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Autore: Saelde_und_Ehre    24/02/2020    4 recensioni
Fronte Orientale, inverno 1942.
L'esercito tedesco è intrappolato nell'inferno ghiacciato di Stalingrado, accerchiato e ridotto alla fame, mentre il gelo miete più vittime dei proiettili.
Due ufficiali della Wehrmacht, provati da mille difficoltà ma per nulla intenzionati ad arrendersi, decidono di unire le loro forze per proseguire l'avanzata verso la città, ma tra loro si instaura un legame più forte della rovina incombente.
Una storia d'amore, di guerra e di morte.
Genere: Angst, Guerra, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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Ecco un altro capitolo della storiella.
Ringrazio come sempre coloro che sono passati e soprattutto chi mi ha lasciato un commento.

Per la storia valgono le premesse di sempre.
A un certo punto ci sarà anche la descrizione di un rapporto omoerotico, non troppo spinta, ma se non vi va di leggerla potete anche saltarla.

 
Buona lettura.
 
 

IV.
 
Lo sferragliare dei cingoli e il rombo dei motori riempiono l’aria di una cacofonia assordante, al di sotto della quale gli ordini dei comandanti sono a malapena udibili.
Attraverso le lenti del binocolo, il maggiore Richter vede le sagome massicce dei T-34 che spiccano sul bianco della neve. Procedono allineati per risalire il sentiero, lasciandosi dietro lunghe scie di fango ghiacciato. Appollaiati sui cingoli ci sono dei soldati appiedati.
L’ufficiale aggrotta le sopracciglia e si rivolge a Schwerin: “Forse sono gli stessi carri che l’alto comando sovietico ha mandato a intercettare i rinforzi delle nostre divisioni corazzate. Sicuramente non si aspettano di trovare della fanteria appostata proprio qui.”
L’altro sogghigna. “Bene, allora ci penseremo noi a rallentarli.”
“Ricomincia la tempesta d’acciaio... se non altro, in guerra non ci si annoia mai!” commenta Jünger in tono vagamente ironico.
“Li aspettiamo qui, signor maggiore?” chiede Sajer.
Hermann annuisce. “Preparare armi anticarro individuali!” ordina poi.
Schwerin scrive qualcosa su un foglio e lo affida al comandante del plotone artiglieria campale; gli ufficiali si disperdono di nuovo. “Mi raccomando, tenere la posizione a tutti i costi!”
“Sì, signor maggiore!”
“Saremo noi ad aprire il fuoco, sfruttando l’effetto sorpresa. Tenersi pronti e ai propri posti.”
“Sissignore!”
Frattanto, i carri continuano ad avvicinarsi avvolti da una nube di fumo grigio; il loro rumore si fa sempre più vicino e più presente. Al segnale di Schwerin, in sincronia perfetta, PAK e mortai entrano in azione simulando una sorta di fuoco di sbarramento.
La fanteria sovietica si rintana nelle fosse e i tedeschi ricaricano i fucili.
Un obice impatta contro un muro, proiettando frammenti di schegge e calcinacci tutt’intorno. Si sente un’imprecazione, qualcuno che tossisce, poi due fanti strisciano via facendo leva sui gomiti, con le uniformi sporche di polvere bianca. Uno sistema la mitragliatrice qualche metro più indietro, reinserisce rapidamente il nastro mentre l’altro riprende a sparare.
Ovunque riecheggiano tonfi e scoppi, i carri armati si aggirano per le strade ghiacciate come belve alla ricerca di prede. Già un paio, colpiti dall’artiglieria anticarro, riparano in copertura spargendo gasolio rovente per terra. Il relitto fumante di un terzo giace in mezzo alla strada col fianco squarciato da una cannonata, offrendo un rifugio improvvisato per i fanti sovietici.
Le rovine del villaggio sono avvolte da una caligine densa e torrida, che fa sciogliere la neve e riduce la visibilità; l’odore della polvere da sparo misto a quello dell’olio bruciato s’insinua con prepotenza nelle narici.
Nascosto tra le macerie, il maggiore Richter imbraccia un Panzerfaust e prende di mira il più avanzato dei T-34. Il carro arranca goffamente sulla strada dissestata, ripara il fianco vulnerabile dietro la protezione di un muro crollato e brandeggia il cannone alla ricerca di un obiettivo.
Colpito in pieno, il carro sussulta e viene investito dal lampo giallo di un’esplosione. Dal motore si levano minacciose lingue di fiamma e l’olio si sparge per terra, alimentando l’incendio.
Segue un breve istante d’immobilità, poi gli uomini dell’equipaggio spalancano il portello della torretta e abbandonano di corsa il mezzo.
“Questo abbattimento è suo!” esclama Schwerin, battendogli una pacca sulla spalla.
Hermann non fa in tempo a rispondergli che si ode un nuovo, secco boato; una porzione di muro crolla e qualcuno grida. Un altro blindato compare all’imboccatura della strada: le mitragliatrici sferzano con rabbia le postazioni dei tedeschi e il cannone spara un proiettile in direzione dei due ufficiali. “Giù!” Richter si sente afferrare per la collottola dal compagno, mentre un paio di braccia lo spingono faccia a terra. L’ordigno impatta a pochi metri da loro, sollevando una nube di fumo e pietrisco che piove loro addosso. Come stordito, l’ufficiale rimane con la guancia affondata nell’incavo del braccio, il peso del corpo di Eugen contro il suo: ne percepisce chiaramente il calore e un leggero brivido gli percorre le membra. “Schwerin?” Si tira su a fatica, senza far caso al sangue che gli scorre lungo il palmo della mano, imbrattando il guanto. “Schwerin, sta bene?”
L’altro tossisce, lo fissa attraverso occhi arrossati dal fumo. “Sì. E lei, Richter?”
“Va tutto bene.” Hermann gli porge un fazzoletto, poi lo prende per un braccio e lo aiuta a rialzarsi. “Spostiamoci da qui, siamo troppo esposti.”
Sgattaiolano dietro un muro inseguiti da una bordata di proiettili, appena in tempo prima che una seconda cannonata si abbatta proprio nel punto in cui si erano appiattiti.
 
