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Autore: _EverAfter_    18/02/2020    10 recensioni
Alessandro è un bambino autistico.
Sonia è una giovane madre che segue il parere di molte, troppe persone. Fa tutto quello che le viene detto dagli psicologi, ma la verità sottaciuta rimane solamente una: non accetta affatto la sindrome del figlio.
▸ Seconda classificata a parimerito al contest "November Rain" indetto da MaryLondon e valutato da Juriaka sul Forum di EFP.
Genere: Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Questa è una di quella rare - rarissime - storie in cui inserisco le note d'autore prima e non dopo la lettura. Vi starete forse chiedendo il motivo, ma in realtà penso che molti di voi l'abbiano già capito dall'introduzione.
Ho scelto una tematica per me molto, molto importante.
Sappiate che ho scritto questa storia con la massima consapevolezza di ciò che rappresenta l'autismo e il decorso emotivo e psicologico delle famiglie. Alle volte ho conosciuto madri che mi sono parse una forza della natura e altre, come la mia Sonia, che all'inizio non erano in grado d'accettare la situazione.
Ci tengo particolarmente a specificare questa cosa, perché è un argomento che diletta facilmente i moralisti giudiziosi e - come mi diverto a chiamarli io - i "tuttologi", che puntualmente riescono a farti dei meravigliosi saggi sulla sindrome di Tourette mentre ti spiegano la fusione a freddo. Ecco, se vi ritrovate in una di queste due categorie, vi sarei grata se non commentaste affatto ^^".
A parte gli scherzi, spero che questa storia vi piaccia, perché l'ho scritta davvero con un tono e uno stile completamente diversi dal solito. Sarà che ci tengo forse un filino di più rispetto a tutte le altre che ho scritto, ma ora come ora non saprei dirlo. Sono solo contenta di averla scritta, tutto qui.
Non ringrazierò mai abbastanza MaryLondon per questa irripetibile opportunità.

