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Autore: cabin13    20/02/2020    3 recensioni
|Second-World-War!AU||KamiJirou|
Kyoka cercava di non concentrarsi mai troppo sulla distanza che li separava. Se ci rifletteva a lungo, sentiva salire prorompente la nostalgia, un senso di malinconia che le serrava la gola e faceva male al cuore. Si accorse che neppure suo marito le scriveva decine e decine di frasi d’amore. Era sempre stato il più romantico tra i due, ma la lontananza rendeva dolorosi i dolci di loro insieme. I “ti amo” da parte di entrambi non mancavano, ma la giovane sospettava che anche a lui causasse tristezza scriverli sulla carta inerte piuttosto che esprimerli a voce.
[Storia partecipante al contest 'In Every Other Universe' indetto da Fiore di Cenere sul forum di EFP]
Genere: Angst, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Kaminari Denki, Kyoka Jiro, Momo Yaoyorozu, Ochako Uraraka
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Scritta per il contest "In every other universe" indetto da Fiore di Cenere sul forum di EFP
Numeri magici/prompt
8: opera d'arte
3: "Abbiamo paura perché teniamo alle cose. Abbiamo paura di perdere le persone perché le amiamo, paura di morire perché diamo valore alla vita. Non augurarti di non avere mai paura di nulla, vorrebbe solo dire che non stai sentendo nulla"
83: una coppia si reincontra dopo essersi separata per cause di forza molto maggiore, dopo aver passato un periodo difficile a causa della separazione. Al momento del reincontro scelta libera se farli tonare insieme o meno

Le spiegazioni su tutti gli eventi/riferimenti un po' specifici sono nelle note dell'autrice, quindi non preoccupatevi se non siete molto ferrati in storia. Tanto anche io metà delle cose che sono qui me le sono dovute trovare su internet per cercare di fare le cose un po' accurate.

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Lontani ma vicini

Eppure, nonostante tutto, solo noi sappiamo essere così lontanamente insieme.
(Julio Cortázar)

Distanza significa così poco quando qualcuno significa così tanto
(Anonimo)

Lui era originario della prefettura di Saitama, ed aveva intrapreso un’odissea fatta di mezzi pubblici assolutamente disfunzionali per arrivare a Tokyo entro la fine del mese. Se lei gli chiedeva come mai si fosse ostinato a diventare matto con tutta quella strada, visto che gli uffici c’erano anche a Omiya*, le veniva sempre risposto così: “Tanto mi avrebbero stanziato a Tokyo lo stesso. E poi venire nella capitale mi ha fatto incontrare te.” La cosa in effetti era vera. Era stata possibile proprio grazie alla leva militare che chiamava alle armi tutti i giovani giapponesi.

Kyoka era con Momo quel giorno e stava consolando l’amica, perché a suo marito Shouto era giunta da poco la comunicazione di trasferimento in Manciuria per la guerra contro i cinesi*. Era febbraio del 1938, allora, e Shouto sarebbe tornato solo due anni più tardi con una gamba in meno e decine di ustioni in più sul corpo, in abbinamento a quella che gli deturpava il lato sinistro del volto sin da quando era piccolo.

Mentre la ragazza abbracciava l’amica fuori dalla caserma dove Todoroki era appena entrato, aveva notato uscire tre giovani reclute. Dovevano avere pressappoco la sua età, non dimostravano più di vent’anni. Quello in centro aveva vivaci capelli rossi sparati in aria, mentre gli altri due erano biondi. Il soldato a sinistra sembrava più un teppista che un vero e proprio militare, con un cipiglio minaccioso e una postura che urlava ai quattro venti “Sono pronto a qualsiasi attacco, fatevi pure sotto!”. L’altro biondo appariva più rilassato e sfoggiava un sorriso a trentadue denti a chiunque incrociasse il suo cammino lì all’ingresso. Emanava un’aura di gentilezza intorno a sé, cosa che con quell’uniforme addosso lo faceva sembrare quasi sbagliato.

Kyoka li aveva seguiti con lo sguardo mentre si avviavano verso il centro della città. Per un fugace istante aveva incrociato le sue pupille con quelle dorate del soldato gentile e un brivido inspiegabile le aveva percorso la schiena.

Lo aveva rivisto quel pomeriggio, solamente poche ore più tardi. Come fosse possibile che, tra centinaia di migliaia di persone, potesse ritrovare per caso nello stesso locale qualcuno che aveva osservato di sfuggita per un paio di secondi, non se ne capacitava pure lei. Insieme a Momo aveva raggiunto le altre ragazze per una passeggiata per le vie della città, con la speranza di sollevare almeno un poco il morale della prima. Era talmente distrutta che, in barba alle rigide regole da signorina di buona famiglia con cui era cresciuta, non si preoccupava nemmeno di nascondere il suo pianto agli estranei.

L’unica che riuscì a consolarla un poco fu Ochaco: non era in una situazione molto diversa dalla corvina. Era innamorata da anni del suo amico Izuku, una zazzera di capelli scuri e una corporatura gracilina, ma alcuni mesi prima aveva scelto di reprimere i suoi sentimenti e lasciarlo partire per il fronte sul Pacifico. Non c’era giorno che non si pentisse di quella decisione e tutto quel rimorso aveva ripercussioni anche sul suo fisico esausto e smagrito. In fin dei conti, quell’uscita al femminile serviva ad aiutare anche lei.

