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Autore: Old Fashioned    28/01/2020    18 recensioni
L'Impero Tedesco è stato proclamato da pochi anni e la Germania è finalmente unita. A un pittore viene commissionato un quadro patriottico: dovrà rappresentare la giovane Germania unita e forte. Il nostro si mette all'opera, ma non riesce a trovare il modello su cui basarsi per riprodurre le fattezze della Patria. Sarà in un modo del tutto inaspettato che finalmente troverà ciò che sta cercando.
Genere: Angst, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Storico
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Gente mia,
una piccola mappazza tanto per non perdere l’abitudine. Si tratta di un delirio germanofilo (e anche un po’ androfilo), quindi i lettori sono avvertiti: da leggere solo se piace il genere.
Grazie in anticipo a chi deciderà di passare da queste parti^^






GIOVANE GERMANIA






Albrecht Kellermann, pittore di Heidelberg, alzò il bicchiere e solennemente disse: “Brindo alla giovane Germania!”
Altri giovani artisti, che condividevano con lui il tavolo della taverna, levarono a loro volta i bicchieri. “Sì, evviva!” esclamarono, “Evviva la giovane Germania, evviva l’Imperatore!”
Uno di essi posò il bicchiere e si rivolse a Kellermann: “Di’ un po’, da quando sei così patriottico?”
Ora la Germania è unita,” disse l’altro per tutta risposta. Bevve un sorso di vino della Mosella.
Oppure stai brindando al lavoro che ti hanno commissionato?”
Kellermann assentì. “Anche.” Di nuovo levò il bicchiere in un muto brindisi, ma con un gesto più intimo, rivolto solo all’amico. “A Monaco, von Werner sta dipingendo la ‘Proclamazione dell’Impero Tedesco’,” disse, “a me invece tocca un compito ben più difficile: ritrarre la giovane Germania.” Assunse un’aria assorta, vagamente velata di una preoccupazione che non sfuggì all’altro. “Qualcosa non va?” chiese infatti questi.
Per tutta risposta, Kellermann disse: “Tu come la immagini, la Germania, Escher? La giovane Germania libera e forte?”
L’amico si guardò intorno. “In che senso, come la immagino?”
Se dovessi darle un volto, trovare una figura che la rappresenti, che racchiuda in sé la storia del popolo tedesco, le sue tradizioni, la sua anima, ma sia al tempo stesso in grado di dare anche l’idea della sua nuova potenza, del suo rigore e del suo valore guerriero.”
L’altro fece per rispondere, ma Kellermann proseguì: “E non tirarmi fuori le solite donne guerriere, tipo i quadri di Veit o Clasen: non se ne può più di queste emule di Brunilde dalle forme prosperose e dalle chiome svolazzanti.”
E allora cosa proponi, una donna magra? Niente armi?” Assunse un’aria ironica. “Magari un ritratto di Ildegarda di Bingen?”
Kellermann scosse la testa. “No, tutto il rispetto per la Badessa di Rupertsberg, ma non è lei la Germania.”
E allora chi?” Escher indicò una cameriera dalle trecce bionde, giovane e fresca, che stava passando con cinque boccali di birra per mano. “È lei la Germania, forse?”
L’altro crollò nuovamente il capo.
Davvero non capisco cos’hai in mente,” sospirò allora l’amico.
Il pittore strinse appena gli occhi, poi fissò lo sguardo lontano, come assorto in pensieri profondi. Per un po’ rimase immobile, sembrava stesse contemplando immagini visibili solo a lui.
Bevve un sorso di vino, poi posò il bicchiere. Alla luce calda delle candele, il suo contenuto prese un colore sontuoso, dorato, come di topazio.
Infine, egli disse: “Non è una donna l’immagine che la giovane Germania mi evoca.”
Allora un’aquila?” propose Escher. “Oppure una solida quercia, secolare ma ancora vigorosa?” Aprì le braccia come per simulare i rami della pianta, quindi soggiunse: “Un albero nodoso, possente, dalla scorza ruvida, che reca su di sé i segni delle tempeste e del gelo, ma che ha foglie verdi innumerevoli, e ovunque giovani germogli. Sfida i venti con le sue alte chiome e offre riparo e nutrimento a tutti gli animali della foresta.” Tacque, come spossato dall’aver creato una così complessa immagine, quindi soggiunse: “Questa è la Germania, non ti pare?”
Kellermann scosse la testa. “No.”
L’altro lo fissò stupito. “No?”
Il primo bevve un altro lungo sorso di vino, riempì nuovamente il bicchiere e disse: “Pensaci: quale immagine assomma in sé tutti ciò che consideriamo Germania? Dove coesistono eroismo, sacrificio, misticismo, fedeltà incrollabile, forza e vigore? A chi appartengono la profondità delle radici, il valore delle tradizioni e la volontà di potenza?”
Ora parli per enigmi,” si arrese l’amico.
Kellermann annuì grave. Raddrizzò appena le spalle, inspirò lentamente. Infine disse: “la Germania è un giovane cavaliere teutonico in armi, con la spada in pugno e la croce nera sul petto. I suoi capelli hanno il colore dell’oro, i suoi occhi sono tra il grigio e l’azzurro, a simboleggiare forza e regalità. Il volto è di nobile pallore. Suoi compagni sono l’aquila e un magnifico destriero. Accanto a lui sorge una quercia possente, cui è appoggiato lo scudo imperiale. Lo stendardo con i colori nazionali garrisce al vento e un raggio di sole fa brillare le gemme della corona del Sacro Romano Impero, posata su una roccia ai piedi dell’albero. Sullo sfondo c’è il castello di Marienburg.”
Escher rimase in silenzio per qualche secondo, quasi stesse contemplando l’immagine che l’amico aveva così vividamente descritto, quindi rispose: “Beh, che aspetti a dipingere questo componimento, se ce l’hai così chiaro in mente?”
Kellermann prese un’aria afflitta. “Non trovo il volto del cavaliere.”
Non trovi il modello?”
L’altro scosse la testa, poi rispose: “È come se avessi un’immagine nella testa, ma non riesco a trovare il suo riscontro nella realtà.”
Non puoi dipingere il cavaliere sulla base di ciò che hai in mente?”
Kellermann sospirò. “Lo sai che riesco a lavorare solo se ho un modello davanti. E poi il volto che immagino è più che altro un’idea, un insieme di caratteristiche che fatico a concretizzare in un volto reale.” Fece una pausa, quindi soggiunse: “Dovrei vederlo, e allora mi direi: ecco, è lui. Finalmente me lo trovo davanti.”
Hai provato con Rossignol?”
Chi, il modello francese?”
È biondo, no?”
Kellerman scosse la testa. “Non somiglia nemmeno lontanamente a un giovane cavaliere teutonico. Al massimo può fare il Ganimede o l’Endimione.”
Janusz Kowalczyk?”
No, troppo volgare. Ha i lineamenti grossolani, va bene per fare l’Ercole.”
Però è biondo anche lui.”
Non comunica nessuna idea di misticismo. Solo forza bruta, solidità da bove.”
Qualche tedesco? Anton Hofer, ad esempio?”
Kellerman scosse la testa sconsolato. “No no, non ci siamo. Non è lui.”
Ma se sembra Sigfrido!”
No, non è lui, lo sento. Gli manca qualcosa.”
Cosa, di grazia?”
Il pittore si prese la testa fra le mani. “Non lo so. Non lo so, maledizione. Se lo sapessi, starei già dipingendo giorno e notte, perché ho come un fuoco dentro: devo trasferire sulla tela quello che ho nella mente e nell’anima, quest’immagine che mi sta ossessionando.” Bevve di nuovo, vuotando il bicchiere. “Non lo so,” ripeté. “Ho fatto innumerevoli bozzetti e poi li ho bruciati tutti: nessuno è venuto come volevo. È come se ce l’avessi davanti agli occhi, ma lo stessi guardando attraverso un vetro opaco. So che c’è, so com’è fatto, però non riesco a vederlo con chiarezza, e la cosa mi fa impazzire.”