A presto,


_EverAfter_











Alessandro non era un bambino come tutti gli altri. Solo che lui non lo sapeva.
All’asilo non riusciva mai a rimanere troppo tempo seduto nello stesso posto. Il suo cestino del pranzo doveva sempre essere nel quarto scaffale del quarto armadietto, senza eccezioni. La sciarpa doveva sempre trovarsi nella manica sinistra del cappotto e il suo cappello nella tasca sul davanti. Nell’ora ricreativa, mentre tutti i coetanei andavano in giardino a divertirsi, lui se ne rimaneva in aula a giocare coi puzzle.
Gli piacevano, i puzzle. Non parlavano, ma via via che incastrava le varie tessere era come se qualcuno gli stesse raccontando una storia, ma senza indisporlo come avrebbero fatto le voci gracchianti delle maestre.
Ci metteva pochi minuti per comprenderne il disegno principale, qualche altro istante lo impiegava per inserirvi le varie parti. I compagni di classe partivano sempre a cercare i pezzi per fare il contorno, perché così era stato insegnato loro dalle educatrici. Non era mai riuscito a capirne la motivazione, ma Alessandro non era un bimbo che s’interrogava molto su quello che accadeva intorno a lui. Gli bastava affiancare tessera dopo tessera e starsene in silenzio. Parlare non era il suo forte.
Alle elementari venne portato da un signore alto, coi baffi bianchi e una profonda ruga che gli segnava la fronte, come se non avesse fatto altro nella vita che starsene corrucciato per tutto il tempo. Le pareti della stanza erano tappezzate di cornici floreali dorate, dentro cui v’erano papiri e pergamene dalle più discutibili tonalità di beige. Ad Alessandro di tutti quegli attestati non importava: l’unica cosa alla quale aveva posto l’attenzione era il certificato di laurea, ch’era inclinato più o meno di cinque gradi rispetto agli altri quadri.
– È storto, – continuava a dire, – il quadro è storto.
Non rispose a nessuna delle domande che l’uomo gli aveva posto.
Non capì come mai sua madre piangesse, una volta tornati a casa da quella visita. Non aveva affatto prestato attenzione al signore, né a quello che diceva. L’unica cosa che udì distintamente furono le parole di suo padre: – Dovevamo aspettarcelo, Sonia. È troppo strano.
Strano. Non comprese che si stesse riferendo a lui mentre se ne tornava in camera sua, dove le pareti non brulicavano di certificati fittizi, ma di puzzle appesi ai muri ormai da anni. S’avvicinò alla scrivania, si sedette ed afferrò l’ennesima scatola: quella ne conteneva tremila, di pezzi.
– Strano? Ti sembra strano? – Le grida di sua madre gli giunsero distrattamente all’orecchio, ch’era poco incline ad ascoltare liti e isterismi. – Autistico, Paolo! Nostro figlio è autistico!
Quella sera Alessandro sentì molte parole stravaganti, ma l’unica che davvero comprese, quella di cui capisse davvero il significato, era una: diverso.
Non ragionava come gli altri bambini, né si comportava come loro. Non gli piaceva esser toccato, una volta al parco aveva gridato e spintonato via una ragazzina che aveva provato ad abbracciarlo. Non riusciva a parlare con gli altri coetanei, e quelle rare volte in cui ci aveva provato aveva finito inevitabilmente per arrabbiarsi, perché per quanto si sforzasse di dire le cose che pensava, le parole che gli uscivano dalla bocca non erano mai le stesse che aveva nella testa. Quando Alessandro s’irritava, tuttavia, sfogava la rabbia in modo singolare: si buttava a terra, urlava, si graffiava la pelle.
Le maestre facevano di tutto per tranquillizzarlo, sforzandosi nel contempo di gestire la classe. Gli altri bambini, che certo non possedevano la sensibilità dell’esperienza, avevano sempre un po’ timore di quelle reazioni. Bizzarro, in realtà. In tutto quel tempo, Alessandro non aveva mai alzato un dito su nessuno di loro.
– Non è colpa vostra, – s’era premurata di dire la direttrice ai genitori, – è un bambino dalla personalità sicuramente vivace, che va gestito in un certo modo.
Non che ci fosse davvero qualcuno a cui attribuire delle colpe. In fondo, Alessandro era solo autistico.
Ciò che cambiava era proprio quello: la percezione stessa della propria esistenza, il flusso continuo ed inarrestabile delle cose, il tram-tram quotidiano che qualcuno s’era arrogantemente preso la briga di chiamare normalità. Lui, ch’esulava da quel mondo, non poteva esser compreso dagli altri. La sua vita scorreva più lentamente rispetto alla loro, poiché vedeva le cose in maniera diversa e le analizzava per quel che erano, senz’alcun sotterfugio.
La mente di Alessandro era a colori, ma quando parlava poteva farlo solo in scale di grigio. E in un mondo dove il rosso non esisteva, come avrebbe mai potuto, lui, trovare le giuste parole per spiegarne la bellezza?
Così preferiva non esprimersi e rimanersene in compagnia dei dilettevoli rompicapi, che gli apparivano molto più affascinanti e loquaci delle altre persone che conosceva. Dopotutto, non aveva mai sentito un puzzle insultarlo o chiamarlo strambo. Stringeva i piccoli frammenti di cartone tra le dita, posizionandoli l’uno accanto all’altro, dando vita ad un’immagine ch’era già ben chiara nella sua testa, ma che prendeva forma a poco a poco, attraverso la calma e la costanza del lavoro. In quei momenti il bambino non pensava mai ad altro che non fosse il disegno finale, risparmiando la mente da altri superflui pensieri.
E quando riusciva a finire il puzzle in breve tempo, Alessandro rideva d’una risata sguaiata e piena di vita. Agli altri quell’ilarità spaventava, perché era troppo altisonante, assomigliava ad un urlo isterico e irragionevole. Non gli era concesso d’esultare in quel modo, perché nella scala dei grigi non era tollerabile ridere di gusto, magari sbattendo le mani e saltando da una parte all’altra della stanza. Non era normale.
Tuttavia, non premurandosi affatto di chi lo stesse guardando, Alessandro lo faceva ugualmente. In fuga verso quel mondo ch’era un po’ più adatto a sé.




