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Autore: Freaky_Frix    20/02/2020    1 recensioni
One shot nata dalla noia e dal sadismo retorico che provo per qualunque personaggio concepisca.
Tanto, a chi serve un lieto fine?
Genere: Dark, Drammatico, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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SHEILA

Il cielo è come un uomo: un fottuto bastardo, che ti illude di poter raggiungere l’infinito mentre fa il giro per bloccarti il passaggio. Bisogna stare molto attenti con lui: abbassare la guardia fa male al cuore. 

Conoscevo una ragazza innamorata del cielo: il suo nome era Sheila, e frequentavamo lo stesso liceo. Non eravamo amici, ma a volte parlavamo. Il più delle volte capitava quando eravamo entrambi ubriachi, reduci da qualche festa. In quei momenti abbassava il freno a mano della parola e vomitava, insieme all'alcol, tutto quello che voleva fare dopo il diploma. Io mi limitavo ad annuire e a ridere delle stronzate che sparava: voleva scappare di casa, fare la cantante… Tutte puttanate. Glielo dissi anche, una volta, ma lei era completamente andata. Era il nostro ultimo anno, e io non avevo la più pallida idea di cosa fare della mia vita. Volevo solo andare via da lì, rifarmi una vita da qualche altra parte, e non pensare più alla discarica in cui ero cresciuto. A differenza di Sheila, però, io ero una persona concreta. Diavolo, lo sono ancora. Io volevo andare al college e fare il culo a tutti. 

Così, alla fine, presi il mio pezzo di carta e girai i tacchi. Non soffermai la mia attenzione su Sheila, il giorno delle consegne del diploma. Ricordo solo la sua matassa di capelli ribelli compressi sotto il tocco, mentre saltellava con la pergamena in mano.

Andai al college e mi misi sotto. Ovviamente, ce la feci. Vinsi il pacchetto completo: bel lavoro, bei vestiti, bella casa e bella macchina. E portafoglio gonfio. Andavo (e vado) fiero del mio successo. Ero diventato il re del mondo, e non dovevo renderne conto a nessuno.

Le cose cambiarono di botto una sera: stavo tornando a casa da una cena di lavoro, quando a bordo strada i fari della mia macchina illuminarono una silhouette femminile. Camminava frettolosamente verso l’inizio del marciapiede, avvolta in un giubbotto che lasciava scoperte le gambe nude. Non so perché accostai: potevo facilmente immaginare che genere di donna fosse, eppure non me la sentivo di passare oltre. Ferma accanto allo sportello per alcuni attimi, quella ragazza stava frugando nelle tasche del suo giubbotto, alla ricerca di qualcosa. Quando fu seduta accanto a me non potei fare a meno di pensare quanto i suoi occhi rilucessero nel buio dell’abitacolo alla stessa maniera del lipgloss deformato in una smorfia che doveva significare, probabilmente, che era mia per la notte.

C’era qualcosa nel mio cervello che trillava insistentemente, ma non avevo proprio idea di cosa fosse. Paura recondita per malattie sessualmente trasmissibili? Eppure, non avevo alcuna intenzione di andare a letto con lei. In verità, non sapevo cosa venisse dopo la mia improvvisa urgenza di comportarmi come una specie di buon samaritano. 

Decisi di improvvisare, così ingranai la marcia e partii. Mi fermai fuori ad una tavola calda.

“Che significa?” mi chiese, con lo sguardo rivolto verso le vetrine del locale.

Me lo stavo chiedendo anche io. Cercando di sembrare naturale, le risposi semplicemente che avevo una gran fame, e che volevo che lei mi tenesse compagnia. Ovviamente avrei offerto io, e poteva prendere quello che voleva.

Alle mie parole la tipa annuì per poi fare spallucce. 

“Ok” fu la sua risposta.

Seduti una di fronte all’altro in quel posto, incominciai a sentirmi un perfetto idiota. Gli avventori del locale ci guardavano male, forse perché pensavano che fossi un pappone in compagnia di una “dipendente”. Cercai di non pensarci, concentrandomi sul menù. 

Fu lei a rompere il silenzio.

“Quindi… Io sono la tua Vivien e tu il mio Edward?”

La guardai stranito. Chi era quella gente? E perché la mia testa si sforzava di ricordare qualcosa senza la mia autorizzazione?

“Sai, i protagonisti di Pretty Woman…”

“Oh” risposi, cercando di mostrare interesse. 

