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Autore: Ksyl    22/01/2020    3 recensioni
Dopo il week end negli Hamptons, Kate Beckett rimane incinta a sorpresa: la loro coppia recentemente formata riuscirà a superare lo sconvolgimento delle loro vite? Seguito di "Un colpo di testa"
Genere: Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Quasi tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Seconda stagione
Capitoli:
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Castle

Nel corso della notte Castle l'aveva sollevata dal pavimento dove aveva preteso di rimanere, prendendola cautamente tra le braccia, e l'aveva trasferita sul letto. Lei aveva mormorato qualcosa di inintelligibile, aggrappandosi a lui con voce insonnolita, senza nemmeno aprire gli occhi.
Una volta stesa a letto si era raggomitolata contro di lui in posizione fetale, dimostrandosi vulnerabile e in cerca di conforto, come non si permetteva di essere da sveglia. Lui l'aveva stretta tra le braccia, tenendola contro di sé.
Per un istante si era concesso di indugiare sul pensiero che, forse, quella sarebbe stata la loro unica occasione di essere in tre. Non era riuscito ad addormentarsi, incapace di cancellare dalla mente un'immagine troppo dolorosa e già nostalgica.
Era rimasto immobile a lungo, a occhi chiusi, respirando il profumo della sua pelle e la tranquillità che emanava da lei.

Il sonno l'aveva raggiunto, sfinito, solo all'alba, ma si era risvegliato dopo quelli che gli erano sembrati pochissimi minuti, ritrovandosi in un letto vuoto.
La vide uscire dal bagno, pallida e provata, prima ancora di chiedersi dove fosse finita.
"Va tutto bene?"
"Chiedimelo tra un'ora", gli rispose passandosi una mano sulla fronte.
"Perché non mi hai svegliato? Vuoi che ti prepari la colazione?", le propose, alzandosi e dirigendosi verso la sua cucina, che ormai conosceva abbastanza da potervisi muovere a proprio agio.
"Non dire mai più la parola colazione", gemette lei, prima di scomparire di nuovo in bagno.

Quello che seguì fu uno strano inizio di giornata. Non era quello che lui aveva pregustato ogni singolo, infelice giorno della settimana precedente trascorsa lontano da lei.
Si muovevano cauti, senza osare sfiorarsi, senza quasi guardarsi negli occhi, nel timore di dire una parola di troppo. Non avevano più affrontato la questione che incombeva minacciosa sopra le loro teste. Era come se si fossero tacitamente accordati per non accennare all'argomento, stando molto attenti a non arrivarci nemmeno vicini.
Nessuno dei due voleva imporre all'altro la propria opinione, diametralmente opposta. Non volevano ferirsi, pur essendolo, ognuno a modo suo e per motivi diversi.
Questo però si traduceva in gesti studiati e scarni tentativi di conversazione e non il gioioso disordine che aveva caratterizzato la loro vita di coppia fino a quel momento.

"Ci vediamo in ufficio, più tardi? Io devo andare in tribunale", si informò Beckett. Era vestita di tutto punto e già mentalmente molto lontana da lui.
Lui la raggiunse sulla porta. "No, devo passare da casa. Ho delle cose da sbrigare e magari faccio in tempo a vedere Alexis prima che esca per andare a lezione".
Se rimase stupita dal cambio di programma non lo diede a vedere. Si limitò a sfiorarlo con un rapido bacio sulle labbra e uscì, senza voltarsi indietro. Di solito lo faceva. Tornava per un ultimo bacio, ricordandogli i loro accordi di segretezza. Era uno dei suoi momenti preferiti.