Quando il freddo si era fatto ancora più pungente, di comune accordo avevano optato per un tè bollente in una locanda. Il tavolo a cui erano seduti i tre militari della caserma aveva attirato la sua attenzione per il chiasso dei loro schiamazzi. Era strano che i camerieri non li avessero già cacciati, forse erano intimoriti dalla divisa.

– No, non è possibile! – aveva esclamato Mina a un certo punto. Un sorriso le era spuntato sulle labbra e si era alzata di scatto. – Ma quello è… è proprio Kirishima!

Si era fiondata verso il tavolo dei tre soldati e aveva soffocato in un abbraccio il tizio coi capelli rossi. Era venuto fuori che Eijirou Kirishima aveva frequentato la stessa classe del fratello di Mina ed era un buon amico di lunga data anche della minore degli Ashido. Si erano messi a chiacchierare del più e del meno e nella loro conversazione avevano coinvolto anche i rispettivi amici. Kyoka aveva scoperto che il biondo gentile si chiamava Denki Kaminari, mentre l’altro era Katsuki Bakugou (e che, per non si sa quale ragione, conosceva e ce l’aveva a morte con Izuku).

Con Denki si poteva discorrere di qualsiasi cosa, vista la sua loquacità, e la ragazza si sorprese di come la sua barriera di timidezza si fosse dissipata così in fretta con una persona che aveva incontrato da poche ore. Quando si offrirono di accompagnarle a casa, il sole era sparito dietro l’orizzonte da un bel po’; forse i suoi genitori non l’avrebbero presa molto bene, ma per un pomeriggio così Kyoka pensò che qualche occhiataccia di fuoco e un paio di rimproveri ne sarebbero valsi la pena.

Il gelido inverno lasciò spazio ai ciliegi in fiore, alle gemme che sbocciavano nei parchi e all’annuncio che il Giappone aveva firmato un accordo economico per rafforzare i suoi rapporti con l’alleato italiano*. Le guerre con la Cina e la Russia continuavano all’infinito, voci dicevano che il conflitto era davvero duro e la giovane temeva per la vita di Shouto e Izuku. E per gli effetti che una loro eventuale morte avrebbero potuto avere sulle sue amiche.

Le chiacchierate tra Denki e Kyoka aumentarono via via sempre di più, e cominciarono a vedersi anche senza i rispettivi gruppi. Il biondo aveva cominciato il suo addestramento da recluta a marzo, perciò non era molto  il tempo che poteva trascorrere fuori dalla caserma: le truppe da inviare al fronte non erano mai sufficienti, secondo chi stava al potere. Ma il giovane militare faceva il possibile per passare con la sua amata ogni secondo a disposizione.

Era ormai estate quando si scambiarono il loro primo bacio. Fregandosene delle convezioni e del buon costume, i due ragazzi erano seduti su una panchina nel parco Ueno. La stagione del cosiddetto “hanami” – la tradizione di ammirare i ciliegi fioriti – era terminata da un pezzo, tuttavia Jirou voleva far visitare al biondo uno dei parchi più belli e famosi dell’intera città. E quale occasione era migliore di una giornata soleggiata come quella?

Ueno era un gioiello, uno dei grandi polmoni verdi di Tokyo. Ospitava parecchie strutture adibite alla cultura e alle arti, e a lei piaceva pensare che avessero scelto quel luogo come sede dei principali musei proprio perché il parco era già una bellezza in sé, un’opera d’arte pura e semplice ma non per questo meno magnifica di altre. Quando esternò il pensiero al suo amato, Denki la guardò con il sorriso più radioso e sereno che l’universo avrebbe mai potuto vedere.

– Mi piacciono le opere d’arte pure e semplici – disse, riprendendo le parole di lei. – Proprio per questo sono sempre quelle più magnifiche delle altre. – e poi l’aveva baciata.

Il tocco delle sue labbra su quelle di Jirou era stato gentile e molto, molto dolce. Si era inclinato col busto verso di lei, lentamente per darle tutto il tempo di fermarlo se lei avesse voluto tirarsi indietro. Ma Kyoka non lo fece; al contrario, si sciolse in quel contatto assaporandone ogni singolo istante. Il cuore andava a mille, era come ricevere costanti scariche elettriche attraverso la pelle della mano che Denki teneva tra le sue.

– Sei tu l’opera d’arte – mormorò il ragazzo separandosi dalla bocca di lei.

In tutti quei mesi, la violetta non aveva mai smesso di sorprendersi dell’effetto che quel soldato biondo le faceva. Normalmente si sarebbe messa a ridere – una risata carica di sarcasmo e disillusione – e avrebbe cercato una risposta tagliente per chiudere lì la conversazione e cambiare argomento, dopotutto quello era stato il suo atteggiamento per vent’anni di seguito. Quella volta, invece, avvampò fino alle orecchie e scostò di poco il viso, nella speranza di nascondere il timido sorriso felice che le aveva disteso i lineamenti.

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Kyoka ebbe fortuna. Aveva smesso da un bel po’ di credere che le preghiere al tempio funzionassero sul serio, perciò quella era essenzialmente fortuna. Niente di più.

L’Occidente era nel più completo caos da quando Hitler aveva invaso la Polonia, nel settembre dell’anno precedente, e la situazione si era fatta ancora più disastrata adesso che i quotidiani riportavano la resa della Francia. Le sue colonie erano sguarnite ora che l’autorità centrale era capitolata, si leggeva, e questo voleva dire che l’Impero poteva espandersi laddove aveva sempre avuto intenzione.