§

Giungendo a casa, Albrecht s’imbatté nel personale di servizio che stava ornando la porta d’ingresso con nastri rossi e rami d’abete. Sua madre stava supervisionando l’allestimento.
Più rami!” ordinò la signora Kellermann, “Più pigne e agrifoglio. Non vorremo essere la casa più misera della strada, non è vero?”
Nossignora,” rispose la cameriera.
Allora più agrifoglio, cara, e anche i nastri rossi, che simboleggiano amore e gioia. Dov’è la corona da appendere?”
Qui, signora.” La ragazza indicò un sontuoso cercine di foglie, mele lustre, semi d’anice stellato, stecche di cannella e palline dorate. Appese a nastrini colorati, tintinnavano lievi delle campanelle.
Molto bene,” approvò la donna. “Fissatelo con cura, non vorrei che qualcuno lo rubasse.”
Sì, signora.”
A quel punto la donna fece qualche passo indietro per contemplare l’insieme e si accorse del figlio in arrivo. “Albrecht!” esclamò. “Albrecht caro, guarda: stiamo addobbando per il Natale. Che te ne pare?”
Bellissimo, mamma.”
Davvero? Se lo dici tu mi fido, conosco il tuo senso artistico.”
È tutto molto bello.”
Dici che ci vorrebbe più agrifoglio?”
Kellermann scosse la testa, più che altro per risparmiare alle cameriere pericolose ascensioni sulla scala a pioli, poi disse: “No, appesantirebbe troppo. Così è più sobrio.”
Oh, ma certo. Come ho fatto a non pensarci?” La signora Kellermann sfoderò una lorgnette e contemplò l’insieme. “Così è molto più sobrio. Grazie, caro.”
Dov’è papà?”
È nel suo studio che lavora. Accompagnami in casa, caro, vuoi? Fa un po’ freddo.” La donna si strinse lo scialle sul petto.
I due si spostarono nell’ingresso e da lì passarono al salotto, dove l’alta stufa di ceramica diffondeva un piacevole calore. La signora Kellermann emise un sospiro di soddisfazione, poi proclamò: “Quest’anno a Natale faremo un’opera buona.”
Evitando di farsi notare, Albrecht alzò gli occhi al cielo. “Che opera buona, mamma?”
Il colonnello von Pfaffenhofen, che è un buon amico della famiglia Altenburger, dice che ogni anno molti giovani soldati sono costretti a trascorrere il pranzo di Natale in caserma, perché magari abitano troppo lontano e non hanno mezzi per tornare a casa.” La donna fece una pausa, forse aspettandosi una replica, che però Albrecht si guardò bene dal pronunciare. “Rimangono là da soli, poverini,” proseguì allora, “senza il calore di una famiglia. Abbandonati.”
Beh, mamma...” cominciò il giovane, ma subito la signora lo interruppe: “So cosa vuoi dire: sono soldati, svolgono il loro dovere per la Patria e sicuramente anche fra camerati staranno bene, ma io sentirei di aver veramente interpretato il messaggio del Natale, se invitassimo qui uno di quei bravi ragazzi.”
Ma mamma, è un estraneo,” tentò Albrecht. “Non è del nostro ambiente, si sentirà a disagio. Sarà una pena per lui e per noi.”
Sarà una gioia, vorrai dire,” replicò la donna con veemenza. “Daremo a un povero ragazzo il calore di una famiglia. Che ne dici, forse sarà il caso di ordinare uno Stollen più grande? O magari due, uno al cioccolato e uno normale.”
Il pittore emise un sospiro sconsolato. “Perché magari non gli paghiamo il viaggio a casa?” tentò. “Sarà di sicuro più felice di vedere i suoi, piuttosto che una famiglia di estranei. Ti sarà molto grato.”
La signora scosse la testa. “Oh, no. È impossibile. Come fa un poverino, partendo da qui, ad arrivare fino alla Prussia Orientale? Deve attraversare tutta la Germania, ci vuole tanto tempo.”
Mamma, seriamente: non mi sembra una buona idea,” tentò di nuovo il giovane, ma la signora si erse in tutta la sua altezza, lo scrutò con sussiego attraverso la lorgnette e disse: “È inutile, Albrecht, ho già deciso, e tuo padre è d'accordo. Lo fanno tutti, quest'anno: lo fanno gli Hausser, gli Altenburger, i Giesler e anche i von Schlieffen. Non vorremo essere gli unici egoisti, spero.”

Albrecht rinunciò a insistere. Di certo sua madre immaginava quell’ipotetico soldatino come un simpatico, grazioso animaletto al quale allungare una ciotola di latte mentre fuori nevicava.
Qualcosa da tenersi davanti al caminetto su un tappetino, qualcosa di piccolo e dolce, magari con grandi occhi colmi di gratitudine per il sontuoso pranzo…
Si chiese se la signora Kellermann avesse mai visto dal vero un soldato., se ci avesse mai interagito in qualche modo, a parte ascoltare la banda che la domenica mattina suonava nel parco del castello.
Probabilmente sarebbe arrivato un tanghero puzzolente e mal rasato, che avrebbe ingozzato tutto quello che poteva gettando la tavolata nell’imbarazzo coi suoi modi, si sarebbe ubriacato, avrebbe palpeggiato le cameriere e magari intascato anche qualche cucchiaino d’argento.
Fino a quel momento in casa loro non erano mai entrati militari, a parte il colonnello von Pfaffenhofen, che comunque vi aveva messo piede solo una volta.
Sua madre non poteva avere idea di come fosse un soldato veramente.
Non che lui ne avesse una molto più precisa, in verità, ma di sicuro conosceva i giovani uomini molto meglio di sua madre. Li conosceva nei loro divertimenti, per la precisione, e li vedeva quando non c’erano in giro signore che potessero scandalizzarsi. Immaginava che i soldati, che perlopiù provenivano dal popolo, fossero così o peggio, quindi decisamente inadatti al pranzo di Natale a casa loro.
Si disse che perlomeno, dopo la visita del povero soldatino lontano dalla famiglia, sua madre avrebbe smesso con certe stravaganze.

