama, e Laurie volta la testa di scatto, la guarda come un abbaglio, un’allucinazione – la bocca socchiusa, le iridi cangianti nella luce flebile della candela. «Jo?»
Jo boccheggia, colta alla sprovvista dal silenzio e dai suoi occhi che la inchiodano lì dove si trova; non si è preparata un discorso, non si è preparata a niente, e alla fine dice solo «Ti amo».
La frase aleggia nella stanza, rimbalza fra le pareti; lo stupore rende gli occhi di Laurie più grandi, e lui non parla e c’è quel silenzio che lei ha sempre detestato e ormai non può più rimangiarsi tutto.
«So che è tardi per dirlo, ma- oh, Teddy, se ti avessi detto di sì allora saremmo stati infelici, e avremmo rovinato tutto, e ci saremmo odiati, e io non avrei potuto sopportarlo» butta fuori d’un fiato, e avverte già lacrime vergognose premerle sulle ciglia, sentendosi così stupida nel mostrarsi debole (ma lui è Teddy e può capirla). «E sono ancora strana e inopportuna, e non so mantenere la calma e probabilmente litigheremo ogni giorno» aggiunge, facendo un passo avanti, e non sa nemmeno lei per quale ragione stia ridendo e piangendo insieme. «Però penso che il qualcuno di cui parlavi sei sempre stato tu».
È sufficiente quella manciata di parole per vedere Laurie alzarsi all’improvviso e raggiungerla in due lunghe falcate; s’arresta a un soffio da lei, la osserva la dietro le lunghe ciglia e le sue nocche le sfiorano leggere una gota umida.
«Dici sul serio, Jo?» chiede, l’ombra di un sorriso sulle labbra e gli occhi liquidi.
Jo vorrebbe quasi alzare gli occhi al cielo, ma è certa che non risulterebbe credibile, non con il bruciore d’imbarazzo e i solchi di sale le infiammano il volto, con il cuore che quasi le scoppia.
«Scriverò tutto il tempo e non sarò mai una brava moglie» precisa, soffiando, e Teddy ride sommessamente, le prende il viso tra le mani e fa combaciare le loro fronti.
«Non voglio una brava moglie. Voglio la mia Jo, voglio te» respira sulla sua bocca, e Jo gli sorride e non sente più quel dolore al petto, e le labbra di Laurie sono così vicine che sporgersi e baciarlo è un tutt’uno con le braccia di lui che la stringono, con le mani macchiate d’inchiostro di lei che lo cercano e lo trovano.
 
(Tra le braccia di Teddy, Jo trova finalmente il proprio posto).

 





"There'll come a time when you will care for somebody, and you'll love him tremendously, and live and die for him.
I know you will, it's your way
"
(Teddy Laurence)












 
Laurie è assolutamente Timothée Chalamet e Jo Saoirse Ronan, dico solo questo. Li shippavo già dal libro ma ho perso la testa per questa coppia vedendo Little Women al cinema, per cui mi sono basata quasi interamente sul film, ma I regret nothing. Nel film infatti Jo a un certo punto arriva a pensare di aver fatto la scelta sbagliata rifiutando Teddy, e io mi sono dovuta aggrappare a questo perché la mia OTP distrutta ancora non l’accetto, okay? Lasciatemi ai miei deliri.
Diciamo che Jo, almeno nella trasposizione cinematografica, mi ha dato l’impressione di aver paura di innamorarsi perché questo avrebbe messo a repentaglio la sua libertà, la cosa più importante di tutto, e ho cercato di trasmettere questa sua paura. Il What if è ovviamente gigantesco perché Amy viene avvertita che Beth sta male e Laurie non si innamora di lei, sorry not sorry.
“Il mondo girerà anche senza di noi” è di Brunori Sas, tratta da Anche senza di noi.
Una recensione anche mini sarebbe assai apprezzata, perché è un Fandom nuovo e di questa storia non so cosa pensare e io ho bisogno di certezze (specialmente per la caratterizzazione).
Se avete avuto la forza di arrivare sin qui un Timoteo coccoloso è d'obbligo,

   
 
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