La ragazza era cresciuta sin dalla tenera età con questo ideale di espansionismo nazionalista, perciò non ci vedeva nulla di male. Quelle terre erano necessarie alla nazione per prosperare, recitava la propaganda, e lei pensava che fossero meglio sotto il dominio del Sol Levante piuttosto che in mano a quegli avvoltoi americani. La cose che non le piaceva, però, era tutta quella mobilitazione di giovani che nella maggior parte dei casi morivano per la loro patria tra atroci dolori. Carne fresca mandata al macello, aveva detto una volta qualcuno. E i suoi amici arruolati non erano nemmeno i più giovani.

Però, in quel novembre 1940, la buona sorte sembrò averla presa in simpatia, su tutti i fronti. Forse, nonostante l’inferno che era il mondo in quel momento, la vita poteva comunque sorridere a lei e ai suoi amici.

Shouto tornò a casa coperto d’onore, nonostante ci avesse rimesso una gamba aveva realizzato il desiderio suo e di suo padre diventando uno dei combattenti più forti e coraggiosi dell’intera milizia. Momo era scoppiata di gioia quando aveva riabbracciato suo marito, incredula, felice e sconvolta allo stesso tempo.

Izuku era rientrato in patria per la cerimonia di consegna di una medaglia al valore e per formalizzare la sua promozione in grado, avvenuta durante le missioni nel Sud. Aveva ritrovato Ochaco, e destino voleva che i sentimenti della piccola castana erano più che ricambiati: tempo due settimane e i ragazzi avevano avviato un bel giro di scommesse sul “quanto impiegherà Deku per chiederle di sposarlo?”

Katsuki si vedeva con una bionda trasferitasi dalle regioni occidentali del Paese. Era difficile stabilirlo con certezza perché ad ogni domanda rispondeva con un ringhio o una minaccia di morte, ma il sospetto di tutti era che lui e questa misteriosa Camie avessero tutta intenzione di fare coppia fissa.

Eijirou e Mina si erano fidanzati qualche mese dopo Kyoka e Denki. Il loro progetto di convolare a nozze entro la fine dell’anno si avverò quando, poche settimane più tardi, il gruppo di amici – che si era ampliato con Sero Hanta, un corvino alto e smilzo entrato nella divisione dei ragazzi – presenziò ad una cerimonia spartana ma molto toccante.

Per quanto riguardava loro due, Jirou e Kaminari non potevano desiderare di più. Volevano procedere a piccoli passi, insieme. Mentre era stesa nel suo futon abbracciata al ragazzo, i corpi nudi avvolti nelle lenzuola dopo aver fatto l’amore, continuava a pensare a quanto fossero stati tutti fortunati: a differenza di altre centinaia di persone, non si trovavano in stazione, al porto o davanti alla caserma a salutare i loro cari che partivano per il nuovo fronte. Lei e le sue amiche potevano ancora godere del tepore del loro amato accanto a loro, delle sue forti braccia avvolte intorno al loro corpo con fare protettivo.

Il pensiero di condividere da sola quel letto, al freddo, la fece rabbrividire. Senza accorgersene si strinse ancor di più al petto di Denki, una mano a percepire il calore della sua pelle e l’orecchio contro lo sterno ad ascoltare il battito del cuore.

– Ehi, Kyo… – un sussurro assonnato e pigro. Non credeva che il soldato fosse ancora sveglio. – Non riesci a dormire?

– Va… va tutto bene, tranquillo. Dormi, dai. – la frase le uscì più forzata di quanto avesse voluto, difficilmente l’avrebbe convinto.

E infatti il ragazzo non l’ascoltò. Le accarezzò la schiena, seguendo piano quelle curve un po’ acerbe che lui amava tanto mentre con l’altra mano le cinse le spalle e la tirò maggiormente verso di sé. Le passò le dita tra le ciocche violette un po’ arruffate e le depositò un amorevole bacio sulla fronte. – Non tenerti dentro ciò che ti turba, fai solo peggio. Se hai bisogno di me, io sono qui.

Kyoka si accorse di star piangendo solo quando Denki le asciugò le guance col pollice. Un singhiozzo la fece tremare dalla testa ai piedi; non si era mai sentita così vulnerabile e fragile. E non le importava neanche un po’ di aver perso quella maschera scostante e cinica che in vent’anni di vita era stata la sua protezione contro il mondo.

– Ho paura – soffocò un singulto. – Shouto è stato in Cina per due anni e hai visto com’è tornato. Se anche tu partissi, ho paura che ti possa accadere la stessa cosa. O magari di peggio…

– Tranquilla, cercherò di stare attento. – lei non poteva vedere, ma le labbra del ragazzo erano distese in un sorriso un po’ tirato.

– Anche quelli che non tornano più lo dicono, che faranno attenzione. – mormorò, mentre allacciava le braccia intorno al busto del giovane. – Scusa, so che può sembrare stupido, eppure non riesco a fare a meno di preoccuparmi.

Il fidanzato si abbassò verso di lei a darle un bacio sullo zigomo. – Non so se o quando partirò, ma ti posso assicurare che voglio cambiare in meglio, come un guerriero pieno d’onore. – Un altro bacio, stavolta sulla guancia. – Voglio essere il tuo eroe che non ha paura di niente, quello che non scappa di fronte a nessuno pur di difenderti. – Bacio sul naso. – E voglio trasmettere anche a te questo sentimento, per soppiantare l’infida paura. – Le sue labbra incontrarono infine quelle della violetta.