§

La mattina di Natale, Albrecht si era rintanato in camera sua, in parte perché sperava che con tutta la confusione che regnava in casa si sarebbero dimenticati di lui, ma in parte perché l’idea della Giovane Germania, quel volto nobile e severo di cavaliere in armi, che nonostante ogni suo sforzo gli sfuggiva, continuava a tormentarlo. Fissò critico l’ultimo bozzetto che aveva realizzato, scosse la testa, lo appallottolò e lo buttò nel camino. Preparò un altro foglio bianco, ma a quel punto udì un bussare discreto alla porta.
Avanti,” disse a malincuore, appoggiando da una parte il carboncino.
Comparve sulla soglia Imma, la più giovane delle cameriere, che con un inchino ancora un po’ goffo annunciò che il pranzo stava per essere servito.
Dalla porta aperta proveniva il chiasso della famiglia riunita. Voci acute di ragazzine, franche risate maschili, il chiacchierare fitto di sua madre con le sorelle.
Tese l’orecchio, ma tutto gli sembrava come al solito, non vi erano particolari suoni di meraviglia o curiosità.
Sperò che sua madre avesse infine seguito il suo consiglio, ovvero pagare il viaggio al soldato invece di trascinarselo a casa.
Scese le scale, raggiunse la sala da pranzo apparecchiata col servizio buono. La candida tovaglia di fiandra arrivava quasi fino a terra, l’argenteria brillava alla luce di innumerevoli candele. I calici di cristallo scintillavano come diamanti.
Una delle sue cugine, gli pareva che si trattasse di Hermine, sedeva con adolescenziale sussiego al pianoforte e strimpellava un Lied di Schubert.
Nell’aria aleggiava l’odore di vivande appetitose, di spezie e di vino caldo.
Si guardò intorno, ma non gli parve di adocchiare giubbe blu da nessuna parte. Sospirò sollevato.
Poi udì sua sorella Eugenia chiedere: “Quando arriva, mamma?”
Subito giunse la risposta: “Ho mandato Karl a prenderlo con la carrozza, sarà qui a momenti.”
Mangerà con noi o con la servitù?”
Il tono della signora Kellermann assunse un tono sdegnato. “Con noi, ovviamente, e guai a te se ti azzarderai a farlo sentire in imbarazzo.”
Sua sorella Hildegard chiese: “Mamma, è vero che i contadini della Prussia Orientale a tavola hanno solo un cucchiaio per il servizio e poi mangiano tutto con le mani?”
Chi ti ha detto una sciocchezza simile?” replicò la donna. Poi, a voce più alta, evidentemente rivolta a tutti: “Ve lo ripeto: quel povero ragazzo è solo e senza la sua famiglia, voglio che lo facciate sentire a suo agio, sono stata chiara?”
Ma sa parlare tedesco?”
Eugenia!”
Albrecht alzò gli occhi al cielo.
In quel momento una cameriera si avvicinò alla signora Kellermann e le disse qualcosa a bassa voce.
Eccolo!” esclamò la donna. “Ora vado a prenderlo. Hermine! Hermine, cara, attacca quel pezzo.”
La ragazza sbuffò e cominciò un’esecuzione decisamente scolastica di Heil dir im Siegerkranz.[1]
Trascorse forse un mezzo minuto, poi si udirono dei passi in avvicinamento e la voce della signora Kellermann che in tono affettuoso diceva: “Avete fatto buon viaggio, mio caro? Siete affamato? Spero che lo siate, ho fatto preparare gli Spätzle e l’arrosto con le cipolle apposta per voi. Avete freddo, forse? Vi faccio portare un bicchiere di vino caldo?”
Una giovane voce maschile tentò di arginare tutte quelle premure, ma fu subissata in un attimo da nuove offerte di cibo, bevande e calore.
Albrecht emise un sospiro.
Sta arrivando,” disse Eugenia. Allacciò le mani dietro la schiena e rivolse alla porta lo sguardo a metà fra la curiosità e l’aspettativa che avrebbe potuto dedicare al tendone di un circo.
Suo padre si fece avanti per fare gli onori di casa. In quanto figlio maggiore, egli si spostò al suo fianco per accogliere l’ospite.
E poi rimase senza fiato.
Si accorse confusamente che il signor Kellermann si faceva avanti tendendo la mano, udì qualche gridolino e qualche bisbiglio di sorelle e cugine, ma lui stesso non riusciva a emettere una parola.
Riusciva solo a fissare il soldato.
Una figura alta, snella, dal portamento elegante. Lineamenti regolari, delicati eppure pieni di forza, occhi fra il grigio e l’azzurro, profondi e trasparenti. Capelli d’oro pallido.
Nonostante vestisse la semplice giubba blu della fanteria, pur imbarazzato e forse intimidito dalla situazione, manteneva un atteggiamento di naturale nobiltà, di composta riservatezza che poche volte aveva visto in una persona così giovane.
La lastra di vetro opaco che per mesi aveva offuscato le fattezze adamantine della Giovane Germania era appena andata in frantumi.
Egli era lì, di fronte a lui, di carne e sangue, le guance appena velate di rossore, gli occhi luminosi e attenti.
Fece un passo avanti, il giovane si voltò verso di lui. “Soldato Erich Dierschke,” si presentò, accennando una posizione di attenti.
Molto piacere di conoscervi,” riuscì a balbettare il pittore, e più lo guardava, più si faceva precisa la sensazione di contemplare l’Ideale di giovane in armi che per mesi l’aveva tormentato. “Molto piacere,” ripeté, “il mio nome è Albrecht Kellermann.” Tese la mano.
Onorato di conoscervi, signore,” rispose il giovane. Abbassò lo sguardo sulla sua mano, poi di nuovo lo rialzò a fissarlo in volto: pareva che gli stesse domandando il permesso di stringerla.
Egli la mantenne ferma. “Benvenuto, signor Dierschke,” gli disse in tono incoraggiante. “È un piacere avervi fra noi.”
Vi ringrazio, signore,” rispose il giovane, e finalmente si decise a stringergliela.
Aveva una presa gentile ma solida, che comunicava una sensazione di tranquilla forza, di serena inamovibilità. Unita al suo sguardo limpido, gli evocò il verso di Max Schneckenburger: Sta salda e fedele la guardia al Reno.
La voce della signora Kellermann lo distrasse dalle sue considerazioni: “Vogliamo andate a tavola? Voi, caro signor Dierschke, avrete la bontà di sedervi accanto a me, non è vero?”
Come volete, signora.”
La donna si spinse addirittura a prenderlo gentilmente sottobraccio e a guidarlo verso il posto assegnato. Ad Albrecht non sfuggì l’impaccio con cui il giovane soldato si muoveva sui tappeti cinesi, indeciso se fosse consentito calpestarli o no. Si accorse che Eugenia stava dicendo qualcosa nell’orecchio a Hermine, che ridacchiava.
Raggiunse la madre. “Io siederò accanto al nostro ospite,” disse in tono che non ammetteva repliche.

Lo vide accomodarsi come sui carboni ardenti e gettare fugaci occhiate intorno come alla ricerca di ispirazione: ai lati di ogni piatto c’erano più posate di quante probabilmente quel ragazzo ne avesse mai viste tutte insieme, i bicchieri erano quattro, di forme e dimensioni diverse.
Lo fissò fino a che egli non gli restituì lo sguardo, a quel punto prese il tovagliolo e se lo mise sulle ginocchia. Il ragazzo lo imitò.
Passò Agnes, la più anziana delle loro cameriere, con una zuppiera fumante che aveva l’inconfondibile profumo della minestra di patate. Seguiva Imma, con i cubetti di pane fritti nel burro e la panna montata da aggiungere a ogni piatto.
Il soldato le fissò stupefatto, poi rivolse una fugace occhiata ad Albrecht. Questi scosse impercettibilmente la testa, come per fargli capire che non avrebbe dovuto preoccuparsi. Il giovane gli rivolse un lieve sorriso come di gratitudine.
A quel punto prese la parola il signor Kellermann: “Ebbene, giovanotto, voi che siete un militare, cosa ne pensate della nostra Germania unita?”
Suo zio Oswald intervenne: “Credete che otterrà il posto che le spetta in Europa?”
Il giovane parve ponderare la questione, il suo sguardo si fece pensoso, e più che mai ad Albrecht evocò l’immagine del giovane cavaliere in armi. Infine rispose: “Io credo di sì, signore.” Si spostò leggermente per consentire ad Agnes di servirlo, lasciò che Imma aggiungesse alla sua porzione una generosa quantità di cubetti di pane e una grossa cucchiaiata di panna. Ringraziò con un cenno del capo. “La Germania era già unita, credo,” proseguì poi con voce sommessa. Si portò una mano al petto. “Qui era già unita. Non credete anche voi?”
Che immagine poetica,” sospirò zia Swanhild, e subito in tono tagliente aggiunse: “E tu non ridere, sciocchina!”
Scusa, mamma,” brontolò Hermine.
È un’immagine davvero bella,” ripeté la donna. “Voi, che abitate così lontano, vi sentite unito agli altri tedeschi? Unito spiritualmente, intendo.”
Zio Oswald fece una risatina di sufficienza. “Teoricamente sarebbe quella la vera Germania, cara.” Si rivolse al soldato: “Non lo pensate anche voi?”
La Germania è dove c’è anche solo un tedesco, signore,” rispose il giovane. Aveva un tono pacato, addirittura premuroso. “Almeno, io credo che sia così, perché la Patria è qualcosa che uno ha nella mente e nel cuore, prima che nei beni materiali.”
Abbiamo un giovane filosofo!” esclamò la signora Kellermann. Gli diede un buffetto affettuoso sulla guancia, poi soggiunse: “Ora mangiate, caro, oppure si raffredderà tutto.”
A quelle parole, Albrecht si affrettò a raccogliere la posata corretta. Il ragazzo gli rivolse una fugace occhiata e lo imitò. Di nuovo si scambiarono un piccolo sorriso come d’intesa.
Il pittore rimase per qualche istante a osservarlo. Si chiese come fosse possibile che il figlio di un semplice contadino della Prussia Orientale avesse quella grazia nei movimenti, quel decoro. Non sapeva tenere le posate nel modo corretto, ma aveva mani eleganti e piene di forza. Non sapeva ovviamente fare conversazione come si usava nell’alta borghesia, ma paragonate al suo composto silenzio, quelle stesse conversazioni apparivano nient'altro che un cicaleccio stupido.