Credo che lei avesse capito che non me ne fregava niente, perché distolse subito lo sguardo, concentrandolo su un punto alle mie spalle.

Io invece, malgrado le mie buone intenzioni, non riuscivo a smettere di guardarla. Non perché fosse bella (sì, lo era, ma non m’importava) ma perché i riccioli che le ricadevano sul petto mi ricordavano proprio…

“... Sheila?”

Quasi non mi accorsi di aver pronunciato quel nome. Lei tornò a guardarmi, questa volta con un guizzo di paura e vergogna nelle iridi scure. Era bastato un nome per alzare una cortina tra noi. Da sconosciuti a ex compagni di scuola. Da sconosciuti a… Sconosciuti.

Una cameriera comparve dal nulla, il deus ex machina perfetto. Ordinai due tazze di caffè e un piatto di pancakes, mentre cercavo, nell’archivio della mia memoria, qualcosa di appropriato da dire. Mi ero pentito quasi subito di averla chiamata per nome. Di averle fatto sapere che io sapevo chi fosse. Potevo solo immaginare la vergogna e lo sconforto nel quale l’avevo fatta piombare.

“Non fa niente” fu tutto quello che mi uscì dalla bocca. Speravo non tanto di metterla a suo agio, quanto di levarle dalla faccia l’espressione da cerbiatto spaventato che sta per essere investito. Ma non riuscii a fare nemmeno quello. 

“Sheila, io… Non voglio metterti a disagio.”

Abbassai lo sguardo sulle mie mani, perfettamente immobili sul tavolo.

“Io ti mettevo sempre a disagio, a scuola, quindi immagino che questo sia il karma che mi rimbalza in faccia.”

Interruppi la mia recita disinteressata e le puntai gli occhi addosso, ma trovai uno sguardo assente, puntato verso il bancone del locale. Stava passando in rassegna il menù? 

“Mi hai trascinata qui per distruggermi?” mormorò, gli occhi ancora fissi sul menù.

Non sapevo cosa rispondere. Sentivo lo sdegno che saliva lungo l’esofago e mi faceva contorcere i lineamenti.

“Tu… Credi che io ti abbia trascinata qui per prendermi gioco di te? Sul serio?”

Non ottenni una risposta.

“Sheila, ti ho riconosciuta cinque minuti fa.”

Le scappò una sorta di ghigno.

“Ah, quindi immagino di averti rovinato la serata. Povero, niente compagnia stasera.”

“Io non… Non sono interessato a questo genere di cose, ok? TI ho vista lì tutta sola, la strada era deserta…”

“Oh, sì, certo... “

Mi irritava profondamente. 

“Senti, sei libera di andartene quando vuoi. Non ti sto costringendo io a stare qui.”

“No, no, no… Io sono qui, e il mio tempo non è gratis.”

“Bene, allora fammi il piacere di mangiare e stare zitta, Sheila.”

Stava per rispondere, vedevo i suoi occhi rilucere come un incendio, ma la cameriera ci interruppe con le ordinazioni.

E mentre sorseggiavo il mio caffè (bruciato, d’altronde) Sheila divorava voracemente i pancakes.

“Soddisfatta?” le chiesi, di nuovo in macchina. 

Non rispose.

“Ti riporto dov’eri, così puoi continuare a fare… Beh, qualunque cosa tu faccia.”

La sentii sbuffare.

“Ma ti senti quando parli? Puzzi di riccone, parli come un riccone e ti atteggi come un riccone… Ma sei sempre il solito ragazzino annoiato e vuoto.”

Mi voltai a guardarla.

“E tu, invece? A quando il prossimo contratto discografico?”

Mi pentii subito di quello che avevo detto. Sheila aprì la portiera e uscì, sbattendola.

“Sai cosa?” Mi urlò, “Tieniti i soldi e la tua spocchiosità, io me ne vado!”

Non la rincorsi. Non le urlai nulla in risposta. La osservai andare via, in equilibrio precario sui trampoli argentati. 

Non la vidi più, ma la pensai spesso. E stetti male. Senso di colpa, rimorso… Decidete voi. Non so nemmeno perché vi sto raccontando questa storia. Eppure…

Stasera in TV c’è Pretty Woman, e forse ho capito.

Sheila voleva un lieto fine.

Ma i lieto fine non esistono.

Solo solo polvere, come le stelle morte.

   
 
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