La luce del tramonto tinge d’oro le rovine imbiancate, ma qualcosa altera la silenziosa poesia di quello scenario: le strade del villaggio sono ostruite da pezzi di ferraglia carbonizzata e cadaveri, il cui esercito di appartenenza si riconosce soltanto dal colore delle uniformi; i Landser vi si aggirano furtivi alla ricerca dei superstiti, rigorosamente a gruppi di due o tre, i fucili in spalla. Di tanto in tanto si ode l’eco secca di uno sparo, seguita dagli ultimi lamenti di agonia di un ferito.
Seduti su un mucchietto di mattoni, il maggiore Schwerin e il maggiore Richter ascoltano i rapporti dei loro subalterni.
“Anche il sergente Wiederbeck è rimasto gravemente ferito...” riferisce un tenente.
Schwerin annuisce grave. “E il capitano Busch?”
“Qui, signore!” Un giovanotto sui ventitré anni balza fuori da una buca agitando la mano; ha il volto sporco di fuliggine e l’uniforme strappata in vari punti.
Jünger e Sajer arrivano sostenendo Halls, un braccio a testa intorno alle spalle: il tenente cammina zoppicando e ha una grossa chiazza di sangue sui pantaloni, ma alla vista del maggiore Richter accenna un sorriso stanco. I due commilitoni lo aiutano a sedersi su un sacco di sabbia e riferiscono che il giovane si è beccato una scheggia di granata nella coscia.
Hermann li osserva tutti, a uno a uno: tra gli ufficiali riuniti sotto quelle nuvole plumbee non ce n’è uno che arrivi a trent’anni, ma le facce sono quelle di gente consapevole delle proprie responsabilità. Forse è proprio lui, che di anni ne ha appena ventinove, il più vecchio, e i suoi subalterni guardano a lui come a un giovane padre.
“Attacco aereo!” Voci allarmate iniziano a gridare, prima ancora che il ronzio dei motori e le raffiche di mitragliatrice facciano tremare l’aria.
Richter solleva il binocolo e riconosce le larghe ali degli Sturmovik che si stagliano contro il cielo arancione del tramonto. Volano bassi, tempestando di traccianti qualche colonna corazzata tedesca.
“Tutti a terra!” Gli ufficiali non se lo fanno ripetere due volte: strisciano nei buchi come talpe prima che gli aerei passino a volo radente sopra le loro teste, sperando che i piloti non si accorgano della loro presenza. Sono così vicini che riescono a distinguere chiaramente la stella rossa sulle ali.
Hermann si ritrova di nuovo spalla contro spalla con Schwerin, che con sguardo assorto fissa le sagome nere che si allontanano.
Trascorre un istante inquantificabile, mentre il rumore gradualmente scema.
“Ci sono altri aerei!” annuncia Jünger, che ha arrischiato la testa e il binocolo fuori dal suo nascondiglio. “Sono i ragazzi della Luftwaffe,” aggiunge poi, con un sospiro di sollievo.
Gli ufficiali si rilassano, qualcuno sporge fuori la testa: nove Messerschmitt sorvolano il villaggio in formazione compatta, lanciandosi all’inseguimento degli assaltatori russi.
Un urlo liberatorio esce dalle gole dei soldati stanchi, qualcuno agita le mani in segno di saluto. “Viva la Luftwaffe!”
Schwerin, la testa appoggiata al muro, sospira. “Mi manca volare,” dice, come parlando tra sé e sé. “Viel schwarze Vögel ziehen hoch über Land und Meer, und wo sie erscheinen da fliehen die Feinde von ihnen her. Sie lassen jäh sich fallen vom Himmel tiefbodenwärts...[*]”
Richter rimane ad ascoltarlo mentre canta e non può fare a meno di notare che, nonostante il tono basso, la sua voce calda e profonda risulta estremamente gradevole al suo orecchio. Si chiede come abbia fatto un bombardiere di picchiata a ritrovarsi in fanteria, ad affondare nel fango con le ginocchia mentre intorno a lui fischiano i proiettili, ma preferisce non fare domande.
 
