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Autore: Babu 17    05/08/2009    10 recensioni
"Perché, quando vivi a la Roche, capisci una cosa sola: se arrivi non puoi più andartene."
"-Qual'è il vostro nome?-.
-Io non ho un nome-.
-Perchè?-.
-Perchè nessuno ha mai pensato che sarebbe stato carino darmene uno-."
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Esisteva un paese tra le Alpi francesi che veniva chiamato “Rocca della Vergine”, o, più comunemente, “la Roche”. Era un luogo sperduto che pochi riuscivano a raggiungere. In mezzo alla valle a molti metri sopra il livello del mare, circondato da immensi prati verdi. Caratterizzato da edifici a vecchio stampo, pieni di storia e di cultura. Indietro rispetto alla modernizzazione, il paesello viveva quieto nel suo paradiso naturale.

Si vedevano in lontananza pecore, mucche, buoi. La mattina i galli cantavano ed i pasticceri aprivano i forni, ed i panettieri sfornavano il pane. Il falegname ed il calzolaio lucidavano ad ogni ora del giorno i propri strumenti e le sarte canticchiavano con un ago in bocca. Le anziane filavano la lana in mezzo alla stradina dove, ogni mattina dalle sette e mezza a mezzogiorno c'era il mercato.

Il mondo esterno non si curava della vita della Roche, e la Roche non si curava certo della vita del mondo esterno. Erano due luoghi distinti, diversi, che non avrebbero potuto convivere.

Ogni domenica c'era la messa. Io abitavo insieme a padre Luciano ed alla sua perpetua, una donna seria, vecchia, sola e che mi guardava sempre di sottecchi, Costanza.

Padre Luciano era un brav'uomo ed un fervente cattolico. Amava la sua chiesa e mi aveva spesso raccontato dei suoi pellegrinaggi in giro per il mondo Europeo. Diceva che un giorno mi avrebbe portato con lui e mi avrebbe fatto conoscere ciò che c'era fuori da quel luogo sperduto. Io gli credevo. Mi aveva promesso che la mia splendida voce sarebbe stata presto scoperta, ed io gli credevo. Parlava tanto, ma nessuno gli credeva.

Il parroco era per me come un parente molto stretto, non un padre, ma un nonno, o uno zio molto gentile. Era l'unico del paese che era venuto da fuori ed era sopravvissuto a quella pace e quella quiete soprannaturali. Beh, non proprio l'unico, anche io ero sopravvissuta. Anche se avrei preferito avere il coraggio di finire come i viandanti: morti.

Perché, quando vivi a la Roche, capisci una cosa sola: se arrivi non puoi più andartene.

Il mondo esterno sentiva parlare del nostro borghetto dalle leggende: dicevano che era un luogo di miracoli, dove i ciechi riuscivano a ritrovare la vista, gli invalidi camminavano e correvano come giovinetti ed i vecchi tornavano giovani. I pellegrini ci cercavano, ma invano. Solo i malcapitati viaggiatori senza una meta trovavano l'entrata della Rocca della Vergine e poi vi rimanevano per sempre. Perché quando vi mettevano piede venivano colpiti dalla maledizione.

Perché a la Roche il tempo non scorreva come nel resto del mondo, ma lentamente, anzi, era praticamente fermo. E se tentavi di andartene: finivi cenere. Il mio paese era maledetto. Io ero maledetta. E tutti gli abitanti erano condannati ad un labirinto nel tempo senza uscita. Un limbo fatto di secondi che duravano anni.