Sapete, io sono un pittore,” disse Albrecht verso la fine del pranzo.
Il ragazzo abbassò il cucchiaino del dessert e lo fissò meravigliato. “Davvero, signore? Dipingete i quadri?”
Intervenne a quel punto la signora Kellermann: “Quel paesaggio, vedete, quello che è sopra il camino: l’ha dipinto lui.”
Mamma...”
E anche i ritratti dell’ingresso, non so se li avete notati: sono il nostro Imperatore Guglielmo e l’imperatrice Augusta, che Dio li conservi. Anche quelli li ha fatti lui.”
Albrecht emise un sospiro. “Sì, mamma, dopo porto il signor Dierschke a vederli, d’accordo? Ora però vorrei chiedere al nostro ospite un’altra cosa.”
Di nuovo il soldato si voltò a fissarlo. “Che cosa, signore?”
Vorrei chiedervi di posare per me, signor Dierschke.”
Il ragazzo lo fissò stupefatto per alcuni secondi, poi ripeté: “Posare per voi, signore?”
Sì, sto realizzando un quadro di ispirazione patriottica e voi sareste il soggetto ideale.”
Ma io sono solo un soldato,” si schermì.
Voi avete esattamente i lineamenti che sto cercando.”
Non so come si fa,” tentò ancora Dierschke. Il suo imbarazzo cresceva di attimo in attimo, ma Albrecht si sentiva come l’assetato che finalmente vede rampollare l’acqua, e aveva la stessa urgenza di raggiungere l’obiettivo. “Non dovrete fare niente,” gli assicurò, “dovrete solo stare fermo nella posizione che vi dirò io.” Tacque per qualche secondo, occhieggiandolo speranzoso, quindi soggiunse: “Sarà come stare di guardia da qualche parte. Questo lo sapete fare, no?”
Sì, signore, ma...”
Vi prego, fatemi la grazia di accettare. Chiederò licenza ai vostri superiori, chiederò...” Si volse verso la signora Kellermann: “Mamma, forse potresti domandare al colonnello von Pfaffenhofen?”
Di nuovo il ragazzo fece tanto d’occhi. “Il signor colonnello?” Rivolse a entrambi lo sguardo che avrebbe riservato a creature soprannaturali.
È un buon amico della nostra famiglia,” disse subito la donna. “Sono certa che non ci rifiuterà questo favore, soprattutto quando saprà che è per un quadro di ispirazione patriottica.”

§

Albrecht si guardò intorno soddisfatto: la neve appena caduta faceva entrare dalle grandi finestre del suo studio una luce limpida e pura, che sarebbe stata perfetta per il quadro che aveva in mente.
Andò alle tende e le aprì quanto più poteva, quindi aggiunse carbone nella stufa, per far sì che la temperatura fosse confortevole.
Si accertò che il paravento dietro cui modelli e modelle si spogliavano fosse ben posizionato, che ci fossero uno sgabello e un gancio per appendere gli abiti.
Ripercorse tutto il materiale che si era procurato: una cassetta che avrebbe rappresentato la roccia, il cercine che sua madre aveva fatto appendere alla porta come corona imperiale, un attaccapanni a fare le veci della quercia e un pannello vagamente sagomato per riprodurre lo scudo.
Aveva preparato anche una tunica lunga fino ai piedi e un mantello, per la spada sarebbe andato bene un banale bastone da passeggio. Per l’aquila e il destriero gli sarebbe bastata l’immaginazione.
Diede un’occhiata all’allestimento: tutti quegli oggetti non erano che paccottiglia, un mero contorno che serviva solo per avere un’idea delle proporzioni del quadro.
Ciò che aveva veramente importanza era colui che entro breve sarebbe arrivato a posare. Guardò l’orologio e si accorse che mancavano pochi minuti all’orario concordato. Raccolse il blocco dei bozzetti, scorse le pagine che aveva già riempito con ogni possibile prospettiva di quel volto che riusciva ad assommare in sé la grazia del fanciullo e la serietà grave del guerriero.
L’aveva anche sognato, nei panni di un giovane cavaliere, con il vento che gli agitava i capelli dorati e lo sguardo fiero e risoluto.
Si chiese se sarebbe riuscito a riprodurre tutto ciò sulla tela, se sarebbe riuscito a cogliere l’ineffabile connotazione di quel volto pallido e austero.
A quel punto udì bussare alla porta e una domestica gli annunciò che l’ospite era arrivato.
Fallo accomodare,” le disse.
Quando la ragazza fu uscita, egli si spostò verso la finestra e volse lo sguardo all’esterno. Si rese conto di essere emozionato all’idea di rivedere quel giovane: il cuore gli batteva più forte, la bocca secca gli rendeva difficile deglutire. Nemmeno per i suoi esami all’Accademia di Belle Arti era mai stato così teso.
Andò alla ricerca di un bicchiere d’acqua e lo bevve d’un fiato. Riguardò i bozzetti che aveva abbandonato sul tavolo, li scorse di nuovo uno dopo l’altro.
Udì la porta aprirsi. Si voltò in quella direzione e vide che sulla soglia era fermo il soldato.
Vestiva un’uniforme blu molto più semplice di quella che aveva indossato per il pranzo di Natale e la cosa, invece di renderlo più dimesso, non faceva altro che esaltare la sua naturale nobiltà. Immaginò che probabilmente anche sporco e vestito di stracci sarebbe sembrato un principe.
Benvenuto,” lo accolse, tendendo le mani verso di lui. “Venite avanti.”
Dierschke si avvicinò impacciato, guardandosi intorno come se fosse entrato nella sala di un museo. I suoi occhi vagavano meravigliati sui bozzetti, sulle sculture e sui quadri di cui le pareti erano tappezzate. Non riuscì a evitare di fermarsi assorto di fronte a una copia del Corazziere Ferito di Géricault. Mise le mani dietro la schiena e rimase per qualche secondo a contemplarlo in silenzio, quindi parve ricordarsi il motivo per cui si trovava in quello studio, si riscosse e disse: “Scusate, signore.”
Venite avanti,” lo incoraggiò Albrecht.
Il ragazzo si avvicinò titubante. I suoi occhi attenti continuavano a vagare su ogni particolare dell’ambiente. Alla fine si posarono sul paravento. Egli lo fissò dilatandoli appena in un’espressione preoccupata, quindi parve voler indietreggiare verso la porta.
Il pittore fece un passo verso di lui. “Qualcosa non va?” gli chiese.
Signore...” Il ragazzo esitò, pareva che fosse alla disperata alla ricerca delle parole giuste per dire ciò che aveva in mente, ma che esse si ostinassero a sfuggirgli. “Signore… è vero quello che dicono?”
Che cosa?”
Il caporale Dressler...” Di nuovo il ragazzo si interruppe. Dava l’idea di essere mortalmente imbarazzato.
Sì?” lo incoraggiò Albrecht.
Il soldato prese un gran respiro, infine disse: “Signore, è vero quello che mi ha detto il caporale? Che dovrò spogliarmi tutto nudo?” Le guance gli si fecero scarlatte.
La sua espressione smarrita era così buffa che il pittore dovette farsi forza per non sorridere. Scosse la testa. “Ma no, signor Dierschke, cosa vi viene in mente? Vi spoglierete per indossare degli abiti che vi darò, ma dietro il paravento. Vi garantisco che non vi vedrà nessuno.”
Grazie, signore.”
E di che? Sono io che devo ringraziare voi.” Subito dopo gli mostrò gli abiti, ovvero la tunica, che avrebbe dovuto fungere da modello per la cotta di maglia, la cintura per stringerla in vita e il manto bianco. “Dovreste indossare questi, per favore.”
Sissignore.”