 
Intorno alla marmitta dell’accampamento, i soldati sgomitano e si contendono la precedenza per ricevere il rancio.
Una gavetta colma di piselli con lo speck è la loro retribuzione dopo una giornata di fatiche, il calore dei fuochi ritempra le membra intorpidite dal freddo e i ragazzi delle Waffen-SS inviati dalla Germania hanno portato birra e sigarette, che condividono coi camerati dell’esercito.
“Ho scritto più poesie in questi tre mesi che in ventisei anni della mia vita!” proclama il capitano Jünger, soffiando un’ampia boccata di fumo.
Un ufficiale del battaglione di Schwerin scoppia a ridere. “Quando sarà un poeta famoso, capitano, pretendiamo di essere citati tra i ringraziamenti!”
“Io voglio la dedica!” si sbraccia Halls, la gamba ferita appoggiata su uno sgabello. “Deve menzionarmi insieme al buon vecchio diavolo di Neubach, per tutte le volte che ce le ha fatte leggere e ci ha chiesto un parere.”
Jünger si schermisce. “Non mi sembrava che vi dispiacesse.”
“No, per nulla, signor capitano.” Halls scuote bonariamente la testa. “Adesso anche Sajer si è messo in testa di scrivere: dice che sono le sue memorie, ma io credo che mandi lettere d’amore alla sua fidanzata!”
Jünger posa una mano sul braccio dell’interpellato con un gesto quasi paterno. “Suvvia, lasciatelo stare. Anche noi abbiamo avuto vent’anni, e nemmeno troppo tempo fa.”
“E il signor maggiore!” Sajer ignora entrambi e indica Richter, che assiste senza prender parte alla conversazione. “Lei avrà una menzione d’onore nel mio libro di memorie!”
“Grazie, tenente,” risponde sobriamente l’ufficiale. La massiccia controffensiva tedesca ha messo di buonumore tutti quanti, e adesso cinque Panzer fanno la guardia all’ingresso delle barricate, con la corazzatura lucida e la Balkenkreuz ridipinta di fresco.
“Nonostante tutto, la bandiera con la svastica continua a sventolare sulla Piazza Rossa di Stalingrado,” osserva il maggiore Schwerin, andandosi a sedere accanto al suo parigrado con una gamella fumante sotto il naso.
Richter accenna un leggero sorriso. “Se andiamo avanti di questo passo, raggiungeremo presto la Sesta Armata.” I suoi occhi cadono su un gruppo di soldati austriaci che canta Prinz Eugen mentre un sottufficiale delle Waffen-SS suona la fisarmonica. Li indica con un cenno del capo. “Principe Eugen, il nobile cavaliere...”
Schwerin ride e i suoi occhi si accendono di un brillio divertito. “Che tu ci creda o no, io sono stato chiamato così proprio in suo onore: sono un suo discendente da parte di madre. È di buon auspicio, considerato le sconfitte che il buon principe ha inflitto ai turchi.” Segue una breve pausa; Hermann annuisce pacato. “Sei mai stato in Prussia Orientale?”
Richter alza la testa, si stupisce quasi di quella domanda. “Ci sono passato una volta, col treno, mentre venivo in Russia.”
“Dovresti venire da me un giorno, sono sicuro che ti piacerebbe,” gli dice l’altro. “Ti ospito nella mia tenuta, se ti va. Organizziamo una battuta di caccia al cervo e ci beviamo qualcosa.”
Hermann tentenna appena, ma la risposta giunge prima ancora che il cervello possa dettargliela: “Oh, certo... volentieri.” Non sa cosa aspettarsi da quell’incontro, se mai esso avrà luogo, ma lo interpreta come qualcosa d’ineluttabile.
Si scambiano uno sguardo fugace, quasi di sfuggita, e tutti i clamori paiono quietarsi.
Ridestati dalla voce di un tenente, vengono strappati a quel sogno con l’impressione che quelle parole abbiano innescato un processo irreversibile.
Tuttavia lo accettano serenamente, come il fato di un guerriero.
 