Io arrivai in paese appena nata, in una cesta. Fui posata di fronte alla curia di padre Luciano che decise di prendermi con se. Costanza espresse per mesi la sua opinione completamente contraria a doversi occupare di una neonata, lei odiava i bambini perché non aveva mai potuto averne di suoi. Il parroco rideva sempre quando lei mi sgridava e mi picchiava dicendo che ero posseduta dal demonio per colpa dei miei occhi rossi e dei miei capelli corvini; lui diceva che era il modo che la perpetua aveva per dimostrarmi il suo affetto. Io non sapevo che cosa volesse dire la parola “affetto”, perché nessuno mi abbracciava, mi baciava o mi diceva che mi voleva bene. Io non piacevo molto in paese. Tutti mi evitavano perché dicevano che ero una strega. Non potevo andare a scuola e non potevo farmi vedere troppo in giro. Se facevo una commissione dovevo indossare un abito nero, il velo ed un campanello al collo. In questo modo le persone potevano evitarmi.

Solo una volta mi ero fatta vedere senza. Mi avevano randellata e presa a calci e mi avevano riportata alla curia coperta di sangue. Padre Luciano gli disse che erano dei luridi animali senzadio.

Loro gli risposero che doveva imparare a tenere d'occhio la sua bestia di satana.

C'erano solo due posti in cui potevo evitare di vestirmi da vedova: la curia ed il cimitero di San Raffaele. Il custode del cimitero non aveva paura di me, anzi, mi parlava spesso di tutto quello che aveva visto nella sua lunga vita da scapolo. Mi faceva sempre ridere e mi offriva sempre gli stessi biscotti al cioccolato. Aveva tremilaottocentocinquantasei anni, -Anno più, anno meno-, amava ripetermi sorridendo con quella sua dentatura bianca e pulita. Era molto più vecchio di me. Aveva l'aspetto di un sessantenne, ed aveva ancora qualche capello scuro in mezzo a quel cespuglio di ricci  brizzolati. Era cicciottello di costituzione e non gli piacevano per niente i dolci. Non aveva paura di niente, d'altronde viveva in un cimitero. Raccontava che non veniva mai nessuno a trovarlo perché nessuno portava più il rispetto che era dovuto ai morti, nessuno si preoccupava di mettere dei fiori, o delle candele per le proprie persone scomparse.

Perciò, ogni settimana, mi impegnai a portare almeno un fiore per tutte le tombe. Li raccoglievo in giro, alcuni li comperavo ed altri li rubavo la notte dai davanzali delle finestre.

Giuliano era fiero di me, diceva sempre che, per avere solo quattrocentodiciassette anni, avevo la testa sulle spalle ed ero una ragazza a modino. Ogni tanto mi parlava di suo figlio. Aveva tentato di scappare, ma appena fuori la contea si era volatilizzato e trasformato in cenere. Lui aveva raccolto solo quello che aveva potuto prendere senza uscire dai confini e l'aveva messo in un'urna che teneva sul caminetto della sua casetta ai bordi del cimitero.

Passavo tutto il giorno con lui e con i morti. Insegnavano molto. Perché i morti parlano nei cimiteri, perché è l'unico posto dove possono essere liberi di esprimere ciò che erano e ciò che sarebbero potuti essere.

Nessuno sapeva che io parlavo con i morti, a parte Giuliano. Era un'arte che mi aveva insegnato lui. -L'ho letta in un libro ed ho provato a vedere se funziona, ma sono vecchio e debole. Forse con te potrebbe andare meglio-, mi aveva sorriso e dato un libro grosso, nero, che sembrava una bibbia. All'inizio pensai che mi avrebbero bruciato per stregoneria, visto che non aspettavano altro, ma poi capii che quello che c'era scritto non erano formule create dal miscuglio di occhi, sangue di topi e cuori di vergini. Erano semplicissime preghiere, salmi e piccoli racconti. Il regolamento era: aprire il libro a caso davanti ad una tomba, leggere ad alta voce ed aspettare.

Io ci riuscivo. Avevo imparato molto al cimitero di San Raffaele.