Kyoka non rispose con trasporto al bacio, ancora turbata. – “Abbiamo paura perché teniamo alle cose. Abbiamo paura di perdere le persone perché le amiamo, paura di morire perché diamo valore alla vita. Non augurarti di non avere mai paura di nulla, vorrebbe solo dire che  non stai sentendo nulla”. Mia nonna diceva sempre così, quando parlava con mio nonno e mio padre della guerra contro i russi.

Poggiò la fronte nell’incavo della spalla del biondo e la frase successiva le uscì in un sussurro. – Non voglio un eroe impavido e temerario. Per me tu sei già il mio guerriero così come sei, va bene? Sei quel ragazzo gentile di cui mi sono innamorata, non il feroce combattente che non prova nulla.

Denki rimase a lungo in silenzio, tanto che la violetta credette si fosse riaddormentato. Non si aspettava un bisbiglio così all’improvviso e per questo sobbalzò quando il ragazzo prese a parlare. – Non volevo spaventarti, scusa. – ridacchiò. – Ti amo tanto, Kyo, e sai che ti darei il mondo se solo tu volessi. Io… io ti prometto che farò tutto ciò che posso per non farmi cambiare dalla guerra. Voglio che tu sia felice con me, e non voglio cambiare se questo ti fa stare male!

La baciò un’altra volta. Jirou si abbandonò al contatto; in un certo senso sentiva che la sensazione di angoscia si era attenuata, sebbene non del tutto. Non capiva molto bene neanche lei. Era contenta per le parole di Kaminari e allo stesso tempo la preoccupazione continuava ad incombere su di lei. Quando il ragazzo scese a baciarle il collo, Kyoka mandò tutto al diavolo e, almeno per quella notte, si impose di non pensarci più.

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Passò quasi un altro anno prima che l’universo decidesse che era tutto troppo bello ed era arrivato il momento di andare a rotoli. Nel dicembre 1941 arrivò il comunicato ufficiale che, dopo l’attacco a sorpresa alla baia americana di Pearl Harbor, il Giappone era in guerra contro gli Stati Uniti – da sempre avversari dell’Impero per la conquista del Pacifico –, la Russia e l’Inghilterra. Il nuovo fronte del combattimento era quello vecchio: il Sud-Est del continente.

Izuku dovette ripartire, di nuovo. Le sue truppe erano di stanza in quelle zone, dopo tutto, e adesso che era un ufficiale la sua presenza era ritenuta indispensabile. Lui e Ochaco erano diventati marito e moglie soltanto nella primavera di quell’anno (con somma gioia del vincitore Iida – un loro amico di lunga data che lavorava nel settore amministrativo). Al momento della partenza non lo sapeva nessuno, nemmeno i diretti interessati, che aspettavano un bambino. Deku non lo conobbe mai. Morì sotto il fuoco nemico nel giugno 1942, mentre copriva le spalle ai suoi uomini durante una ritirata strategica. Persino Katsuki rimase sconvolto dalla sua perdita. Ochaco ne fu devastata, ma si risollevò ben presto: non poteva lasciarsi andare, non ora che doveva pensare anche a loro figlio. L’avrebbe fatto per tutti e due.

Il matrimonio di Denki e Kyoka era avvenuto solo un mese prima del tragico evento nella famiglia Midoriya. Ogni qualvolta la violetta ci ripensasse, un’onda di tristezza e senso di colpa la invadeva: loro avevano festeggiato, mentre Izuku passava chissà quali pene dell’inferno.

La loro vita da coppia felice fu effimera, anche dopo il lutto di Izuku. D’altronde, il conto alla rovescia per un comunicato di mobilitazione gravava su di loro sin dal bombardamento nelle Hawaii. E infatti il trasferimento della divisione di Kaminari, Kirishima, Sero e Bakugou giunse a fine anno. La guerra non procedeva bene e serviva tutto il personale disponibile. La comunicazione arrivò anche a reclute entrate in squadra da nemmeno un mese. Il governo necessitava di una quantità sempre maggiore di carne fresca da mandare al macello per rendere gloriosa la nazione, o almeno Kyoka la vedeva così.

Quando osservò la sagoma di suo marito mentre varcava la soglia della caserma, i contorni che si facevano sfocati per via delle copiose lacrime, capì benissimo come si era dovuta sentire Momo in quel febbraio del ’38 che adesso pareva lontano secoli. Era disperata. Non voleva lasciarlo partire, ma non poteva neanche fermarlo, o lo avrebbero accusato di renitenza alla leva e sarebbero finiti entrambi nei guai. Si chiedeva perché tra milioni di soldati avessero dovuto scegliere proprio lui, perché non qualcun altro. Che cosa avrebbe affrontato? Ce l’avrebbe fatta, vero?

C’erano le altre ragazze e i loro amici a consolare lei, Mina, Camie e quella che era la fidanzata di Sero, Setsuna Tokage. Il pensiero che tutte e quattro usavano per darsi forza era che comunque i loro amati non erano da soli: si sarebbero guardati le spalle a vicenda, o almeno avrebbero tentato. Non erano del tutto abbandonati a loro stessi un luogo a loro ostile.

Era una congettura assurda – del resto, che ne sapeva lei di com’era in realtà il fronte a sud? – ma se serviva a non farla sprofondare nella più cupa disperazione, perché convincersi del contrario?