Tic.
Tic.
Tic.
La pioggia s’abbatteva placida sui vetri della finestra, scivolando lentamente verso le mattonelle ingiallite del balcone. Alessandro se ne stava tranquillo a guardare le gocce traslucide cadere dal cielo. Chissà s’era possibile contarle tutte.
Se l’era chiesto tante volte, e molte altre s’era ritrovato a puntarle con l’indice, scandendo il ritmo di quello scorrere perpetuo, un fiume in verticale il cui flusso inarrestabile indispettiva ogni essere umano, che si vedeva costretto a prendere un ombrello o a mettersi quegli scomodissimi impermeabili che, chissà per quale assurda ragione, puzzavano sempre di plastica.
Ad Alessandro la pioggia piaceva. Era un po’ come se Dio volesse dare una ripulita al mondo; l’acqua passava impetuosa lungo i marciapiedi, s’insinuava nelle fognature e si perdeva in mare, andandosene chissà dove. Lui la osservava dalla finestra, dondolandosi avanti e indietro per tranquillizzarsi. La sua attenzione venne colpita dalle piccole pozzanghere che lentamente prendevano vita sull’asfalto della strada: gli apparivano come dei minuscoli laghetti, sui quali v’erano dei continui ammassi di cerchi nati dalle gocce che cadevano dal cielo, la riserva d’acqua che alimentava l’insignificante stagno. Il bambino osservava la scena con la stessa intensità d’un critico d’arte che si fosse trovato di fronte al quadro più bello, e non si premurava di far altro che non fosse godersi l’istante in cui le gocce impattavano sull’asfalto, unendosi a quelle già cadute.
Lì, immerso in vecchie memorie, si ritrovò a pensare che forse le pozzanghere non fossero tanto diverse dai puzzle: nella sua mente le gocce presero le sembianze astratte delle tessere di cartone a lui tanto note, riempiendo un disegno che cambiava continuamente aspetto. Un’immagine che mutava forma ogni volta, il riflesso del mondo che scorreva attorno e che si specchiava in quel puzzle creato da pezzi fatti d’acqua.
Forse riusciva a capirlo un po’ meglio, il perché gli piacesse la pioggia.
Tic.
Tic.
Tic.
Il mormorio delle gocce sottili s’era fatto più scrosciante, mentre i fari delle macchine s’accendevano d’un giallo intenso e i tergicristalli si muovevano più velocemente. Sentì l’uscio della porta socchiudersi, ma non si voltò a guardare.
– Ale. – Era sua madre. – È pronta la cena.
Il dondolio con cui si muoveva divenne più veloce, imitando in parte quello dei tergicristalli che aveva appena visto. – Le pozzanghere sono come i puzzle.
– Cosa?
– Le pozzanghere sono come i puzzle.
La madre gli si avvicinò, sistemandogli i capelli spettinati con la mano, ch’era sempre troppo incerta quando si trattava di dover carezzare la testa del figlio. – Perché?
– Le pozzanghere sono come i puzzle.
Alessandro non rispondeva mai alle domande che gli venivano poste, né tantomeno si preoccupava di dare qualche spiegazione. Era perfettamente consapevole che, in un modo o nell’altro, non avrebbe trovato la giusta maniera di farsi capire dagli altri. Per questo non replicava mai, né li guardava negli occhi: il contatto visivo lo spaventava, poiché nello sguardo altrui non riusciva mai a capire cosa vi fosse, e ciò a cui non riusciva a dare una spiegazione lo terrorizzava più di quanto avrebbero mai potuto fare gli isterismi del padre o i piagnistei vittimistici della madre. E quando era spaventato, Alessandro gridava; gridava nella speranza che il timore potesse lasciarlo in pace. In fondo, non era un concetto tanto complicato: per mandar via la paura, bastava farle paura. Semplice.
– È pronta la cena – ripeté la madre, desistendo dall’intento di comprendere le considerazioni del figlio. D’altronde, come avrebbe mai potuto capirle.
Alessandro consumò il suo pasto in silenzio: si sistemò il tovagliolo dentro al colletto, pulì la forchetta, separò gli spinaci dalle carote e mangiò, masticando trenta volte il singolo boccone.
In passato i suoi genitori avevano provato disperatamente ad approcciarsi a lui almeno in quei rari momenti dove si trovavano tutti assieme, ma il bambino aveva manifestato più d’una volta il suo dissenso per la raffica di domande a cui veniva sottoposto. Il disagio divenne per lui così insostenibile da lasciarsi andare a frenetici movimenti stereotipati, tra cui il compulsivo sfarfallio[¹]
delle mani, che risultava essere la reazione più comune al fastidio che provava. La neuropsichiatra si pronunciò più d’una volta circa quell’aspetto: i genitori dovevano smetterla di forzarlo a fare cose che lui non voleva fare. Il risultato fu quello di non parlargli affatto.
Non che ad Alessandro dispiacesse. Apprezzava il silenzio molto più del chiacchiericcio vacuo e ovattato. Mangiava tranquillo il suo pasto, s’alzava da tavola posando il proprio piatto nel lavabo e scompariva di nuovo nella sua camera, ritrovando la serenità persa. Non si premurava affatto di comprendere cosa succedesse in cucina, ogniqualvolta se ne andava. Spesso gli era capitato di sentire urlare la madre, ma non vi aveva mai posto molta attenzione.
Alessandro, ch’era sì dotato di un’intelligenza singolare, non era particolarmente bravo nel comprendere i sentimenti. I suoi problemi di comunicazione nascevano in gran parte da quel suo dare per scontato che, pur provandoci, non ne sarebbe stato in grado. Così, anche se qualcuno avesse voluto abbracciarlo per mostrargli dell’affetto, a lui sarebbe bastato scansarsi. Il problema era che non riusciva a capire come mai un simile gesto avrebbe dovuto ferire qualcuno; in fondo, non aveva coltelli in mano, né armi capaci d’arrecar danno.
– Le persone ti abbracciano per dirti che ti vogliono bene, – gli aveva detto un giorno la neuropsichiatra Berelli, – ecco perché ci rimangono male.
– Io sono felice quando non mi toccano – aveva ribattuto, dondolandosi col busto avanti e indietro.
Per lui era un concetto semplice: gli era stato insegnato che voler bene ad una persona significava volerla vedere felice. E dunque, se lui era contento quando non veniva toccato, perché mai qualcuno che l’avesse avuto a cuore avrebbe dovuto abbracciarlo per minare quel briciolo di serenità che provava?
Lui proprio non riusciva a comprenderlo.