Da decenni ormai uscivo la mattina presto e rientravo tardi. Il cimitero era l'unico luogo dove potevo essere me stessa, dove riuscivo a fare ciò che volevo quando lo volevo. Giuliano mi insegnò a compitare, a scrivere come una nobildonna, a parlare francese, tedesco, spagnolo ed inglese. La sua casetta possedeva solo due locali che erano pieni zeppi di libri. Li aveva letti tutti e non meno di quattro volte ciascuno; ne conosceva i titoli ed i contenuti quasi a memoria. Mi aveva fatto studiare filosofia, scienza, fisica, arte, chimica, medicina e musica. Aveva un violino. Gli piaceva suonare mentre cantavo per lui e per gli altri ospiti del cimitero.

Imparai da lui tutto ciò che aveva da insegnarmi. Ed io gli spiegai l'unica cosa che padre Luciano mi aveva insegnato: la Bibbia.

Giuliano non andava mai a sentire la messa settimanale, diceva che la sua anima non ne aveva bisogno. Veniva solo a vedere quella domenicale, dove io cantavo l'alleluia facendo da chirichetto.

Ogni domenica mi mandava un cioccolatino della mia pasticceria preferita per ringraziarmi della meravigliosa esibizione.

Ho sempre creduto che padre Luciano fosse a conoscenza del fatto che il custode mi stesse facendo da maestro, ma non aveva mai proferito alcuna parola al riguardo. Pensavo che volesse solamente che io fossi felice e che avessi almeno un amico.

Giuliano mi raccontava le favole, mi teneva la mano quando piangevo e mi abbracciava per consolarmi. Era come un padre per me.

Un giorno mi permisi di chiedergli di essere mio padre. Lui non rispose, si limitò a sorridere. Capii che era un nervo ancora troppo pulsante, perciò non gliene parlai più.

La mia vita continuava lenta e monotona. Avevo l'aspetto di una diciassettenne, con i lunghi capelli neri, gli occhi rossi e le labbra carnose.

Spesso venivo picchiata e stuprata da alcuni ragazzi a cui piaceva definirsi “miei compagni di giochi”. Con il passare del tempo smisi di uscire dalla curia anche per le piccole commissioni. Non ebbi mai il coraggio di raccontare a nessuno il perché.

La gente mi considerava malvagia per via del mio aspetto e sapevo che, a volte, persino il parroco a cui ero tanto affezionata diceva in giro che ero indemoniata. Tutti in città credevano alle menzogne sul mio conto. A volte mi lanciavano i sassi.

-Adesso basta!-, disse Giuliano un giorno di luglio, -E' il momento che la smettano di trattarti come un oggetto senza anima!-.

Spesso la sua rabbia contro i suoi concittadini esplodeva e travolgeva tutto ciò che aveva davanti. Capitava quando arrivavo da lui con un osso rotto, o con dei graffi e dei lividi. Quando succedeva io stavo zitta, non volevo dire niente che avrebbe potuto farlo arrabbiare ancora di più.

Ero ormai rassegnata al mio destino. Sapevo che, andando avanti di questo passo, non avrei vissuto per molto tempo ancora.

Perciò mi rassegnai a vivere fino all'ultimo ciò che mi era rimasto.

 

Scappai dalla curia ed andai a rifugiarmi nel cimitero di San Raffaele, dove nessuno osava più entrare a causa delle occhiatacce che il custode riservava ad ogni abitante del paese. Per un po' di tempo fui al sicuro da tutto e tutti. Cucinavo per il mio nuovo padre, gli leggevo i libri che comprava al mercato per due spiccioli e gli cucivo i vestiti. Quando tornava a casa dal suo solito giro tra i morti mi salutava con un bacio sui capelli dicendo: -Ciao bambina-. Ero da sempre la sua bambina, ma lui non mi aveva dato il permesso per chiamarlo papà. Ciò mi rendeva triste, era come se io avessi un pizzico di felicità ancora incompleta.

Una mattina ci fu un funerale. Era una cosa straordinaria per quelli del paese maledetto, perché da quelle parti non moriva molta gente.