Lei e Denki presero a scambiarsi lettere. Non erano molte, ma compensavano in lunghezza. A volte la ragazza arrivava a scrivere anche quattro o cinque fogli, in una calligrafia fitta e un po’ storta. Erano tante le cose da raccontare. Certo, Kyoka stava sempre attenta a quello che metteva giù: l’autorità militare non permetteva molto di dissentire con le sue decisioni e voci di quartiere dicevano che le lettere in entrata e in uscita dal confine venivano sempre ispezionate.*

Anche il soldato doveva esserne a conoscenza. Non spiegava mai nel dettaglio tutte le vicende di guerriglia. La informava di come stavano gli altri – Eijirou si era ripreso da una ferita alla spalla, Katsuki aveva perso due dita in uno scontro, Hanta era vivo e vegeto – e descriveva l’ambiente esotico delle isole nel Pacifico, aggiungendo a volte qualche disegno stilizzato di animali o piante. La violetta, di rimando, lo aggiornava sulle ultime novità. Ochaco aveva dato alla luce un bel maschietto, Momo e Shouto aspettavano a loro volta ed era probabile che fossero dei gemelli, Tenya aveva conosciuto una matta di nome Mei che voleva diventare un’ingegnera e mandare al diavolo il prepotente patriarcato del mondo scientifico.

Kyoka cercava di non concentrarsi mai troppo sulla distanza che li separava. Se ci rifletteva a lungo, sentiva salire prorompente la nostalgia, un senso di malinconia che le serrava la gola e faceva male al cuore. Si accorse che neppure suo marito le scriveva decine e decine di frasi d’amore. Era sempre stato il più romantico tra i due, ma la lontananza rendeva dolorosi i dolci di loro insieme. I “ti amo” da parte di entrambi non mancavano, ma la giovane sospettava che anche a lui causasse tristezza scriverli sulla carta inerte piuttosto che esprimerli a voce.

Tuttavia, censurare le lettere per nascondere la verità era inutile. Non serviva un genio per intuire che la guerra stesse risultando in una gigantesca catastrofe. L’età di arruolamento si era abbassata ancora. Era orribile osservare dei ragazzini neanche maggiorenni marciare compatti, con un’espressione feroce in volto e un fucile troppo grande per loro in spalla. Dall’anno prima, inoltre, i cittadini erano costretti a rintanarsi sotto terra come topi per sfuggire ai bombardamenti degli USA. La città veniva a poco a poco divorata dal fuoco, macerie ed esplosioni mietevano decine e decine di abitanti innocenti – e ormai non faceva più alcun effetto a nessuno notare dei cadaveri carbonizzati sul ciglio della strada.*

L’Italia aveva abbandonato il Patto Tripartito* e si era schierata al fianco dei nemici americani e russi. I nazisti erano nei guai sul fronte orientale: da quel poco che riportavano giornali e radio, non riuscivano a conquistare una capitale sovietica che Kyoka non aveva mai sentito nominare.

I pareri sul conflitto erano contrastanti: tanti erano stufi e volevano solo che finisse tutto quanto, ma altrettanti si incaponivano nel continuare quella lotta fin quando gli avversari non sarebbero stati annientati. Distrutti, ridotti a zero. Il Giappone avrebbe dovuto tenere nelle sue mani l’intera zona a meridione.

Una mattina le ragazze si erano incontrate a casa di Mina. Vedersi normalmente, come se da un momento all’altro non potesse suonare l’allarme antiaereo, aiutava a mantenere la sanità mentale in quello scheletro grigio e rovinoso che una volta era Tokyo. Era un modo per allontanare il pensiero dai cari impegnati in prima linea. Se non ci fossero state quelle riunioni abitudinarie, molto probabilmente la violetta sarebbe impazzita per il continuo riflettere sugli orrori che Denki stava vivendo lontano. Una vocina maligna le ricordava che lui se la stava affrontando molto peggio delle “sole” bombe al napalm.

Quel giorno, si ritrovarono per caso a sfogliare un quotidiano. Kyoka si sorprese nel leggere la data: 20 luglio 1944. Davvero erano tutti sopravvissuti così a lungo, sia loro in città che i loro amici soldati? Ne era felice, eppure non riusciva a sorridere. L’anno e mezzo trascorso dalla partenza di Denki le sembrava come cinquant’anni. E sentiva che gravavano tutti sulla sua schiena, un macigno immenso che la stava fiaccando, troppo pensante per la sua anima indebolita.

Il macigno la schiacciò irrimediabilmente soltanto sette mesi più tardi. Nella sua vita spezzata non c’era qualcosa di nuovo che potesse rimettere insieme i frammenti e farla rialzare, a differenza di com’era accaduto a Ochaco. Lasciò andare quell’appiglio sul baratro della disperazione, quello con cui si era tenuta coi denti e con le unghie per tutti gli anni precedenti.

– È lei la signora Kaminari Kyoka? – l’ufficiale davanti alla porta d’ingresso aveva un’espressione dura e seria e parlava con un tono altrettanto burbero. La ragazza riuscì solo ad annuire alla domanda.

L’uomo strinse le labbra in una linea fine, in una reazione che lei non riuscì bene a decifrare. Era dispiaciuto oppure quella che provava era solo rabbia? Non le diede il tempo di rifletterci su, perché con un movimento secco – quasi fosse un gesto meccanico che gli dava noia – si piegò in un formale inchino.

– Mi dispiace, signora. Suo marito è stato identificato come uno dei caduti dell’ultimo attacco.

Kyoka non seppe se dopo quella frase aggiunse altro o meno, perché d’improvviso non sentì più nulla. Il sangue le rombò così forte nelle orecchie da coprire ogni altro suono, il cuore accelerò i battiti oltre ogni misura, i contorni di ogni cosa si fecero sfocati e tutto prese a vorticarle intorno. Forse stava inspirando ed espirando con troppa velocità, ma i polmoni non assorbivano abbastanza ossigeno e lei si sentiva soffocare.

