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Autore: Spoocky    22/01/2020    9 recensioni
Seconda Guerra Mondiale, un giovane soldato tedesco è in stato comatoso dopo essere rimasto ferito in battaglia ed il suo compagno lo veglia in ospedale.
La storia partecipa all'Advent Calendar del gruppo Hurt/Comfort Italia - Fanfiction & Fanart
Genere: Angst, Guerra, Hurt/Comfort | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate | Contesto: Guerre mondiali
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Buonasera a tutti!
Avviso che questa è la mia prima slash degna di questo nome. La storia contiene infatti una scena omoerotica non descritta nei dettagli, avviso comunque  in modo che i non interessati possano saltarla.
Ringrazio in anticipo tutti coloro che passeranno a leggere questo raccontino e soprattutto chi vorrà lasciare la propria opinione.
Il titolo e le strofe inserite nella storia provengono dalla canzone "Pale Blue Eyes" dei Velvet Underground, di cui non accampo i diritti.

Buona Lettura ^^
Linger on your pale blue eyes

La corsia dell’ospedale era un miscuglio soffocante di odori contrastanti: l’olezzo pungente della liscivia si mescolava a quello dell’ammoniaca e alle fisiologiche emanazioni del sudore dei pazienti, che impregnava le lenzuola. Più ci si avvicinava ai letti più si avvertiva l’odore del sangue, che in alcuni casi trapelava sulle bende, rovinando l’apparenza immacolata del reparto per mostrare tutta la cruda realtà del dolore che ospitava.
La maggior parte dei ricoverati cercava di resistere come poteva alla sofferenza, perché le scorte di morfina erano ridotte e ad ognuno ne spettava una quantità a malapena sufficiente. I degenti dunque si arrangiavano come riuscivano: qualcuno mordeva le coperte, altri si aggrappavano disperatamente ai commilitoni venuti a far loro visita, che li confortavano come potevano, altri ancora dormivano esausti, a tratti agitandosi sotto le coperte per il forte dolore, che non li abbandonava nemmeno nel sonno.
C’era un solo letto, in fondo alla camerata, da cui non proveniva alcun suono.
Il soldato semplice Hans Toller vi giaceva del tutto immobile, pallido come morto, la testa bionda abbandonata sul guanciale e piegata verso una spalla, gli occhi inesorabilmente chiusi. Gli avevano rimboccato le coperte fino al mento, nascondendo le bende che avvolgevano il suo magro torace, devastato dalle schegge di una granata.

Al suo capezzale, il soldato Klaus Bergener intinse una pezzuola in una bacinella, strizzò via l’acqua in eccesso e la passò sul volto dell’amico, un gesto delicato come una carezza, e indugiò sulle sue labbra esangui, tamponandole per dissetarlo. Il ferito non mosse un muscolo, nemmeno una minuscola contrazione deturpò la tragica immobilità del suo viso.  Da tre giorni, dopo che era stato ferito, era rimasto incosciente. I medici avevano dato la colpa alla copiosa emorragia e allo stress che il lungo intervento di rimozione dei frammenti aveva causato al suo corpo.
Klaus non era un medico ma sapeva che più si prolungava lo stato d’incoscienza più le speranze di sopravvivenza di Hans diminuivano.
Con la coda dell’occhio si accertò che tutti nel reparto fossero coinvolti nei propri compiti e, certo di non essere osservato da nessuno, si chinò sul compagno. Gli pettinò il ciuffo biondo con il palmo e proseguì ad accarezzargli la testa: “Hansi? Hansi? Resisti, mein lieb. Sono qui accanto a te. Non ti lascio.” Si chinò tanto da accostargli le labbra ad una tempia e gli sussurrò all’orecchio “Mi manchi. Ti prego: cerca di resistere. Ho bisogno di te.”
Senza staccargli la mano dal capo, si poggiò con la fronte sul guanciale accanto a lui perché nessuno vedesse le lacrime che minacciavano di scorrere dai suoi occhi grigi.