La defunta si chiamava Cassandra Vicenzetti. Era la moglie del duca Vicenzetti, il signorotto del paese. Era un uomo potente che gestiva tutta “Rocca della Vergine” nel migliore dei modi. Provvedeva a modernizzarla, a proteggerla dagli intrusi e a fare in modo che nessuno, e ripeto, nessuno uscisse dalla sua contea.

La sua sposa era la donna più bella di tutto il paese e tutti sapevano che lei lo aveva sposato perché ne era davvero innamorata, mentre lui voleva solo il successo legato alla sua famiglia. Lei lo sapeva, ma lo amava follemente. Tutti in paese sapevano che sua moglie trovava raccapricciante questa maledizione della vita quasi eterna, diceva che andava contro il volere di Dio. Perché tutti prima o poi devono morire e prendere in giro il creatore non era un'azione degna di una cristiana come lei. Spesso aveva tentato di scappare. Spesso aveva cercato di convincere suo marito ad andarsene con lei. Lui le rideva sempre in faccia e la ridicolizzava di fronte a tutto il paese.

Mi aveva sempre fatto tanta pena, poverina.

Adesso era morta, da sola. Aveva ingoiato un'intera bottiglietta di arsenico.

Presero parte al funerale tutti quelli che in paese contavano qualche cosa. Giuliano ed io osservammo tutto dall'interno della sua casetta. Ogni tanto lui sbuffava e brontolava qualche cosa contro la ricchezza di quell'uomo senza scrupoli.

Vicino al duca, notai una figura più bassa, smilza, con i capelli biondi e gli occhi azzurri come il mare. Era di una rara bellezza, uno di quei ragazzi che non trovi tutti i giorni sulla tua strada. Però lui era lì. Di fronte a me con solo dieci metri ed una finestra che ci dividevano.

Il mio cuore batté per amore per la prima volta.

Lui non mi vide.

Nei giorni che seguirono cercai di ricevere più informazioni da Giuliano, che sapeva tutto di tutti. Mi disse che si chiamava Micaele, che era tutto sua madre, persino nel carattere vivace e solitario. Raccontò che era nato il giorno stesso che io ero stata lasciata sulla porta della curia. Lo considerai un segno del destino.

Lo sognai parecchie volte, ma la bellezza del suo viso non fu mai eguagliata nei miei pensieri.

Il tempo passava lento e costante.

Io non invecchiavo e la città continuava a trovare la mia vista ripugnante.

Ma ero felice: Micaele andava a trovare sua madre tutti i giovedì dopo pranzo. Le portava sempre un mazzo gigante con i suoi fiori preferiti, i tulipani rosa. Sorrideva tutto il tempo e curava dolcemente la tua lapide togliendo l'edera, le erbacce ed i fiori della settimana precedente. Vedevo che le parlava e mi chiesi se anche lui sapesse parlare con i morti, ma dopo tre settimane capii che era solo per sentirsi meglio con se stesso. Sperava davvero che lei lo sentisse.

Sapevo che si sentiva solo. Proprio come me.

Il suo palazzo si trovava al limite del paese, su di una collinetta appena sopra il cimitero. Ero certa che controllasse la tomba da lassù quando il padre non lo lasciava andare a trovare la madre defunta. Tutti sapevano che lui non l'aveva mai amata come aveva amato i suoi innumerevoli soldi e la sua importanza in società.

Mi piaceva osservarlo mentre era perso nel suo dolore e per più di una volta fui tentata di andare da lui per consolarlo. Non ne ebbi mai il coraggio per colpa del mio aspetto.

Giuliano mi guardava e taceva la sua pena nei miei confronti, diceva che mi stavo rovinando la vita. Innamorarsi di un essere non alla mia portata mi avrebbe portata ad una grossa delusione, secondo lui, sarei morta di crepacuore.

Sapevo che non sarebbe stato così, non so come mai, ma lo sapevo. Ero certa che lui non mi avrebbe mai rifiutata.