Castle prese un taxi e tornò al loft. Aprì la porta e fu accolto dal silenzio. Aveva mentito, non doveva incontrare Alexis – che a quell'ora era già fuori casa - voleva solo avere un po' di tempo per se stesso, per raccogliere le idee, stare da solo. Non aveva voluto confessarlo per non turbarla. Per non farla sentire respinta.
Si diresse nel suo studio, dove si lasciò cadere sulla sedia girevole dietro la scrivania, con un sospiro stanco. Rimase ad ascoltare il traffico molti piani più sotto, sperando che la quiete lo aiutasse a dipanare le emozioni contrastanti.
Dopo qualche minuto trascorso in uno sforzo meditativo che non aveva raggiunto il suo scopo, si abbassò, recuperò il computer dalla borsa appoggiata vicino alla scrivania e lo accese. Forse lavorare lo avrebbe distratto.
Senza rendersene conto, cliccò sulla cartella che racchiudeva tutte le foto di Alexis fin da quando era neonata e le scorse una a una, sorridendo allo scricciolo rosso che lo guardava dallo schermo.

Non poteva farsi questo, lo sapeva. Non era sano, ma non riusciva a smettere. Non ci sarebbe stato nessun bambino, non poteva fargli spazio nella sua mente, era un invito al massacro. Continuava a pensare che non fosse giusto, che lei stesse sbagliando. Non avrebbe mai discusso con lei della sua scelta, né l'avrebbe mai biasimata. Aveva le sue ragioni. Le capiva, era un uomo ragionevole.
Ma lottava continuamente contro il desiderio di scuoterla, implorarla, prometterle che ce l'avrebbero fatta. Che cosa poteva esserci di meglio di loro due, per un bambino? Erano perfetti insieme. E sì, era successo troppo in fretta, ma nessuno era mai veramente pronto e se si fosse aspettato il momento giusto, non sarebbe mai arrivato, non era così che dicevano?
Era certamente un azzardo, ma perché lei era così convinta che non ci fosse nemmeno la remota possibilità di successo?
Non voleva un bambino adesso o... non voleva lui? Era solo una parentesi divertente della sua vita? Non aveva mai pensato al futuro?
Erano pensieri tossici, morbosi. Non avrebbero portato a niente di buono, se non a darsi un inutile tormento e a rovinare quello che avevano. Già, quello che avevano...
La conosceva. Quella non era una Beckett che avrebbe riconsiderato la cosa. E lui sapeva già che l'avrebbe amata a prescindere e che lei era tutto quello che voleva, ma...
E in quel ma, purtroppo, erano racchiusi i semi di qualcosa che avrebbe potuto avvelenarli. Lei lo aveva già capito.

Cercò di dedicarsi ad altro, imponendoselo a forza, ma il suo cervello si rifiutò di smettere di creare pericolose immagini di un bambino con i loro lineamenti fusi insieme, la sua mente creativa e la logica ferrea di lei. E di che colore avrebbe avuto gli occhi? Chi si sarebbe alzato nel cuore della notte? Chi gli avrebbe insegnato ad andare in bicicletta?
Perché tutto questo non le sembrava, se non bello, almeno fattibile?
Si passò una mano sugli occhi pesti, si arrese e spense il computer, girandosi verso la parete, rimanendo così per molto tempo.

Beckett

Passò qualche giorno, faticoso e difficile. Non voleva pensarci. Non c'era niente da pensare. Non aveva ancora fatto niente di concreto, in un senso o nell'altro, si limitava a destreggiarsi tra nausee mattutine sempre meno sopportabili e una stanchezza che le faceva venire voglia di addormentarsi ovunque si trovasse.

Castle le era sempre accanto, gentile, affettuoso, pronto a cercare un modo per alleviare i suoi sintomi, a rendere la situazione un po' meno pesante. Non se la prendeva se, quando lo invitava per un film, rimaneva da solo a guardarlo fino alla fine, perché lei era già crollata contro la sua spalla dopo i primi dieci minuti. La portava a letto. Le rimboccava le coperte. Le preparava la colazione. Le comprava tonnellate di pistacchi, che lei divorava in continuazione. Lo sentiva vicino, pronto a sorreggerla, a farla divertire con qualche stramba teoria, che la faceva sorridere di nascosto, anche se doveva salvare le apparenze.
Solo che... non era lui. Era un estraneo cortese su cui poteva sempre contare, ma non era Castle.
Non era facile nemmeno affrontare il discorso apertamente: di cosa poteva lamentarsi, in fondo? Di niente. Sei troppo gentile? Smettila di comportarti come se fossi di cristallo e ricomincia a trattarmi da persona in carne e ossa? Perché non ne parlavano? Perché lei non si decideva a fare qualcosa? Veniva trascinata avanti da un'apatia che non riconosceva, nonostante il tempo non fosse illimitato, lo sapeva. Fin troppo bene.