Non ricordò nemmeno cosa disse al militare per congedarlo, probabile che non avesse spiccicato parola e gli avesse direttamente chiuso la porta in faccia. Quando riacquistò consapevolezza di se stessa, era già seduta sul pavimento, la schiena contro il legno dell’uscio, a piangere e gridare senza freni. Forse il soldato bussò di nuovo e la chiamò preoccupato, ma Kyoka non se ne rese neanche conto. Voleva starsene da sola con il suo dolore  e basta.

Pianse fino a non avere più lacrime. Pianse giorno e notte, riversando in quelle piccole goccioline salate tutto il suo strazio, il suo odio verso quella maledetta guerra, verso quelli che si ostinavano a continuarla, verso di sé perché aveva lasciato partire Denki, verso Denki perché l’aveva abbandonata nonostante le sue promesse. Quando smise di piangere, lì dove prima c’era il suo cuore ferito rimase solo un guscio vuoto.

Sarebbe rimasta lì rannicchiata alla mercé delle bombe americane se Momo e Tenya non fossero entrati di prepotenza in casa e l’avessero trascinata di corsa in uno dei rifugi. Iida la trasportò come si porta in giro una bambola; qualcosa di piccolo e leggero ed estremamente fragile, ma privo di vita. Non si preoccupò nemmeno delle crepe che scheggiarono le pareti o della polvere che cadde dal soffitto ogni volta che un ordigno colpiva il suolo nei pressi del loro nascondiglio. Non badò ai sussurri terrorizzati dei suoi amici e ai loro commenti sullo sbarco americano nell’isola di Iwo Jima*. Non si curò di quelli che dicevano che la guerra poteva essere ancora vinta, in fondo le forze del Sol Levante si stavano opponendo agli invasori fino all’ultimo uomo.

A Kyoka non interessava. Per lei la guerra era già stata persa quando quell’ufficiale si era inchinato davanti a lei e le aveva annunciato che Denki era morto.

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Di norma, quasi nessuno dei caduti veniva sepolto in patria, a meno che non si trattasse di qualche importante gerarca. Durante una guerra era impensabile impiegare fondi e mezzi preziosi per far tornare indietro decine di feretri in un’operazione che non avrebbe portato alcun vantaggio sul nemico. Kyoka ricordava i racconti di Shouto sulle fosse comuni in Manciuria: rispettavano la tradizione di collocare i morti in un luogo elevato tipo una collina, ma si trattava comunque di un buco in cui la cenere si mischiava ad altra cenere e nessuno conservava il proprio nome.*

Denki aveva evitato questo destino. Stando a quanto Eijirou aveva scritto in una lettera a Mina, Bakugou aveva convinto uno degli alti comandanti che gli doveva la vita o qualcosa del genere. Non era stato molto chiaro, ma sembrava che quel tizio avesse portato a casa la pelle più di una volta solo con l’aiuto di Katsuki e fosse in debito con lui.

Per la situazione disastrata in cui versava il Paese, le ceneri di suo marito avevano impiegato mesi per tornare dall’Indocina all’isola di Honshu. La tomba della famiglia Kaminari* era situata nella loro città d’origine, Omiya, e sarebbe stato sepolto senza il comune rito buddista – pochi ormai se lo potevano permettere e comunque il corpo era già stato cremato, saltando le prime due fasi. Per quanto gli altri la stessero scoraggiando ad intraprendere un viaggio così rischioso, Kyoka era determinata a recarvisi e dire addio al suo amato per l’ultima volta. Quando si congedò dagli amici di una vita, i saluti sembravano avere un che di definitivo, quasi li stesse lasciando per andare anche lei al fronte.

Anche se ormai recarsi in prima linea equivaleva a “cadavere”: l’esercito era disperato, incapace di fermare le navi e i caccia americani che si avvicinavano sempre di più alla capitale. In primavera le truppe nemiche erano sbarcate a Okinawa* e nel giro di qualche mese le forze giapponesi erano state sconfitte, al prezzo di centinaia di migliaia di vite.

Per via traverse, la giovane era riuscita a rimediare un passaggio da un furgoncino carico di profughi diretti che facevano tappa nel quartiere di Shibuya, da pochi anni sotto l’amministrazione metropolitana di Tokyo.* Lì spese due giorni a negoziare un posto sul carretto sgangherato di un disperato che sperava di racimolare qualche yen a Kawaguchi, nella prefettura di Saitama, vendendo della roba assolutamente inutile. Non ebbe cuore di farglielo notare; negli occhi aveva la stessa espressione distrutta e vuota che le restituiva il suo riflesso quando Kyoka si guardava allo specchio.

Non ci arrivarono mai, al confine della prefettura. Non uscirono nemmeno dall’area metropolitana di Tokyo. La sirena antiaerea li avvertì troppo tardi, ormai non c’era più tempo per cercare riparo. La prima bomba fece saltare il terreno, detriti di asfalto schizzarono in tutte le direzioni e sfrecciarono come razzi ad un centimetro dal volto della ragazza. Un altro ordigno investì un edificio lontano, sventrandolo. Le orecchie di Kyoka prima divennero sorde e poi furono invase da un fischio acuto che sembrava perforarle il cervello.