Quando il soldato uscì da dietro il paravento, Albrecht si accorse che si era in effetti spogliato quasi completamente – immaginava avesse conservato la biancheria – e indossava solo i panni che lui gli aveva consegnato poco prima. La tunica gli ricadeva addosso morbida, mettendo in risalto la sua corporatura snella e robusta. Il mantello accentuava la larghezza armoniosa delle spalle.
Pensavo avreste infilato la tunica sopra l’uniforme,” disse.
Il ragazzo parve imbarazzato. “Dovevo fare così, signore?”
Albrecht scosse la testa. “No, non preoccupatevi. È che di solito i modelli fanno così, per comodità.”
Lo sospinse verso lo sfondo che aveva preparato e per lunghi minuti studiò la sua posizione, muovendolo come avrebbe fatto con un manichino e poi allontanandosi dopo ogni variazione per controllare il risultato complessivo.
Alla fine gli parve che l’insieme potesse andare bene: il cavaliere era in piedi al centro del quadro, con la spada nella destra e la sinistra che tratteneva le immaginarie redini di un destriero. Il portamento era eretto e fiero, la testa orgogliosamente dritta. Il ragazzo aveva i capelli corti, ovviamente, ma nel quadro li avrebbe avuti lunghi fino alle spalle, appena agitati da una brezza lieve.
La luce che entrava dalle finestre, quella luce bianca e pura come di ghiacciaio, gli si riversava sul volto rendendo i suoi lineamenti ancora più netti e cesellati.
In quel fulgore privo di ombre le ciglia assumevano un colore di oro pallido, mentre le iridi avevano a un tempo il grigio dell’acciaio e l’azzurro cangiante di un cielo invernale.
Perfetto,” disse fra sé e sé. Poi, a voce più alta: “Volete riposarvi un po’?”
Senza minimamente mutare la posizione che aveva assunto, il soldato rispose: “Non sono stanco, signore.”
Albrecht ripensò ai modelli che ingaggiava di solito, ognuno dei quali aveva i suoi peculiari modi per lagnarsi del freddo, del caldo, della luce, della poca luce, della scomodità, della necessità di una pausa, della sete e delle esigenze corporali.
Avete freddo?” gli chiese.
No, signore.”
Dovrete rimanere così per un po’,” lo avvisò. “Perlomeno finché non avrò completato la bozza.”
Il giovane accennò un lieve sorriso, poi però riassunse in un istante la precedente espressione di serietà grave, come se anch’essa facesse parte della posa da mantenere. “Sono abituato, signore,” rispose.
Il pittore annuì. “Oh, capisco. Certo. Forse dovrei chiamare sempre dei soldati come modelli, che ne dite, signor Dierschke? Mi risparmierei innumerevoli problemi.”
Ripensò a quel che si diceva del roseo efebo che si faceva chiamare Rossignol: pareva che oltre a compensi dei più esosi pretendesse champagne sempre ghiacciato, servito in coppe di cristallo, pasticceria e frutta esotica. Pareva che una volta avesse addirittura abbandonato con sdegno lo studio di un suo collega, reo di non avergli fatto trovare un allestimento abbastanza sontuoso per la seduta di posa.
Bisognava parlargli in francese, perché si faceva un vanto di non sapere nemmeno una parola di tedesco.
E Rossignol non aveva nemmeno un quarto della bellezza e della nobiltà di portamento di quel ragazzo modesto, che aveva persino paura di respirare troppo forte per non guastare la posa in cui l’aveva fermato.
Prese il carboncino e finalmente rivolse alla pagina bianca non più lo sguardo angosciato di chi ha smarrito la strada, ma quello bramoso dell’amante.
Prese a tracciare segni, a delineare fattezze che letteralmente lo imploravano di essere immortalate. Era come se la mano di una Divinità – forse quella della Germania stessa – avesse afferrato la sua e la stesse muovendo sulla carta secondo la propria volontà.

Alla fine emise un sospiro e si raddrizzò, abbandonando il foglio sul tavolo. “Facciamo una pausa,” disse. Si passò la mano sulla fronte come se avesse spostato interi carri di pietre.
Il soldato rimase immobile. “Non sono stanco, signore,” gli assicurò.
Ma sono stanco io,” sospirò il pittore. Poi, in tono più basso: “Potete muovervi, signor Dierschke. Non dipingerò più per oggi.”
Si accorse che il ragazzo lo fissava perplesso. “Davvero, signore?”
Egli sorrise. “Voi siete un soggetto difficile, signor Dierschke.”
A quelle parole, il ragazzo abbassò gli occhi confuso. “Scusate, signore,” mormorò.
Albrecht scosse la testa e gli assicurò: “Non è colpa vostra, naturalmente. È che quando si trova un modello così identico a ciò che si ha in mente, renderlo nel modo giusto richiede molta fatica. È come uno sforzo fisico.” Fece una pausa, quindi in tono conciliante soggiunse: “È solo un modo di dire, naturalmente. Credo che fisicamente voi facciate molta più fatica di me, non è vero?”
Oh no, signore,” si affrettò ad assicurargli il ragazzo. “O perlomeno, credo che voi facciate cose più difficili di quelle che faccio io. Cose che richiedono più...” esitò alla ricerca di una parola che evidentemente gli sfuggiva. “Erudizione?” propose alla fine. Lo occhieggiò timido, come aspettandosi un rimprovero.
Albrecht annuì. “Si tratta senza dubbio di erudizione,” confermò. “Ma sapete, anche tutta l’erudizione del mondo, senza anima e senza sentimenti non vale nulla.”
Il soldato non rispose.
Potete andare a cambiarvi,” gli disse allora il pittore, “e poi mangeremo qualcosa insieme, se avete appetito.”
L’altro scosse la testa. “Vi chiedo scusa, signore, devo rientrare subito in caserma.”
Non potete fermarvi nemmeno un po’? Mi farebbe piacere.”
Vi chiedo scusa, signore,” si limitò a ripetere Dierschke.
Albrecht non replicò. Forse il ragazzo doveva davvero rientrare in caserma più in fretta che poteva, forse era solo troppo imbarazzato per condividere la tavola con lui. Scelse di non approfondire.
Lo guardò uscire da dietro il paravento, di nuovo con la sua uniforme blu, e ancora una volta gli parve l’immagine stessa della Patria e di tutto ciò che si poteva definire Germania.
Lo lasciò andare.
In effetti si sentiva spossato, svuotato, addirittura esausto. Gli pareva di aver tracciato quei bozzetti non col carboncino ma con il suo stesso sangue.
Si adagiò su una poltrona e scivolò nel sonno.