Una mattina, mentre guidava verso il distretto, ricevette una chiamata da parte di Lanie, che le fece fare una deviazione in direzione del laboratorio. Castle se ne era appena andato dopo aver messo in scena, di comune accordo e per l'ennesima volta, la loro versione privata di "Noi non abbiamo nessun conflitto".
Aprì le porte con aria distratta e fu accolta dallo sguardo indagatore dell'amica, già in assetto da combattimento.
"Ehi, dove è il tuo fidanzato?", la investì con il suo miglior tono da interrogatorio. Avrebbe dovuto prendere qualche lezione da lei.
Kate fu colta alla sprovvista. Si girò per guardare se stesse parlando con qualcuno alle sue spalle.
"No, amica, sto parlando con te", chiarì Lanie.
"Quale... quale fidanzato?". Ci mancava solo lei a farle perdere tempo con chiacchiere inutili. Non era proprio dell'umore.
"Il tuo fidanzato scrittore. Chi altri?", replicò Lanie come se fosse la cosa più ovvia del mondo.
"Tu lo sai?!", chiese sbigottita.
Dopo il ritorno di Castle al distretto, a seguito del loro disastroso week end negli Hamptons, la gente si era convinta che qualcosa non avesse funzionato, ma che fossero riusciti a trovare il modo di lavorare insieme, superando i loro conflitti almeno in quell'ambito. Erano stati molto felici di lasciarglielo credere, evitando ogni forma di contatto, se non quando strettamente necessario. Erano civili ed educati e tanto bastava. Credevano ci fossero cascati tutti. Evidentemente, non Lanie.
"Puoi ingannare i tuoi amici detective, di certo non me. Allora, dove è Castle? Come mai non ti gira intorno con l'aria di volerti rinchiudere nel primo stanzino disponibile?"
Kate si sentì arrossire sotto quell'aria inquisitoria.
"Non... mi vuole rinchiudere in nessuno stanzino", contestò.
"Forse tu non te ne accorgi, ma io sì. Non mi è mai sfuggito nulla. E, dimmi... il sesso è come nei romanzi?", indagò con fare malizioso.
"Lanie!". Kate le rivolse un'occhiata ammonitrice. "Noi... noi non faremo questo discorso. Mai. Argomento chiuso".
"Sicura?", ribatté Lanie, delusa.
"Più che sicura. Novità sul caso?", tagliò corto.

Lanie la ragguagliò sugli ultimi risultati, spostandosi nel laboratorio per avvicinarsi al lettino dove era steso il cadavere, continuando a parlarle, finché non si rese conto che Kate non la stava seguendo. Aveva preferito rimanere indietro. Aveva i suoi buoni motivi che non intendeva spiegarle.
Si fermò a guardarla con aria interrogativa. Stava per mostrarle una strana macchia sul corpo e da dov'era non sarebbe certo riuscita a vederla, ma non poteva avvicinarsi.
"Perché te ne stai così lontana?", le chiese senza capire.
"Non sto lontana", ribatté Kate sulla difensiva, senza muoversi di un passo.
"Pensavo avessi visto abbastanza cadaveri da non farti più turbare. Sei tornata improvvisamente sensibile alla decadenza del corpo umano? È perché adesso frequenti l'alta società? Il mio tavolo è troppo per il tuo stomaco delicato?", la stuzzicò, non sapendo di essere vicina alla verità.