Gli mancava terribilmente ogni aspetto di Hans e avrebbe dato la vita pur di vedere i suoi occhi azzurri aprirsi un’ultima volta. Non aveva detto nulla agli ufficiali superiori né all’ufficiale medico quando lo aveva trasportato a braccia, grondante di sangue, al posto di medicazione. Non aveva detto nulla a nessuno ma si sentiva in colpa perché non aveva potuto proteggere il suo compagno.

Non aveva visto arrivare la granata, non si era accorto di nulla finché Hans non gli era balzato davanti, spingendolo a terra e coprendolo con il proprio corpo. Quando aveva riaperto gli occhi l’altro era steso a terra accanto a lui, pallido come un fantasma e coperto di sangue.
Klaus gli si era precipitato accanto e lo aveva raccolto tra le braccia: “Hansi? Hansi!”
Ma l’altro non rispose, rimase a rantolare inerte sul suo petto, i suoi occhi azzurri semiaperti e fissi.
Nel clamore della battaglia, Klaus lo aveva stretto a sé e gli aveva posato un bacio sui capelli, sentendo in bocca la terra e la polvere da sparo. Quando lo aveva guardato di nuovo in volto, aveva gli occhi chiusi e respirava a fatica.
Lo aveva preso in braccio come un bambino ed era corso a perdifiato verso il posto di medicazione, mentre tutto intorno a lui fischiavano proiettili, esplodevano obici di mortaio e granate. Ma nulla di tutto ciò per lui aveva importanza: gli importava solo del giovane tra le sue braccia, un dolce peso che non si sarebbe mai stancato di portare. Quando lo adagiò sul lettino operatorio per poco non crollò in ginocchio al suo fianco, e gli si spezzò il cuore doverlo lasciare lì.

Lo aveva rivisto solo tre ore dopo, al termine dell’azione. Era disteso su una brandina dell’ospedale da campo, pallido come un fantasma, avvolto in una coperta ruvida e con il tubicino di una flebo conficcato nel gomito.
Aveva dovuto ricorrere ad ogni fibra della sua forza di volontà per non scoppiare in lacrime quando non gli aveva risposto dopo essere stato chiamato. Si era limitato a prendergli una mano e a stringerla forte, strofinandola con la propria per scaldarla perché era gelida.
Il suo gesto coraggioso gli aveva fruttato una licenza premio ed aveva giurato di trascorrerla al capezzale del giovane finché questi non si fosse ripreso.


Klaus cessò a malincuore di accarezzare i capelli di Hans e si chinò sotto il tavolino accanto al letto per recuperare l’occorrente per raderlo. Svolgeva lui stesso quell’incombenza, insieme a tutte quelle che non richiedessero la competenza tecnica di un’infermiera specializzata, e il personale medico lo lasciava fare: del resto, erano al collasso perché ogni giorno arrivavano nuovi pazienti e tutti avevano sempre troppo da fare.
Con delicatezza spalmò le guance, il mento ed il collo del ferito con l’acqua saponata e prese a far scorrere lentamente il rasoio sulla sua pelle bianca, facendo attenzione a non ferirlo accidentalmente.
Gli faceva tenerezza vedere come il giovane, di solito forte e coraggioso, incapace di restare fermo per più di cinque minuti di fila, sembrasse del tutto ignaro di quanto gli stava accadendo. Era completamente abbandonato alle sue cure, fragile ed indifeso come un cucciolo.

Quello non era il suo Hans, si trovò a pensare mentre un dolore sordo gli invadeva il petto. Di Hans aveva solo l’aspetto ma non c’era niente di lui che lo contraddistinguesse dagli altri ricoverati del reparto. Gli mancava la sua voce, il suo sorriso, gli mancavano i suoi vivaci occhi azzurri.
Mentre si dedicava anima e corpo alla cura del ferito, lasciò andare la mente, esplorando ricordi più piacevoli.