§

La volta successiva non ci fu bisogno di dire nulla: il ragazzo andò spontaneamente dietro il paravento e ne uscì con gli abiti che Albrecht aveva preparato per lui. Assunse la posa della sessione precedente.
Vorrei che tutti i modelli fossero come voi,” disse il pittore, recuperando i fogli e il carboncino. “A che ora dovete andare via oggi?” E prima che il soldato potesse rispondere, soggiunse: “Ve lo chiedo perché vorrei lasciarvi il tempo di mangiare e bere qualcosa con me.”
Non è il caso, signore.”
Albrecht sorrise e disse: “Ragazzo mio, dovreste conoscere le pretese degli altri modelli. Allora forse capireste perché sono tanto soddisfatto di voi.”
Il soldato non rispose. L’altro riprese a tracciare il bozzetto che aveva cominciato la volta precedente.
Passò il tempo. La luce intensa incideva i lineamenti del giovane dandogli l’aspetto della statua di un duomo. “Cosa farete dopo il servizio militare?” chiese il pittore.
L’altro attese qualche secondo prima di rispondere. “Tornerò a casa, signore,” disse infine.
Mancate da molto?”
Un anno e dieci mesi.”
Albrecht staccò il carboncino dalla carta. “Volete dire che non siete mai tornato a casa?”
Nossignore.”
Come mai?”
Il giovane fece per sollevare le spalle, poi all’ultimo si trattenne per non guastare la posa. “Perché è un lungo viaggio, signore. Molto costoso.”
Il pittore annuì. “Capisco. Vi manca casa vostra?”
Sì, signore.”
Avete una famiglia?”
I miei genitori e otto fratelli, signore.”
Per un po’, l’altro continuò a disegnare in silenzio. Infine chiese: “Contate di tornare là, una volta finito il servizio militare?”
La risposta giunse dopo qualche secondo. “Penso che tutti se lo aspettino, signore.”
Albrecht alzò lo sguardo fino a fissare il volto del ragazzo. “Che intendete dire?”
Quella è la mia vita, sono nato lì.”
Non sembrate così ansioso di tornarci, in realtà,” osservò il pittore.
Sì e no, signore,” fu la risposta. “Amo la mia famiglia, ma anche la vita militare mi piace.”
Davvero?”
Sì, signore. È bello servire la Patria.”
Cosa vi piace del servizio militare?”
Tante cose, signore. Il cameratismo, l’ordine, il dovere. Uno sente davvero di fare qualcosa di giusto, quando è militare.”
Capisco.”
Di nuovo calò un silenzio rotto solo dal ticchettio dell’orologio a muro e dal crepitare del fuoco nella stufa.
A un certo punto si udì bussare alla porta.
Avanti!” disse il pittore, appoggiando il bozzetto sul tavolo.
Il ragazzo gettò una fugace occhiata dietro le proprie spalle, forse imbarazzato all’idea che qualcuno potesse vederlo con lo strano abbigliamento che indossava.
Non preoccupatevi,” gli assicurò il pittore, “Agnes ha visto modelli in ogni condizione, persino nudi.”
Davvero, signore?”
Sì, è così.” Poi, a voce più alta: “Lascia tutto qui, Agnes, grazie.”
La donna posò un vassoio con un bricco di caffè, tazze, biscotti e altro sul tavolo.
Vogliamo mangiare qualcosa?” chiese a quel punto il pittore.
Io...”
Coraggio, venite qui. Anche per oggi abbiamo terminato la nostra seduta.” Albrecht versò il caffè. “Volete zucchero? Latte?”
Per la prima volta, Dierschke gli rivolse un sorriso. “Solo zucchero, grazie, signore.” Abbandonò la posa e lo raggiunse presso il tavolo, poi si sedette di fronte a lui.
Albrecht spinse la tazza fumante nella sua direzione.
Oggi siete stanco come ieri, signore?” gli chiese dopo un po’ il ragazzo.
Albrecht gli porse il piatto dei biscotti, poi rispose: “Ve l’ho detto: siete un soggetto difficile, ma so che mi darete grandi soddisfazioni.”
Davvero?”
Un volto come il vostro non si trova tutti i giorni,” rispose serio Albrecht.
Il ragazzo abbassò lo sguardo, una fugace ondata di rossore gli accese le guance. “Nemmeno una persona come voi, signore,” mormorò. Subito dopo si alzò rapido. “Devo andare,” soggiunse. La tazza era ancora a metà.
Aspettate, il vostro caffè?”
Ma il ragazzo stava già dirigendosi a grandi passi verso il paravento.

§

Alla taverna del Grappolo d’Oro gli amici erano riuniti al solito tavolo. “Ma chi si rivede!” esclamò Wolfgang Escher. “Credevamo che fossi stato ingaggiato per ritrarre quale monarca sconosciuto dell'Asia Minore.”
Albrecht raggiunse il suo posto preferito, sotto la volta dipinta. Si accomodò e disse: “Scusate, ragazzi.”
La frase suscitò un coro di proteste. “Scusate? Tutto qui?” replicò un giovane scultore. “Non ti fai vedere per un mese e questo è tutto ciò che sai dire?” Fece una pausa, poi assunse uno sguardo sornione e chiese: “Chi è la bella che ti ha rapito il cuore?”
Albrecht aggrottò le sopracciglia. “Non c’è nessuna bella.”
Allora una brutta?” Tutti risero.
Né bella né brutta, sto lavorando.”
Un altro lo fissò trasecolato, poi chiese: “E a cosa stai lavorando, di grazia? Cos’è che addirittura ti impedisce di venire a trovare i tuoi buoni amici?”
Il mio modello finisce la ferma tra meno di un mese.”
Gli amici lo fissarono in silenzio. Infine, Escher chiese: “Hai intenzione di spiegarti o dobbiamo come al solito giocare alle sciarade?”
Albrecht si versò un po’ di vino nel bicchiere che nel frattempo gli era stato portato, quindi disse: “Ricordate il quadro che mi era stato commissionato? La Giovane Germania?”
Tutti assentirono.
Ebbene, il mio modello è un militare, devo approfittarne finché è qui, perché presto tornerà al suo paese.”
Che sarebbe?”
La Prussia Orientale.”
All’affermazione seguì un mezzo minuto di silenzio, quindi uno degli amici chiese: “Hai preso un soldato come modello?”
È così.”
Ma è un maschio.”
Si capisce che è un maschio,” replicò Albrecht, “altrimenti come potrebbe fare il militare?”
L’altro alzò le spalle e rispose: “Tralasciando il fatto che si ha notizia di più di una donna arruolatasi sotto mentite spoglie, noi tutti ci chiediamo come tu possa rappresentare la Germania usando come modello un uomo.” Fece una pausa, poi chiese: “O è un giovane efebo femmineo?”
Si udì qualche risatina.
Nessun efebo, ci mancherebbe,” replicò Albrecht in tono tagliente. “Ha l’aspetto di un giovane cavaliere in armi.”
Ma la gente vuole le poppe, caro mio,” interloquì uno del gruppo. “Nude, possibilmente. Poppe e chiome bionde. Come pensi di conquistare il pubblico con un cavaliere in armi?”
Io non devo conquistare nessuno,” replicò il pittore, “devo rappresentare la Patria, e per me la Patria è un giovane cavaliere in armi.”
Boh, de gustibus,” fu la riposta, accompagnata da un’alzata di spalle. “Per me comunque te lo rifiuteranno, se non ci metti un po’ di poppe.”

La taverna era quasi in chiusura, Albrecht sedeva al tavolo ormai vuoto con la sola compagnia di Escher.
Andò alla ricerca della brocca del vino, ma l’amico lo fermò. “Stai bevendo troppo,” gli disse.
Non più del solito.”
E invece sì,” rispose l’altro. Poi, dopo una pausa: “Qualcosa non va?”
Albrecht si limitò ad alzare le spalle, al che Escher replicò: “Stai un mese senza farti vedere, e quando ricompari sei pallido, stralunato e con le occhiaie di chi non dorme da giorni. È normale che uno si faccia delle domande, non ti pare?”
È quel quadro,” rispose il pittore dopo un po’. Raggiunse la brocca, nonostante lo sguardo di disapprovazione dell’amico si versò altro vino. “Io sento che è il quadro della mia vita.”
In che senso? Stai rappresentando te stesso?”
Albrecht scosse la testa. “No di certo.” Socchiuse gli occhi, poi proseguì: “Se tu vedessi quel giovane… si stenta a credere che sia di carne e sangue.”
Che intendi dire?”
Ti ricordi quando ti descrissi la mia idea della Germania? Ecco, è come se quell’immagine avesse preso vita. Ogni volta che dipingo, io ce l’ho davanti. È comprensibile che non voglia sprecare nemmeno un attimo, no?”
L’altro bevve a sua volta un po’ di vino, poi chiese: “A te di solito quante sedute di posa occorrono per fissare i lineamenti di un modello sulla tela?”
Albrecht alzò le spalle. “Dipende. Tre, quattro. Alle volte anche cinque.”
“Questo non ti suggerisce nulla?”
L’altro aggrottò le sopracciglia. “Che intendi dire?”
Escher alzò le spalle. “Quante sedute avrai già fatto con lui?”
“Lo vedo tutti i giorni,” rispose Kellermann, poi si affrettò ad aggiungere: “Questo è il mio capolavoro, è l’opera in cui sto mettendo tutto me stesso. Io me la sogno di notte, capisci? E quando sono sveglio, non c’è un istante in cui non l’abbia fissa in mente.”
Fece per bere, ma Escher gli fermò la mano, e guardandolo negli occhi gli chiese: “L’opera o il modello, Albrecht?”
L’altro si irrigidì. “Che intendi dire?”
Per tutta risposta, Escher alzò le spalle e rispose: “Non sarebbe la prima volta che un pittore...”
Kellermann si alzò in piedi con un gesto talmente repentino che il suo bicchiere si rovesciò e sparse sul tavolo lucido il vino che ancora conteneva. “Ti proibisco di parlare in questo modo,” ringhiò, ma l’amico non parve soverchiamente colpito da quel cipiglio. “Pensaci,” disse invece. “Pensa a quello che ti ho detto.”