Così, uno di quei giovedì portai anche io dei fiori alla duchessa e stetti ferma ad aspettare che lui arrivasse.

-Che cosa ci fa qui, signorina?-.

Mi voltai verso di lui e vidi la sua pelle impallidire alla vista dei miei occhi. Ed il mio cuore si ruppe: come tutti gli altri vide il demonio in me. Una lacrima bagnò la mia guancia. -Salutavo una gran donna-, dissi piangendo.

-Era un'amica di mia madre?-, chiese incerto.

-L'ho conosciuta solo da morta-.

-Che cosa intende?-. La sua voce confusa si accostava perfettamente al suo dolce visetto turbato dal terrore e dal dolore.

-Niente di importante...-.

In silenzio mi diressi verso il capanno. Gli passai accanto.

Non lo salutai. Non mi salutò.

Decisi che non avrei mai più fatto una simile sciocchezza.

 

Qualche settimana dopo il castello del duca prese fuoco. Tutti accorsero in aiuto al nobile, portarono secchielli d'acqua e uomini robusti che entrarono in quell'inferno per tentare di salvare chi era ancora vivo. Portarono fuori il duca e la sua nuova amante, una delle cameriere del palazzo. Cercarono il figlio, il povero apparente diciannovenne Micaele si trovava al centro perfetto delle fiamme. Era svenuto. Quando lo portarono fuori il padre gridò che quello non era suo figlio.

Lo sottoposero alle migliori cure dell'epoca, ma non ci fu niente da fare. Rimase in coma per qualche mese mentre tentavano invano di ricostruirlo da zero.

Infine, in una notte fredda e oscura, alcuni servi fidati del Duca lo gettarono nel canale che portava dritto, dritto al cimitero. Lo trovai qualche ora dopo durante la passeggiata per le tombe insieme a Giuliano.

-Non mi sembra il caso di prenderci un morto a carico, non credi?-.

-Ti scongiuro...-.

Sospirò e continuò il suo giro. Portai il ferito in casa.

Molte delle sue ferite erano state guarite, ma il suo meraviglioso volto era sfigurato per sempre. Il fuoco si era preso tutto il lato destro del suo viso saltando solo l'orecchio e la palpebra. Tutto il busto era pieno di cicatrici e il braccio, insieme alla gamba, destri erano cumuli di carne cicatrizzata. Gli mancavano due dita della mano destra e tre del piede.

Dormiva profondamente e, a volte, parlava e bestemmiava inconsciamente contro il dolore. Sapevo che sarebbe sopravvissuto. Mi prendevo cura di lui usando le migliori pomate artigianali che riuscivo a fabbricarmi. Riuscivo a fargli ingurgitare qualche cosa mentre era in stato di semi incoscienza e, quando si svegliava per pochi secondi, mi chiedeva sempre chi ero. Ero certa che la sua vista fosse peggiorata.

Una mattina di settembre si svegliò urlando. Tentò di alzarsi, ma tutto ciò che ottenne furono solo dolorose fitte dove ancora aveva le ferite aperte.

Il primo volto che vide fu il mio.

-Dove sono?-, chiese debolmente.

-Al cimitero di San Raffaele-, risposi accarezzandogli la parte destra della testa, che era rimasta quasi completamente pelata. I suoi occhi mi fissarono speranzosi.

-Sono morto?-.

-No, non ancora-.

-Allora Perché sono qui? Mi avete rapito? Mi ricordo di voi! Siete quella ragazza, quella che aveva portato dei fiori per mia madre...ricordo i vostri occhi...li...ricordo-. Cercò di nuovo di alzarsi. Mugugnò per il dolore.

-Vi conviene stare fermo e buono, le vostre ferite non si sono ancora rimarginate...-.

-Che ferite?-, chiese confuso.