Pioveva anche quel giorno. A novembre non era poi così strano.
L’unica differenza era che Alessandro non si trovava al riparo nella tranquillità della sua stanza, ma stava camminando per strada, nascosto da un grande ombrello scuro. Sua madre gli teneva la mano e, sebbene avesse protestato più d’una volta, alla fine s’era costretto ad obbedirle, per quanto gli fosse possibile. Sentiva il cic-ciac sotto le calosce gialle e continuava a battere forte i talloni per osservare le goccioline stagnanti saltellare da una parte all’altra dell’asfalto, non preoccupandosi d’imbrattarsi l’impermeabile che aveva addosso.
– Smettila, – lo rimproverò sua madre, serrando leggermente la presa attorno alle piccole dita del figlio, – così ti sporcherai.
Il bambino smise: non era mai stato molto obbediente, ma non era neanche un grande amante dello sporco. Tornavano dalla visita con la neuropsichiatra; quel giorno, invece che parlare di Alessandro e di quello che si ostinavano a chiamare “il suo handicap”, la neuropsichiatra si rivolse alla madre. Il bambino, che non aveva proprio voglia di sentire i discorsi dei grandi, si rintanò nella stanzetta dei giochi, dilettandosi con un abaco usurato dagli anni.
– Sonia, – le aveva detto con voce grave la dottoressa, – se lei si ostina a comportarsi in questo modo, rifuggendo la realtà delle cose, allora non potrà mai essere d’aiuto a suo figlio.
Dapprima perplessa, poi arrabbiata, la giovane donna non seppe come replicare, optando per un silenzio lungo e surreale. – Cosa dovrei fare, più di quello che faccio? – sbottò infine, senza ritegno. – Ho fatto tutto quello che mi ha detto di fare.
– Ne sono consapevole, – continuò la Berelli, – ma purtroppo mi duole dirle che non basta affatto. – La neuropsichiatra si alzò lentamente dalla poltrona in pelle nera e s’avvicinò alla genitrice, posandole una mano sulla spalla.
Quel gesto, che di per sé non aveva nulla d’istrionico e appariscente, bastò per far sì che la donna iniziasse a piangere. Non era un pianto liberatorio, come quelli a cui sovente si concedeva quando sentiva il buonsenso venire meno e l’isteria imporsi su ogni coscienza. Erano lacrime di tristezza, le mute consapevolezze di quanto fosse stata ingiusta come madre, vedendo nel figlio nulla di più di un problema, un peso sul cuore che non voleva e che, invece di avvicinarla, l’allontanava da lui sempre di più.
Sonia, ch’era una persona buona, aveva paura. Paura degli sguardi degli altri genitori, paura degli insulti dei bambini, paura dei giudizi delle maestre. E quel terrore che si portava sempre appresso come zavorra, per lei divenne insostenibile: calò sugli occhi una cortina spessa, per non vedere ciò che si celava dietro di essi. Poco le importava che si trattasse di Alessandro o di ciò che aveva. Eppure, Sonia era davvero una brava persona.
Continuava a ripeterselo persino in quell’istante, mentre la pioggia annichiliva il via vai frenetico delle persone; per strada v’erano solo lei e Alessandro. Il bambino non aveva parlato granché con la psicologa, ma nonostante sapesse della stranezza della cosa non s’era impensierito più del necessario. Camminava un po’ più velocemente del solito, prestando una singolare attenzione al volto della madre: era più rosso del normale e c’erano delle gocce che le scendevano lungo le guance.
Strano. Eppure era coperta dall’ombrello, non avrebbe dovuto piovere sul suo viso.