Camminando a passi rapidi verso casa, Kellermann pensava alle parole dell’amico. Non sarebbe la prima volta che un pittore...
Non gli aveva dato il tempo di finire la frase, ma aveva capito benissimo cosa stesse per dire.
Rievocò il volto nobile e serio del ragazzo, il suo sguardo profondo. Il colore tra il grigio e l’azzurro di quelle iridi trasparenti.
Si sorprese a ripercorrere con la memoria il modo in cui i panneggi della tunica mettevano in risalto il suo corpo di giovane uomo.
Si fermò come se fosse andato a sbattere contro un muro.
Il suo corpo di giovane uomo.
Nel rievocarlo per l’ennesima volta fu attraversato da una sferzata di desiderio. Scrollò la testa con foga, come per allontanare da sé quei pensieri. Adocchiò i cumuli di neve che ancora biancheggiavano ai lati della strada, quasi vagheggiando di buttarvisi, per spegnere col gelo quelle folli pulsioni. Riprese a camminare rapido, nervoso, con i pugni affondati nelle tasche.
Smettere di vederlo? Certo, sarebbe bastato dire che il quadro era finito, che non aveva più bisogno di lui.
E perdere le ultime occasioni di contemplare quell'ultraterrena bellezza?
Di nuovo si fermò. Come colto da una vertigine, si appoggiò a un muro con la mano, i rari passanti lo scambiarono per uno che avesse bevuto troppo e gli rivolsero occhiate di disapprovazione. Egli emise un sospiro, e prima di rendersene conto stava dirigendo i propri passi verso la caserma, in un’irrazionale speranza di vedere la sua snella figura stagliarsi nel vano di una finestra.

§

Steso sulla sua branda, le mani dietro la nuca, il soldato Dierschke fissava in silenzio il soffitto. La costruzione era antica e l’ampia volta della camerata conservava le vestigia di un dipinto. Rari pezzi, perlopiù l’azzurro screziato di un cielo, ma a ben guardare sui bordi vi era anche qualche ramo dalle esili foglie verde scuro.
Cercò di immaginare chi potesse averlo dipinto. Vide mani eleganti, uno sguardo assorto sotto una fronte alta e pallida, capelli biondo scuro un po’ scompigliati.
Deglutì: quello non era l’ignoto artista che aveva affrescato la volta, quelle erano fattezze ormai ben note. Fattezze amate,, che ogni volta attendeva con impazienza di rivedere.
All’inizio era andato dal signor Kellerman con diffidenza. Si era tenuto a distanza, limitandosi a rispondere alle sue domande nel modo più conciso possibile. In qualche occasione era addirittura andato via bruscamente e poi fino alla seduta successiva era rimasto ad attendere un rimprovero che non era mai giunto.
Poi però le sedute di posa, e i lunghi – sempre più lunghi – intervalli per prendere il caffè, erano diventati una consuetudine che ogni giorno attendeva con maggiore ansia.
Si era sorpreso più di una volta a pensare con fastidio all’ormai imminente rientro al paese natale.
Si voltò verso la branda accanto alla sua, ma il camerata che la occupava stava dormendo della grossa.
Emise un sospiro e tornò a guardare il soffitto.
Sebbene fosse arrivato a Heidelberg ignaro di tutto, sotto le armi aveva imparato tante cose. Alcune gliele avevano insegnate i suoi istruttori, altre, a volte anche più importanti, le aveva imparate dai suoi camerati e dai discorsi che facevano tra loro.
Era stato in un contesto del genere che aveva scoperto l’esistenza di uomini che si innamorano di altri uomini.
Sulle prime non ci aveva creduto, aveva pensato che lo prendessero in giro. Com’era possibile una cosa così assurda?
E poi aveva conosciuto quel pittore dai lineamenti puliti, gentile, addirittura premuroso con lui, con occhi chiari e limpidi, che quando lo fissavano si accendevano di un fuoco appassionato.
Quando pensava a lui, non gli sembrava più così strano che un uomo potesse amarne un altro.

§

Dierschke entrò nello studio del pittore e subito inspirò l’ormai familiare aroma di trementina e pittura a olio. All’inizio quell’odore gli era parso sgradevole, tanto che si era chiesto come avrebbe fatto a sopportarlo per tutta la seduta di posa, ma pian piano era diventato qualcosa che aveva a che fare con il signor Kellermann, e per ciò stesso si era trasformato in qualcosa di piacevole.
Come ogni volta, lui lo stava aspettando accanto al cavalletto, il camice macchiato che usava per lavorare già indosso.
Lo salutò rapido, corse dietro il paravento e in un attimo indossò la tunica e il mantello. Con un gesto ormai automatico tese la mano a raccogliere il bastone che nelle sedute fungeva da spada.
Andò a mettersi in posa e pur immobile seguì con lo sguardo i gesti tranquilli con cui l’uomo preparava i colori e poi si sedeva di fronte alla tela.
Sapeva che a quel punto non l’avrebbe visto più, se non quando di tanto in tanto si sporgeva a guardarlo, ma avrebbe sentito l’impercettibile raschiare del pennello, il suo respiro a tratti un po’ pesante, ogni tanto qualche borbottio vago.
Oggi la luce è particolarmente buona,” disse il pittore.
Il soldato girò lo sguardo verso le ampie finestre: il cielo era azzurro e il sole ormai quasi primaverile faceva risplendere la neve rimasta. Considerò che presto gli alberi avrebbero messo le gemme e l’idea del ritorno a casa lo pungolò.
Si mosse appena e si rese conto di non aver fissato correttamente il mantello. Le pieghe del pesante indumento stavano lentamente scorrendo le une sulle altre e in breve sarebbero cadute.
Signore,” disse.
Il pittore si sporse verso di lui. “Che c’è?”
Signore, il mantello. Vi chiedo scusa, ma devo sistemarlo meglio.”
Kellermann abbandonò pennello e tavolozza. “faccio io,” disse alzandosi, e prima che lui potesse ribattere l’aveva già raggiunto.
Il soldato si trovò letteralmente a sussultare. Tolta la prima seduta, quando l’uomo l’aveva mosso come una specie di manichino animato per metterlo in posa, non erano mai stati così vicini. Deglutì investito dal suo odore di colonia e sapone fine, quasi gli parve di sentire sulla pelle il calore che emanava. “Signore...” mormorò, e lui stesso non capiva se fosse un’invocazione a lui o all’Altissimo, nella speranza che esso gli concedesse la forza di resistere all’impulso di annullare la distanza che ancora lo separava dall’uomo.
L’altro gli sistemò sulle spalle le pieghe pensanti del mantello, Dierschke alzò lo sguardo e si trovarono occhi negli occhi.
Sentì il cuore saltare un battito, deglutì mentre il respiro gli si bloccava a metà.
L’uomo si piegò appena verso di lui, egli non si ritrasse.
Il rintocco dell’orologio li fece sobbalzare.
Nel movimento il mantello cadde, subito il soldato si precipitò a raccoglierlo, e non sapeva se provare sollievo o rimpianto per quel che stava per succedere e non era successo.
Scusate, signore,” balbettò confusamente, “scusate.” Alzò lo sguardo e colse negli occhi del pittore lo stesso turbamento. Appoggiò il mantello. “Forse è meglio che vada,” mormorò.
Kellermann non aprì bocca.