-Quelle che avete riportato dopo l'incendio al castello di vostro padre. Avete perso due dita della mano destra, tre del piede destro, il vostro volto è sfigurato e la parte destra del vostro corpo è piena  di cicatrici da bruciature. Nonostante tutto, siete ancora vivo e pieno di forze...ve lo assicuro-. Sorrisi dolcemente.

-Perchè mi state curando?-.

-Vostro padre aveva deciso di liberarsi di voi, mostro sfigurato, gettandovi nel canale accanto al cimitero...ho solo pensato che fosse...beh, ingiusto lasciarvi morire in quel modo-. Lo sentii gemere dal mio letto. Capii che era il momento di lasciarlo solo con il suo dolore.

Presi il cestino da una sedia dirigendomi verso la porta della casa, mi voltai verso di lui: -Andrò a raccogliere delle erbe selvatiche per le vostre ferite...se avete bisogno di qualche cosa gridate e Giuliano, il custode, accorrerà-.

Mi chiusi la porta alle spalle.

Quando tornai Giuliano gli stava bagnando la fronte con un panno zuppo di acqua fresca.

-Ha la febbre alta-, disse con un tono preoccupato.

-Non morirà-, dissi con sicurezza.

-Come lo sai?-, chiese scettico.

Lo fissai con i miei occhi di fuoco: -Lo so e basta-.

Quella notte mi svegliarono i suoi mugolii indistinti. -Che cosa vi succede?-, chiesi preoccupata. -Avete bisogno di qualcosa?-.

-Sono solo...morirò da solo-.

-Voi non morirete, ve lo prometto-.

-Non dovreste fare promesse che non siete sicura di mantenere, lo sapete?-, nella sua voce sentii una strana nota di severità che mi fece sorridere.

-Io mantengo sempre le mie promesse-.

Lui mi guardò negli occhi: -Qual'è il vostro nome?-.

-Io non ho un nome-.

-Perchè?-.

-Perchè nessuno ha mai pensato che sarebbe stato carino darmene uno-.

 

In meno di un mese riuscì a muovere i primi passi e ad accompagnarmi per le mie escursioni attraverso il cimitero. Si faceva curare da me come un bambino, parlava molto e, di certo, molto più di me. Aveva sempre delle domande da farmi, alcune delle quali troppo private. Per farlo felice trovavo una risposta a tutto.

Mi chiedeva sempre che giorno era ed ogni giovedì andavamo a trovare sua madre con un mazzo stracolmo di tulipani rosa.

-I tulipani sono dei fiori delicati-, dissi un giorno mentre lui sistemava la lapide, -Lei com'era?-.

-Bella, bella come il sole di mezzogiorno-, rispose con gli occhi velati di una costante tristezza.

Passeggiavamo per ore. Parlando di poesia, filosofia, letteratura. Ci piacevano gli sconfinati spazi verdi che circondavano il paese e ci coricavamo spesso ad osservare il cielo terso e blu. Gli insegnai ad evocare i morti, lui volle provare con la madre; riuscì a mantenere il contatto solo per pochi istanti. Quel giorno pianse di felicità.

Disegnavamo figure tra le stelle la notte mentre gli raccontavo delle favole.

Ogni tanto si fermava ad osservarmi e la cosa mi metteva spesso a disagio.

-Posso darvi io un nome?-, chiese improvvisamente, uno dei molteplici giovedì passati sulla tomba di sua madre.

-Se vi fa piacere-, dissi con distacco.

-Che cos'è che vi da fastidio del fatto che io mi preoccupi per voi?-. Mi accarezzò una guancia con la punta delle dita della mano bruciata.

-Niente. E' solo che nessuno ha mai voluto darmene uno...ed il fatto che voi vogliate mi mette un po' in imbarazzo-. Gli sorrisi sperando di non averlo offeso.

Rise fragorosamente. -Datemi un paio di giorni e vi troverò un nome, d'accordo?-. Mi offrì la mano che strinsi sorridendo divertita. Tornammo a casa verso sera.