Preferì non rispondere. Si predispose a farsi forza e superare la nausea per tornare vicino al corpo e non destare nessun sospetto.
Di colpo Lanie assunse un'espressione turbata, mentre collegava mentalmente i puntini.
"Oh, no..." iniziò a mormorare in preda allo sconcerto. "Oh, no. Oh, no, no, no".
Kate chiuse le palpebre, preparandosi psicologicamente all'assalto che sarebbe sicuramente seguito. Non aveva considerato che le sue nuove condizioni non la rendevano compatibile con una visita in obitorio. Era diventata intollerante alla maggior parte degli odori, soprattutto quelli forti, che lì abbondavano.
"Non dirlo", la implorò vanamente.
"Sei incinta!". Il suo tono non poteva essere più incredulo, neanche se avesse annunciato un'invasione di alieni.
"Ed eccoci finiti nel dramma", mormorò Kate a se stessa, rassegnata a non riuscire a scappare dalle grinfie dell'amica, prima che tutta la questione fosse stata sviscerata in ogni dettaglio, con particolare attenzione a quelli più sordidi. "Se potessimo spostare questa conversazione a un momento più consono, io non ho davvero tempo...", mormorò in un ultimo, infruttuoso tentativo di allontanare la sua condanna.
"No, non possiamo. Voglio sapere tutto. Adesso. Da quanto vi vedete? E per vedervi intendo intrattenervi in attività ricreative che hanno generato questo risultato, non arrestare gli psicopatici".
"Da qualche settimana", ammise Kate a malincuore, anticipando già la scenata.
"E sei già incinta?! Ma che cosa vi viene in mente? Non siete due adolescenti!"
"Lanie...". Kate provò a fermarla con voce stanca, desiderando con tutta se stessa di essere altrove.
"Raccontami tutto", le ordinò.
E Kate, sorprendendo perfino se stessa, si aprì finalmente con qualcuno, iniziando dagli Hamptons e finendo con il test di gravidanza, la sua decisione, e la strana atmosfera che si era creata con Castle. Tirò fuori tutto. Venne fuori da solo in una valanga di parole, frasi smozzicate, qualche espressione rabbiosa. Si sentì meglio, quando ebbe finito.

Lanie l'ascoltò attentamente, senza interromperla.
"Quindi, riassumendo: lui è pazzo di te, da sempre. Tu hai finalmente ammesso a te stessa che sei pazza di lui. Tra parentesi, l'avevamo sempre saputo tutti. State bene insieme. Siete travolti dalla passione..." C'era un modo per morire? Velocemente? "Gettate la prudenza alle ortiche, fate un bambino e adesso tu non lo vuoi. E lui sì".
Era un riassunto conciso ma molto onesto, Kate fu costretta ad ammettere che era proprio così.
"È un bel casino", fu il commento lapidario che ne seguì. "E Castle come si sta comportando? Ti fa pressioni?".
"No, mai. È... gentile e amorevole come sempre". Era la prima volta che lo diceva ad alta voce a qualcuno che non fosse il suo riflesso allo specchio. "Solo che... c'è qualcosa di diverso tra di noi, non è più lo stesso".
"Più che qualcosa, direi che c'è qualcuno", la corresse Lanie, stringata.
"Lanie, dai, non è neanche una persona. Sarà grande qualche millimetro", obiettò Kate, che aveva sempre preferito non porsi certe domande. Non sapeva di quante settimane fosse. Era solo un concetto molto nebuloso che non la riguardava.
"Castle non è d'accordo su questa definizione, vero?".
"Non lo so, immagino di no. Ed è quello il problema. Non parla, non affronta il discorso, non mi dice niente. Lo vedo perso nei suoi pensieri, ma tutto quello che ottengo è 'Va tutto bene. Tu come stai? Hai bisogno di qualcosa? Vuoi qualche liquirizia, cracker, zenzero o qualche altro dannato rimedio antinausea?'"
A proposito di nausea, non le era ancora passata del tutto. Quel giorno non le stava dando tregua.
"Non vuole metterti pressione, non mi sembra una brutta cosa".
"Non lo è, ma così facendo finisce che non comunichiamo più".
"Kate, lui lo vuole e tu no. La decisione è la tua. Che cosa vuoi che faccia di diverso? Che ti implori di tenerlo? Che ti proponga di averlo e di darlo a lui? Che vada a fare i sit-in antiabortisti davanti alle cliniche? Ha già una figlia, sa bene a cosa dovrà rinunciare. Quanto pensi che gli costi starti vicino e non dirti niente? Lo fa solo per rispetto. E perché ti ama".
Kate non aveva mai considerato la cosa da questo punto di vista. Dal punto di vista di Castle. Si sentì mancare. Gli spiacque per lui. Come poteva fargli questo? E come poteva farlo a se stessa, capovolgendo la situazione?

