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Autore: staylow    01/02/2020    2 recensioni
Giorno e notte, il ronzio continuava. A volte se ne dimenticava, o faceva finta di dimenticarsene. Quando guardava la tv, quando i litigi dei vicini coprivano ogni altro suono nel raggio di chilometri. Ma appena si creava giusto un intervallo tra questi suoni, appena un litigante si fermava un attimo per riprendere fiato, eccolo lì che si insinuava nei respiri, a occupare ogni spazio lasciato libero, come un gas compresso che ha finalmente la possibilità di espandersi.
Genere: Introspettivo, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Giorno e notte, il ronzio continuava. A volte se ne dimenticava, o faceva finta di dimenticarsene. Quando guardava la tv, quando i litigi dei vicini coprivano ogni altro suono nel raggio di chilometri. Ma appena si creava giusto un intervallo tra questi suoni, appena un litigante si fermava un attimo per riprendere fiato, eccolo lì che si insinuava nei respiri, a occupare ogni spazio lasciato libero, come un gas compresso che ha finalmente la possibilità di espandersi. Certe volte era solo un sottofondo alla sua vita. Quando lavorava, quando parlava con le persone gli sembrava quasi di non averlo, di essere una di quelle persone che nelle orecchie hanno solo i suoni veri.
Un suono, secondo la fisica, è causato da un oggetto che vibra nello spazio, e genera onde che viaggiano fino alle orecchie di chi lo sente.
Questo non poteva essere un suono vero. Non era un fisico né un medico, ma a quanto sapeva era sufficientemente sicuro di non avere nulla che gli vibrasse nel cervello. Quando il ronzio gli impediva di dormire, immaginava di avere nella testa un grosso insetto svolazzante, che volava su e giù, a destra e a sinistra e tutto intorno alla sua testa. Di norma le notti così poi si riempivano di incubi, popolati da grossi insetti che disegnavano figure nell’aria, e quel rumore che non passava mai.
Al rumore in sé ormai si era fatto il callo, o quantomeno si era rassegnato. La vera cosa che lo faceva soffrire era vedere le altre persone che conducevano una vita normale senza suoni nella testa. Certe volte gli era troppo difficile pensare di essere l’unico a sentirlo, e quando si trovava tra la gente gli veniva voglia di urlare. Lo sentite anche voi? Come fate a non sentirlo? Ma il rumore si frapponeva tra lui e gli altri, come una sorta di parete di vetro. Da una parte le persone che parlano, il suono dei clacson, il pianto dei bambini, il fruscio degli alberi, e silenzio negli spazi tra questi. Dall’altra, il rumore. Si trovava da solo bloccato da questa parte della parete. Nessuno, tra le persone che conosceva, doveva abitualmente mettere in conto che avrebbe dovuto soffrire il rumore durante la giornata. Nessuno doveva sopportare ogni giorno la sofferenza  di qualcosa di invisibile e incomunicabile. La solitudine della sua condizione era la cosa peggiore, il tormento di essere vittima di qualcosa che non solo era impercettibile per gli altri, ma soprattutto che da fuori nemmeno esisteva.
Come poteva affermare che il rumore esisteva sul serio? La percezione umana è fallace, lo sappiamo da migliaia di anni. Il freddo quando si ha la febbre, il remo spezzato per la rifrazione nell’acqua. Magari il suono non esisteva proprio, ma può una cosa che non esiste portare alla pazzia?
Le sue orecchie ronzavano, ronzavano, ronzavano. Faceva così di solito: non era perfettamente costante, era come il rumore di un macchinario elettronico, persistente ma non precisamente uguale a sé stesso.
Oggi era di entità simile al solito, né più né meno, ma ora stava soffrendo la presenza incessante del suono come se non esistesse altro nel mondo. Allora forse era peggio del solito? Se alla fine le uniche cose che qualificavano l’esistenza del rumore erano la percezione e tormento che sentiva, forse oggi era più intenso. Forse oggi esisteva in senso assoluto? C’era, era lì, per lui era un’entità tanto reale che si immaginava di vederselo davanti. Se lo immaginava come un essere tondeggiante, con i contorni poco definiti, che fluttuava nello spazio minacciosamente, come solo un’entità che basa la sua stessa esistenza sulla sofferenza può fare. Se avesse smesso di starci male, magari il rumore avrebbe smesso di esistere. E allora ci provava. Ti sto ignorando. Lasciami stare. Ho da fare. Ma non smetteva di sentirlo.
Il rumore esisteva. Lo sentiva e quindi esisteva. Soggettività della percezione ed errore dei sensi a parte. Il rumore esisteva, c’era, si faceva sentire. Decise a un tratto di non porsi neanche più il dubbio. Se lo sento, c’è. Quello che sento ha un significato e un valore ed è valido e credibile. E se mi fa stare male, è perché esiste e ha un peso per me. Non me lo sto inventando e non ho la responsabilità di come mi fa sentire.
Alla fine, forse poteva non essere così fastidioso.
Forse era sufficiente arrivare a patti con la cosa. Il rumore c’è. Compare. Può saltare fuori in ogni momento, di notte, con gli altri, per strada. Ma quando succede, non ci si può accollare la responsabilità di nulla. C’è. Non è colpa di nessuno, soprattutto non sua. Lui avrebbe continuato a lamentarsene un po’, alla fine scocciava, e agli altri non succedeva. Ma più che una seccatura, poteva diventare una caratteristica. Invece che un peso, un compagno di viaggio. Forse, pensava, avere il rumore nella testa era il suo modo di vivere la vita. Forse esso stesso era semplicemente il suono che fa essere vivi.

   
 
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