Quel giorno mi sentii felice.

Il giovedì seguente cambiammo, come sempre, i fiori sulla tomba della madre. Micaele si voltò verso di me e mi sorrise, -Sapete che vi ho trovato un nome?-.

-Davvero?-, chiesi scettica.

-Si, ma se volete saperlo, dovrete baciarmi-. Rideva ed era sicuro di se, proprio come prima dell'incidente. Lo osservai scioccata. Smise di ridere e riservò per me un'occhiata gelida: -Sono talmente ripugnante che vi rifiutate di baciarmi?-.

-Sembra un ricatto-.

-Forse lo è-, fece spallucce e si avvicinò.

-Forse...-, sapevo che cosa pensava, sapevo che credeva che io avessi paura di lui per via del suo aspetto. Non si rendeva conto di quanto il mio cuore battesse forte in sua presenza, non poteva sapere quanto io fossi innamorata del Micaele che si trovava dentro di lui. -Però io voglio sapere il mio nome-.

Fui io ad avvicinarmi. Passo dopo passo lo avevo sempre più vicino, fino ad avere un contatto che mai avevo provato in tutti i miei innumerevoli anni.

Quando le nostre labbra si toccarono mi sentii invasa da un sentimento di enorme felicità. Ebbi la certezza che qualcuno mi amava, che qualcuno mi voleva al proprio fianco. Sapevo che non stava mentendo e che per lui i miei occhi non erano più problema, perché anche lui adesso sapeva andare a fondo dell'animo delle persone per conoscerle davvero. Non si fermava più all'apparenza. E nemmeno io.

Restammo immobili. Abbracciati sopra la tomba di sua madre.

Finché: -Posso chiamarti come lei?-.

-Come chi?-.

-Come mia madre. Posso chiamarti Cassandra, ragazza senza nome?-.

Non risposi, mi sentivo mortificata, felice, innamorata. Troppe emozioni, tutte subito dentro di me. Mi fecero quasi male.

-Lo devo prendere come un rifiuto?-, chiese con la voce rotta dalla delusione.

-Non lo so...non so se farei bene ad accettare...-.

-E' una mia scelta darti il suo nome. Sono io che decido se posso o no, tu devi solamente accettare-.

Chiusi gli occhi per trattenere le lacrime e mi strinsi al suo petto: -Accetto-.

Era una promessa solenne.

Mi prese la mano e ci incamminammo verso la radura dietro il cimitero. Ci coricammo e poggiò la testa sulla mia pancia. Gli accarezzai i capelli che erano lentamente ricresciuti. Si voltò verso di me sorridendo: -Raccontami ancora quella favola...quella della bella e della bestia-.

Ero felice.

Lui sorrideva sempre più spesso.

Giuliano ci guardava di sottecchi e rideva tra se.

Purtroppo niente è per sempre.

 

Una mattina di gennaio, una vedova tutta imbacuccata venne a trovare il marito morto di cancro alla mascella. L'uomo si chiamava Bastiano e mi aveva raccontato che la moglie, una donnetta secca e pettegola, veniva ogni anno all'anniversario della sua morte a portargli una candela. Lui rideva di lei che non lo aveva mai amato da vivo come da morto.

-Non sai quello che hai fino a che non lo perdi-, me lo aveva detto tante volte.

La donna si diresse lentamente verso la tomba ed accese la candela. Si inginocchiò e recitò tre ave Maria e quattro Padre nostro. Quando si alzò e si voltò verso il centro del cimitero vide due ragazzi che giocavano a rincorrersi in mezzo alla neve. Giurò di avere riconosciuto nel ragazzo aitante nonostante le bruciature Micaele Vicenzetti. Incominciò a gridare e corse veloce verso l'uscita. Quel pomeriggio stesso andò dal Duca per riferirgli di avere visto giocare con la “piccola strega del cimitero” il fantasma del figlio.