Ricordò il loro primo Natale insieme, rannicchiati l’uno contro l’altro in un’isba desolata, per ripararsi insieme al resto della loro squadra dal rigido inverno bielorusso.
Hans aveva dei geloni tanto profondi che gli si erano piagate le mani, Klaus le aveva prese tra le sue e le aveva baciate. Approfittando del buio nella capanna, Hans si era chinato verso di lui e le loro labbra si erano incontrate per la prima volta e finalmente Klaus aveva capito di poter smettere di nascondere la propria natura, almeno non alla persona che riteneva più cara nella sua vita.
Proprio in quel momento qualcuna delle sentinelle aveva intonato un canto natalizio e gli altri si erano poi uniti fino a che tutta la compagnia si era unita in un coro. Solo in quel momento, stretti uno tra le braccia dell’altro, avevano capito che fosse davvero Natale.

Ricordò una stanzetta spoglia, con i muri scrostati e stinti, presa in affitto per pochi centesimi. I loro cuori che battevano fortissimo, per l’emozione, l’eccitazione, e la paura di essere scoperti.
Hans non aveva la minima esperienza e toccò a Klaus guidarlo con ferma dolcezza per quei territori inesplorati, ognuno concentrato sull’altro prima che su sé stesso. I loro corpi espressero pensieri e concetti a cui le loro bocche non avrebbero mai potuto dare voce. Avrebbero voluto che quell’abbraccio così intimo e profondo non finisse mai.


Il sentiero dei ricordi portò Klaus troppo lontano e non resse più.
Una volta asciugato il viso di Hans gli accarezzò per l’ultima volta i capelli e crollò al suo fianco, con il viso sepolto nelle coperte e una mano sul suo cuore, assaporando ogni battito. Il pulsare leggero della vita dell’altro sotto il suo palmo gli dava speranza ma il suo volto immobile e gli occhi chiusi lo spaventavano.
Nascondendo il volto nel materasso e aggrappandosi alle coperte scoppiò in un pianto silenzioso, il pianto di chi ha sopportato troppo e non riesce a trattenersi.
Piangeva non per sé, per il timore di una vita trascorsa in solitudine senza l’amato, non per la Patria privata di un così valoroso soldato. Piangeva per Hans e per la sua giovane vita, spezzata troppo presto per un gesto inconsulto. Non si sarebbe mai perdonato se fosse morto per salvare lui.
Il pianto gli scuoteva la testa e le spalle, i muscoli sussultavano tanto da provocargli dolore ma non riusciva a fermarsi: aveva sopportato troppo, non poteva perdere anche Hans.
Non seppe mai quanto tempo trascorse in quello stato ma all’improvviso sentì qualcosa muoversi sotto di lui. La testa gli pulsava di un dolore sordo e il collo gli si era irrigidito ma pur a fatica riuscì ad alzare lo sguardo.
I suoi occhi grigi incontrarono lo sguardo azzurro di Hans ed il suo cuore mancò un battito.

“Hansi!” singhiozzò “Hansi!”Gli prese il volto tra le mani e lo accarezzò con i pollici.
Hans gli rivolse un sorriso stanco e aprì la bocca per parlare ma un accesso di tosse secca gli scosse il torace, strappandogli un lamento di dolore.
“Shh. Shh. Non ti agitare.” Con una delicatezza impensabile per le sue mani di soldato Klaus sollevò la nuca del ferito e gli accostò alle labbra un bicchiere d’acqua. Forse Hans era troppo debole, forse era troppo commosso, ma non riuscì a dire una parola.
In qualche modo Klaus lo capì: “Non ti sforzare, Hansi. Non ce n’è bisogno.”

Cercando di non provocargli dolore lo raccolse delicatamente tra le braccia e lo strinse a sé.
Pur senza vederlo avvertì Hans che nascondeva la fronte nell’incavo del suo collo e per poco non pianse di nuovo. Un abbraccio così intimo e profondo non aveva bisogno di parole.
 
-  The End -
  
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