Non erano gocce di pioggia, ma nonostante ciò cadevano comunque a terra, mischiandosi a quelle del cielo. Alessandro rimase zitto per qualche altro istante. Non era molto portato per i ragionamenti complicati, lui: non riusciva a cogliere i principi di causa ed effetto, per cui gli sarebbe risultato impossibile comprendere il perché sua madre stesse piangendo. Era abituato a vederla lamentarsi, ma non in quel modo. Da quella bocca serrata e lievemente corrucciata, sembrava che non potesse uscire più alcun suono.
Alessandro rimase a contemplare le piccole righe saline lungo le guance della genitrice, pensando a ciò ch’era più alla sua portata e che non aveva bisogno di spiegazioni scientifiche: se sua madre piangeva, allora le sue lacrime erano un po’ come la pioggia.
– Mamma è come una pozzanghera, – disse infine, con un sorriso soddisfatto dipinto sul volto, – mamma è come un puzzle.
Sonia arrestò la camminata veloce, volgendosi a guardare il figlio. Forse era la prima volta che lo fissava davvero, posando l’attenzione sullo sguardo vispo e i denti bianchi. Lì, sotto al suo stesso ombrello, c’era suo figlio. Forse non l’avrebbe mai capito davvero. Ma – almeno – avrebbe potuto provarci.
– Ti sono sempre piaciuti i puzzle – gli rispose. Quella non era una domanda, e ciò bastò al bambino per annuire ripetutamente con la testa.
Era la prima volta che parlavano. Era la prima volta che tentavano di comprendersi.
Tornarono a casa, si spogliarono degli impermeabili e si tolsero le calosce. Alessandro andò a prendere il puzzle da tremila pezzi che gli aveva comprato suo padre: era talmente nuovo che puzzava ancora del cellophane che lo ricopriva. Lo appoggiò con delicatezza sul tavolo della cucina, mentre sua madre si sedeva al suo fianco. A causa dell’uggiosità di quel giorno, dalla finestra non penetrava alcuno sprazzo di luce, lasciando che la penombra ingrigisse il tavolo bianco e il top color carta da zucchero della cucina.
Nonostante il tempo cupo e tenebroso, Sonia non era più spaventata, mentre osservava Alessandro selezionare con estrema cura le prime tessere del puzzle. Non s’era mai concessa del tempo con il figlio, perché in realtà non sapeva come avvicinarglisi senza indispettirlo. Afflitta dalla diagnosi dello psicologo, s’era scordata come si potesse essere una buona madre, e aveva finito per riempire il figlio di domande, invece che dargli delle risposte. Aveva inconsciamente rifiutato il suo ruolo di educatrice, e con esso la capacità di costruire un rapporto con quel bambino che di sbagliato non aveva nulla, se non forse il fatto d’essere nato in un mondo non adatto a lui.
Lo comprese in quell’attimo, Sonia. Alessandro non era affatto sbagliato. Erano tutti gli altri ad esserlo. Persino lei, che non era riuscita a capirlo prima di quel momento.
Vedendo il figlio incastrare le tessere una dietro l’altra, s’accorse di quanto le piacesse poter passare del tempo con lui, pur senza domandargli nulla, né parlargli. Gli bastava osservare il cipiglio attento e la bocca storta in una smorfia che faceva sempre quando era concentrato.
Quello era Alessandro, suo figlio.
E le parve per la prima volta che il mondo fosse un po’ più colorato del solito.





Fine





NOTE:

[¹] Preferisco fare una delucidazione: lo sfarfallio delle mani è un movimento stereotipato ch’è tipico dell’autismo. Si manifesta comunemente quando il soggetto prova felicità o, viceversa, s’è sopraffatto dall’ansia.
  
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