§

Albrecht gettò uno sguardo – l’ennesimo – alla tela, dalla quale il giovane cavaliere in armi lo fissava. Gli parve che quello sguardo adamantino avesse assunto una connotazione di muto rimprovero, di disapprovazione.
Emise un sospiro. Aveva fatto di tutto per nascondere certi sentimenti, eppure nell’ultima seduta era stato a tanto così dal posare le proprie labbra su quelle del ragazzo.
Era come se una vertigine si fosse impadronita di lui, come se una forza estranea l’avesse spinto ad alzarsi, a raggiungere il ragazzo e a…
Non riusciva nemmeno a formulare il pensiero, ogni volta che rievocava quel momento il cuore gli balzava nel petto e un tremito febbrile si impadroniva di lui.
Si chiese quanto mancasse alla partenza del ragazzo: settimane? Giorni? Da una parte anelava a quella data fatidica, dall’altra la attendeva come una condanna a morte.
Presto se ne andrà,” si disse, con un tono che voleva essere rassicurante, ma somigliava più che altro a un lamento. “Presto non saprai più nulla di lui.”
Sollevò lo sguardo sul quadro: ormai mancavano gli ultimi ritocchi e poi l’avrebbe consegnato. Non l’avrebbe più visto nemmeno lì.
L’avrebbe sperabilmente dimenticato, e poi sarebbe tornato alla sua vita normale.
Sentì la porta dello studio aprirsi, si sporse per vedere chi stava entrando e il cuore gli mancò un battito. “Erich!” esclamò.
Il ragazzo avanzò adagio, si fermò a qualche passo di distanza. “So che non dovrei essere qui, signore,” mormorò, “ma...”
Abbassò lo sguardo.
Kellermann deglutì. Gli era chiaro che avrebbe dovuto rimandarlo via, magari facendogli recapitare un compenso per tutte quelle sedute di posa, eppure non si risolveva a farlo.
Venite… vieni qui,” udì invece se stesso balbettare.
Il ragazzo sembrava non aspettare altro. Sorrise appena, poi si mosse verso di lui.
Il pittore gli fece cenno di avvicinarsi ancora e disse: “Forse… vuoi vedere il quadro?”
Sarebbe la prima volta,” gli rispose Dierschke. Di nuovo si fissarono negli occhi, Albrecht si trovò a deglutire con il cuore che gli batteva all’impazzata. Si fece indietro per permettere al ragazzo di aggirare la tela.
Egli lo raggiunse. Si trovarono spalla a spalla a contemplare il giovane cavaliere in armi. “Io sono così?” mormorò il soldato. Sollevò lo sguardo a fissarlo.
Il pittore lo osservò: la luce chiara lo investiva in pieno, incidendo nel marmo i suoi tratti, rendendo i suoi occhi laghi trasparenti. In un sospiro rispose: “Sei molto meglio, ma sono solo un uomo, non Dio, e non sono riuscito a fare di più.”
Sollevò esitante una mano e gli sfiorò una guancia con la punta delle dita.
Un istante dopo, quella lieve carezza si trasformò in un abbraccio. Le labbra cercarono avide le labbra, i due si trovarono a scambiarsi baci sempre più profondi e ardenti.
Di qua...” ansimò Albrecht quando il reciproco desiderio divenne troppo forte da sopportare. Condusse il giovane in un angolo dello studio, dove c’era un’ottomana coperta da un drappo di seta. Vi crollarono sopra ancora avvinghiati, con i respiri ansanti e i cuori che battevano follemente.
I baci si fecero più urgenti, gli abiti caddero gli uni sopra gli altri. Il contatto dei due corpi nudi fu per entrambi un brivido folle, un’estasi ultraterrena.
Non dovremmo...” mormorò il giovane, ma la frase morì tra le labbra dell’uomo mentre tutto il resto cessava di esistere.

Fu solo molto dopo che tornarono alla realtà. La luce adamantina era scemata, il rombo del sangue in tumulto aveva ceduto il posto a un silenzio greve.
Erich si alzò a sedere, si guardò intorno alla ricerca dei suoi indumenti. “Perdonatemi,” disse.
Per cosa?” giunse la replica dell’uomo.
Senza voltarsi, egli rispose: “Per non essere stato capace di resistere. Ora sarà tutto molto più difficile.”
Anche Albrecht si rizzò a sedere. La sua voce aveva un tono triste quando chiese: “Che cosa intendi?”
Che io… che forse sarebbe stato meglio non vedersi più. Magari sarei partito, mi sarei dimenticato di voi, e voi di me.” Fece una pausa, deglutì per evitare che gli tremasse la voce, quindi proseguì: “Mentre ora…” Ma dovette interrompersi. Strinse le labbra. “Maledizione,” sibilò. Si alzò, cominciò a raccogliere i vestiti. Sentiva la presenza dell’uomo alle sue spalle, ma non aveva il coraggio di voltarsi. Se l’avesse fatto, forse non sarebbe più riuscito ad andarsene, mentre così… così forse aveva un’ultima possibilità di tornare a casa, dai suoi, e ricominciare la vita da dove l’aveva interrotta per fare il servizio militare. Caparbiamente cercò di concentrarsi su quello: i suoi fratelli, il podere da coltivare, la fidanzata…
La fidanzata.
Infilò i pantaloni alla meglio, si mise gli stivali, si buttò sulle spalle la giacca e uscì di corsa.

§

Cos’è quella faccia?” chiese Escher. “Tutti ti stanno facendo i complimenti per il tuo quadro e tu sembri a un funerale.”
Un altro degli amici a bassa voce intervenne: “Niente poppe, eppure è un successo.” Fece una risatina.
Kellermann si limitò ad alzare le spalle. Sorrise all’ennesima persona che si congratulava per la Giovane Germania e si aggiustò il panciotto dell’abito da cerimonia. “Quando finisce?” brontolò.
Non fare lo snob,” lo rimbeccò Escher. “Finisce quando finisce. Ora il borgomastro farà un discorso, suoneranno l’inno imperiale e ci sarà il rinfresco e tu te ne starai buono buono a rispondere a tutti quelli che ti faranno domande sul tuo capolavoro.”
Bah, capolavoro,” borbottò Kellermann, e pensò che l’unico vero capolavoro in quel momento era su un treno diretto verso la Prussia Orientale e lui non l’avrebbe rivisto mai più.
Di nuovo s’inchinò ai complimenti di una signora sussiegosa, poi si allontanò di qualche passo dalla tela. Non riusciva nemmeno a guardarla, perché ogni volta che ce l’aveva sott’occhio, la nostalgia di Erich lo trafiggeva come una pugnalata. Volse lo sguardo oltre la porta finestra, desiderando di estraniarsi da quella folla chiassosa, i cui giudizi sul suo quadro, per quanto tutti positivi, dimostravano chiaramente che nessuno aveva capito il vero spirito con cui esso era stato realizzato.
C'era chi si dilungava sul realismo delle figure, chi sulla scelta delle immagini allegoriche. Qualcuno addirittura lodava l'aquila o il cavallo, oppure si stupiva della pazienza con cui le foglie di quercia erano state realizzate una per una
Il cavaliere, certo, piaceva. Era un bel soggetto, obiettivamente eseguito in modo impeccabile. Il suo portamento era solenne, il sguardo serio passava oltre lo spettatore, come se fosse assorto in pensieri che non avevano nulla a che fare con la volgarità del quotidiano. Dava un'idea di nobiltà, di tranquilla forza. Di tensione verso l'ideale.
Emise un sospiro, quell'immagine non era che un pallido riflesso di Erich.
Raggiunse il vetro freddo, vi appoggiò la fronte e a quel punto colse nel cortile una macchia blu che si muoveva.
Il cuore gli balzò nel petto: c’era un soldato.
Tutto il resto perse d’importanza. Pur dandosi dello stupido, pur ripetendosi che la città era piena di soldati, non poté fare a meno di spalancare i vetri. L’improvviso rumore fece sussultare più d’una persona.
Il soldato che camminava in cortile si voltò, ed egli si trovò a contemplare occhi tra il grigio e l’azzurro, trasparenti come laghi.








[1] Inno della Germania Imperiale.





   
 
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