Vennero a prelevarci quella notte.

Quindici soldati in uniforme ci presero per le braccia e ci divisero. Il Duca si presentò al cospetto di Giuliano e gli disse che era stato posseduto dal demonio e da un morto resuscitato con l'arte della stregoneria. -Le anime morte verranno distrutte tra due notti, con sassi, legno e fuoco-.

Giuliano lo pregò di non portargli via una seconda volta il figlio.

Il Duca Vicenzetti fece una smorfia di disgusto, si voltò verso le guardie e gli disse di portarci sul carro.

La prigione dove ci portarono era fredda ed umida.

Ci misero in una cella comune. Appena mi vide, Micaele mi abbracciò forte e mi disse che sarebbe andato tutto bene. Non gli credetti. Forse nemmeno lui credette a se stesso. Ricordo che rimanemmo abbracciati tutto il tempo, senza mangiare, né bere. Eravamo li, immobili, sicuri che niente e nessuno ci avrebbe mai fatto del male.

Gli altri uomini nella cella, che ci rubavano la razione di cibo, non mi toccarono per paura dei miei occhi rossi. Si accingevano a fare riti purificatori quando io non li guardavo o dormivo.

Micaele non dormiva mai. Vegliava su di me come un angelo.

La nostra sentenza arrivò in fretta.

Io, una strega posseduta da satana, grazie all'aiuto del grande sovrano delle tenebre avevo resuscitato l'anima del figlio ustionato e defunto del Duca Vicenzetti. Il ragazzo, posseduto da me, mi aveva aiutata a fare resuscitare altre anime defunte, tra cui quella della duchessa Cassandra Vicenzetti. Fummo condannati a bruciare sul rogo.

Tutto ciò accadde in meno di tre giorni, senza un regolare processo.

Il giorno dell'esecuzione avevo paura. Mi avevano tagliato i capelli e mi avevano vestita di stracci. La stessa cosa era successa a Micaele. Ci fecero salire su di un carro di legno con le mani legate. Piangevo. La gente a cui passavamo vicino rideva di noi e ci lanciava dei sassi. Uno mi colpì in faccia.

Avevo paura.

Vedevo in lontananza il palo a cui saremmo stati legati. Passo dopo passo ci avvicinavamo sempre di più. Stavo per dire addio per sempre alla vita.

-Non piangere-, disse sorridendo, -In paradiso ci sarò io con te, te lo prometto-.

-Non fare promesse che non puoi mantenere...-.

-Posso mantenerla questa-.

Ci guardammo per un lungo istante.

Quando sentimmo un rumore di spari.

Voltandomi, capii che potevamo ancora salvarci. Giuliano si stava avvicinando a cavallo ed aveva seccato un paio di guardie. Scese dal destriero e ci fece montare sopra in tutta fretta. Quando gli urlai di salire lui fece uno di quei suoi maledetti sorrisi enigmatici e diede uno schiaffo al cavallo, che partì a razzo.

Gridai il suo nome, mentre le guardie lo picchiavano violentemente con i randelli e lo giustiziavano in piazza come un cane.

Altre guardie ci stavano inseguendo. Sentivamo lo scalpiccio degli zoccoli dei cavalli nel fango. Mi stringevo a Micaele che guardava di fronte a se senza voltarsi. Sapevo che aveva paura, proprio come me.

Cavalcammo per ore fino a che non raggiungemmo l'orlo del confine con la “Rocca della Vergine”. Capii che non c'era altra soluzione e, sotto lo sguardo delle guardie che si avvicinavano a tutta velocità, ci prendemmo per mano ed oltrepassammo la soglia della vita eterna.

Mi sentii sgretolare mentre le mie mani cercavano il suo viso.

Lui trovò il mio.

Mi sorrise, -Ti amo-, con una lacrima che gli rigava la dolce guancia bruciata.

-Ti amo anche io-.

E sparimmo nel vento, insieme.

  
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