"Ma in fin dei conti, perché non lo vuoi?".
Era questo che odiava. Le domande. Dover spiegare. Erano fatti suoi. Era la sua decisione, la sua vita. Perché gli altri si impicciavano? Non lo voleva perché non lo voleva. Non ne aveva forse il diritto?
"Non... non è il momento giusto. Non così, non adesso. Ho... altri progetti", ribatté Kate, sentendosi improvvisamente più una bambina capricciosa che una donna adulta con il diritto di fare le sue scelte.
"Il padre va bene? Intendo, non è Castle il problema, giusto?"
No, il problema non era decisamente Castle.
"Diciamo che... se proprio doveva capitare, meglio con lui che con chiunque altro".
"Credo che tu abbia la risposta".
"A quale domanda?".
"Perché diavolo non dovresti tenerlo!"
"Lanie! Ti ci metti anche tu, ora?", Kate la guardò sconcertata e offesa. Questo era oltrepassare dei confini chiari e precisi. Non lo avrebbe permesso a nessuno.
"Qualcuno dovrà pur farti ragionare".
A quelle parole, Kate fece per andarsene, esasperata per i modi bruschi, il tono presuntuoso e l'arroganza di sapere che cosa fosse meglio per lei. Le aveva chiesto un consiglio? Non le pareva proprio.

"Kate", la richiamò indietro, quando era già in corridoio. La raggiunse fuori. "Scusami. Ho esagerato. Ma... avete una relazione, una vita stabile. E hai ammesso tu stessa che è la persona giusta. Di cos'altro hai bisogno?".
"Non ho detto che è la persona giusta. Ho detto che, nell'ipotesi, meglio lui di un altro", specificò. Castle sarebbe stato un ottimo padre, ne era più che certa.
"Quindi il problema è che non sei sicura di lui?", le chiese con molta più delicatezza di quanta ne avesse dimostrata fino a quel punto.
"No, non sono sicura di me. Non sono una persona da bambini. A te piacciono, a Castle piacciono, piacciono a tutto il mondo. Siete bravi, sapete cosa fare, vi fanno tenerezza. A me no".
"Quindi stai suggerendo che io e Castle dovremmo avere un bambino?".
Kate si mise a ridere, un po' forzatamente. Lanie le si avvicinò e le mise una mano sul braccio. Rimase rigida sotto il suo tocco.
"Kate, non lo sa nessuno come si fa a fare il genitore. Però, se non ci siamo ancora estinti, evidentemente è una cosa che quasi tutti possono imparare a fare, no? Il punto non è trovare motivi ragionevoli per dire di sì o di no. Il punto è capire se c'è una parte, dentro di te, che lo vuole e basta. A istinto".
Kate fece silenzio per un lungo momento, interrogandosi.
"No", disse alla fine. "Credo che non ci sia".
"E allora perché aspetti? Perché non hai ancora fissato un appuntamento?".
"Hai ragione. Lo farò presto".
E, finalmente, scossa, irritata e molto stanca, fu libera di andarsene.

   
 
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