Era smontata dal carro e aveva iniziato a correre senza meta, il suo compagno di viaggio sparito chissà dove. Ma non poteva preoccuparsi di lui e della propria vita nello stesso momento, non in mezzo a quell’inferno di fuoco. Sembrava che la pelle fosse sul punto di liquefarsi per il calore che l’avvolgeva. Era difficile anche solo pensare.

Si accorse dei detriti quando l’ombra incombeva su di lei. La facciata di un palazzo si era disintegrata e le pietre precipitavano verso di lei, troppo veloci per essere evitate, troppo grandi perché lei potesse sperare di sollevare o strisciare sotto le lastre.

In un battito di ciglia, la violetta era stesa con la pancia contro il pavimento. La testa pulsava e qualcosa di appiccicoso e rossastro le offuscava la vista. Le doleva il busto, fitte lancinanti le trafiggevano le ossa e minacciavano di farle perdere conoscenza; non sapeva se fosse preoccupante o meno che da metà schiena in poi non sentisse praticamente niente. I listoni dovevano averla spiaccicata per benino e ringraziò il cielo di non poter ruotare il corpo per vedere in che stato era.

Stava diventando sempre più debole. Anche gli scoppi delle bombe e i rombi dei caccia nel cielo giungevano alle sue orecchie come sussurri. Tutto stava scivolando via.

– Kyoka!

Quella voce. Da quanti anni immaginava di udire quella voce mentre leggeva con trepidazione tutte le lettere che lui le recapitava! Quanto aveva sognato di poterla ascoltare di nuovo dal vivo! E adesso la sentiva nitidamente, come se lui fosse proprio lì accanto a lei e con le sue mere parole potesse sovrastare il caos del bombardamento.

– Kyoka, quanto mi sei mancata. Solo il cielo sa quanto io abbia desiderato poterti riabbracciare!

Le pupille annebbiate della ragazza lo videro. Era inginocchiato davanti a lei, con ancora indosso l’uniforme da soldato pulita e stirata e quelle ciocche dorate tutte scompigliate con cui la violetta si divertiva a giocherellare quando si stendevano a letto prima di dormire. Le stava sorridendo, incoraggiante, quel sorriso gentile che lei amava tanto.

– Denki…

Era lì. Era lì accanto a lei, vivo come non mai. Non mostrava alcun segno di affaticamento, sembrava che non fosse mai sceso in campo a combattere.

Ma Denki è morto. È morto a inizio anno.

“No!” pensò Kyoka con un urlo. Voleva che quella vocina maligna se ne stesse zitta per sempre. Non le interessava che magari non seguisse la logica o cose simili, le importava soltanto che il suo amato fosse lì con lei. Sporadiche lacrime le inumidirono il viso, mentre sentiva qualcosa sciogliersi all’altezza del petto e si sentiva invadere da una sensazione di leggerezza. Il dolore covato in tutti quei mesi, l’angoscia maturata negli anni, lasciò andare tutto.

– Vieni con me. – Denki protese il palmo verso di lei in un gesto d’invito.

Kyoka tentò di afferrare le dita del ragazzo, ma riuscì a malapena a sollevare i polpastrelli prima di digrignare i denti dal dolore per la fitta che le attraversò il braccio. Il ragazzo le prese la mano nella propria, e alla giovane mancò un battito. La pelle era liscia e calda, così vera a contatto con lei.

– Non… non andrai più via? – soffocò un singhiozzo. – Non devi partire più? Vero?

– Non vado più da nessuna parte, te lo giuro. Staremo insieme per sempre.

– Insieme per sempre – ripeté lei con un filo di voce. E, con l’ultimo briciolo di forza rimastale, ricambiò la stretta del ragazzo sulla sua mano, mentre le palpebre stanche si richiudevano sui suoi occhi per l’ultima volta.

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Quando riacquistò il senso della vista, era ancora nella strada di Shibuya in mezzo al bombardamento, ma si reggeva sulle proprie gambe ed era mano nella mano con la persona più importante del suo universo. Non si voltò indietro, dove giaceva il suo corpo sepolto dalle macerie. Tenne lo sguardo fisso sulle pupille dorate di Denki e si alzò in punta di piedi per incastrare le proprie labbra con quelle del ragazzo, assaporando ogni singola sensazione che quel gesto le dava.

C’era una luce sfavillante davanti a loro, una fonte luminosa che faceva apparire sfocata la città in rovina. Kyoka non sapeva di preciso cosa fosse; nella sua mente lo ribattezzò il “dopo”. Quello che avveniva dopo la vita terrena, il più grande mistero per l’umanità.

Insieme, lei e Denki si incamminarono verso la luce, pronti a scoprire cosa avrebbe riservato loro il “dopo”.

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Momo osservava la tomba della famiglia Kaminari con espressione indecifrabile, mentre vicino a lei Shouto, appoggiato alla sua stampella, teneva per mano loro figlio. L’altro bambino, suo gemello, era sostenuto dalle braccia amorevoli della donna. Intorno ai Todoroki erano presenti tutti i loro amici: Eijirou e Mina, in dolce attesa, Camie e Katsuki – che oltre alle dita aveva perso anche l’occhio destro –, Iida e Mei, Sero e Setsuna, Ochaco e il suo bambino – una copia sputata del padre che non avrebbe mai incontrato, a Momo ogni tanto si stringeva il cuore per quanto quel piccolo assomigliava davvero a Izuku.

Anche se la guerra era terminata da anni, le ferite che laceravano il Paese e i cuori delle persone avrebbero impiegato molto tempo per guarire del tutto. E alcune non sarebbero mai andate via completamente, scolpite nella memoria di ognuno. Loro non volevano conservare solo gli avvenimenti negativi; c’era anche il ricordo felice degli amici che ormai non c’erano più.

Le incisioni sulla lastra di marmo lucido e levigato ricordavano i padri e le madri della famiglia di Omiya, i loro discendenti e le loro spose. Le ultime due iscrizioni erano il motivo della loro visita, il motivo per cui avrebbero sempre continuato a ricordare.

            Kaminari Denki          Kaminari (Jirou) Kyoka

06/29/1919                      08/01/1919
01/15/1945                      08/03/1945

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*La città di Saitama ho scoperto da Wikipedia che è stata creata nel 2001 unendo singoli comuni come Omiya e Urawa. Non ho idea se la prefettura negli anni '40 si chiamasse Saitama anche se la città non esisteva, quindi ho tenuto il nome che tutti conoscono e vabbé. Shibuya invece è uno dei 23 quartieri speciali di Tokyo che nel '43 vennero unificati in un'unica area metropolitana, senza distinzioni tra la capitale e le altre città della prefettura

*La seconda guerra sino-giapponese venne combattuta tra Cina e Russia contro il Giappone (più lo stato fantoccio del Manchuko) proprio per prendere controllo del territorio cinese e iniziò nel 1937 e finì nel 1945

*Un semplice trattato economico del 1938 per potenziare gli scambi tra l'Impero giapponese e l'Italia fascista. Il Patto Tripartito era l'alleanza tra Germania, Italia e Giappone; era detta anche Asse Roma-Berlino- Tokyo (oppure "Roberto"... no, non sto scherzando)

*Avevo sentito dire che nella Grande Guerra le autorità controllavano e a volte censuravano le lettere che i soldati inviavano alle famiglie. Non so se succedesse davvero anche in Asia e soprattutto durante la Seconda Guerra Mondiale, ma il Giappone era uno Stato molto autoritario e militarizzato, come i regimi fascista e nazista che censuravano libri e giornali, e quindi ho pensato che magari anche i nipponici potessero applicare un metodo simile

*Dal '42 al '45 gli USA bombardarono sistematicamente le principali città giapponesi, usando anche il materiale incendiario napalm che riprenderanno per il Vietnam (se andate su Wikipedia e cercate "bombardamenti Giappone ww2" vi esce fuori una foto dell'epoca con una siiimpatica foto di cadaveri)

*Le battaglie di Iwo Jima (isoletta a 1000 km da Tokyo) e Okinawa nel 1945 combattute tra giapponesi e americani e vinte entrambe dagli USA. La battaglia di Okinawa soprattutto contò centinaia di migliaia di morti giapponesie fu un conflitto molto sanguinoso - anche per i piloti kamikaze

*Nella tradizione giapponese il funerale buddista consiste in tre fasi (l'ultima è la cremazione) ed è anche parecchio costoso, e i defunti vengono spesso sepolti nelle tombe di famiglia. Tradizione è collocare le spoglie in un luogo elevato perché c'è la credenza che aiuti il morto a distaccarsi dal mondo dei vivi. Inviare ogni singolo corpo in madrepatria per l'appropriata cerimonia  sarebbe stato un costo esorbitante e il Giappone verso il '45 non se la passava tanto bene per via di soldi, quindi presumo che si siano inventati qualcosa per occuparsi dei corpi.


Hola gente
Mado, le spiegazioni sono quasi più lunghe della storia tra un po' ma è che sono diventata matta a fare ricerche su internet nel tentativo di rendere più realistica l'ambientazione del racconto, perché è una caratteristica a cui tengo molto quando scrivo.
La storia dei bambini sempre più piccoli arruolati nell'esercito non me la sono inventata: all'esercito servivano sempre più uomini da inviare come combattenti o come piloti kamikaze e nel '45 arrivarono ad abbassare l'età di arruolamento fino a 14 anni per i maschi e 16 anni per le femmine.
Che altro dire? Ah sì. Forse la parte sul "lottare con onore e rendere la nazione gloriosa fino all'ulitmo" anche se il conflitto sta andando allo scatafascio vi può suonare un po' assurda, ma ho cercato di immedesimarmi il più possibile in quelle persone che sin dagli anni '20/'30 sono state abituate a questo ideale dallo Stato, specie quelli che con questo ci sono cresciuti, tipo Shouto (che per i meriti riconosciutigli si sente un guerriero pieno d'onore anche se ha perso la gamba) o gli altri soldati o anche gran parte dei cittadini.
Sono un po' esaurita perché ho iniziato ad imbastire questa cosa soltanto ieri (ancora non mi capacito di come sia riuscita a terminarla e a farla venire così lunga, è un record) quindi cercherò di essere spiccia. Rincoglionimento mio a parte, però, scrivere questa storia è stato parecchio divertente.
Sero e Setsuna sono una ship assolutamente crack, non si sono nemmeno mai parlati se non tipo una volta nel manga (forse). Ma su AO3 ho letto qualche storia su di loro e mi sono piaciuti quindi mi sono detta "why not" e allora eccoli qui. Non linciatemi se a voi fanno cagare, pretty please.
Adesso speriamo che l'html non si inventi di farmene una delle sue, in tal caso a) sentirete il mio urlo adirato non importa in quale angolo di mondo voi vi troviate; b) ho paura che purtroppo ci impiegherò un po' a sistemare eventuali bug.
Ringrazio se siete arrivati fin qui, chi recensirà e anche chi leggerà e basta
Alla prossima gente
Adios

   
 
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