 
La trincea trema e sobbalza, scossa dai colpi incessanti dell’artiglieria nemica. Man mano che ci si avvicina alle prime linee, il frastuono si fa sempre più assordante. Gli hurra dei russi, che si gettano sui nemici senza risparmio di vite, il crepitare delle raffiche e i tuoni delle esplosioni rimbombano in uno scenario rischiarato da focolai d’incendio, simile a una bolgia infernale.
Il maggiore Schwerin si scrolla una nuvola di polvere bianca di dosso: la sua uniforme è logora, brandelli di stoffa grigioverde pendono dai gomiti e dalle ginocchia. Con la coda dell’occhio riesce a scorgere Richter a poca distanza, mentre trasmette gli ordini a tre ufficiali e un sergente.
Fa per chiamarlo, ma un nuovo boato rispedisce tutti quanti a terra. Un obice si schianta contro il fianco del crinale ed esplode, eruttando fiamme, schegge, neve sciolta e detriti.
Schwerin crolla all’indietro; un dolore lancinante gli trafigge la gamba. Digrigna i denti con la sensazione che qualcuno gli abbia conficcato a forza un chiodo nella carne, cercando di resistere all’impulso di gridare. Qualcuno chiama il suo cognome: è una voce familiare, la voce di Hermann. D’istinto alza la testa, lo cerca nella calca.
Attraverso la vista annebbiata, lo intravede mentre si rialza barcollando: ha un taglio sulla guancia e una mano insanguinata.
“Schwerin!”
Eugen si tira a sedere con un grugnito e agita una mano; deve fare uno sforzo per non chiamarlo per nome davanti a tutti. Mentre l’altro si avvicina, abbassa gli occhi sulla parte offesa: copiosi fiotti di sangue sgorgano fuori da un taglio e gli irrorano la stoffa dei pantaloni.
Richter si china di fronte a lui. Si ripulisce la mano strofinandola contro i pantaloni e gliela porge, fissandolo con sguardo colmo di apprensione. “Ce la fai ad alzarti?”
Schwerin si mordicchia il labbro. “Una scheggia... ci vuole un pacchetto di medicazione.”
“Portaferiti!” grida l’altro, per poi lasciare che gli passi un braccio intorno alle spalle. Di nuovo abbassa la voce: “Vieni, appoggiati a me.”
Schwerin tenta di tirarsi su, ma una fitta alla gamba gli offusca la vista. Senza pensarci, con un gesto goffo si aggrappa al commilitone, che si irrigidisce soffocando tra i denti un sibilo di dolore.
“Scusami,” mormora, puntellandosi sulla gamba sana per non gravare su di lui. Continua a sentire il sangue che gli ruscella sulla pelle, inondando gli stivali.
“Non ti preoccupare.” Richter distorce i lineamenti in una smorfia, tuttavia cerca come può di aiutarlo a camminare. “Mi sono fatto male alla spalla, credo. Ma non è nulla.”
Si allontanano sostenendosi l’un l’altro, diretti verso il posto di medicazione.
Esausto e indebolito dalla perdita di sangue, Schwerin si abbandona su un ridotto e stende la gamba ferita, tamponandola con un pezzo di stoffa per rallentare l’emorragia.
Le immagini sfarfallano senza posa davanti ai suoi occhi, il fragore della battaglia gli rimbomba nelle tempie, ma la presenza di Hermann lo aiuta a mantenersi lucido.
 
 
Rimandati in Germania per una breve convalescenza, i due ufficiali hanno trovato posto sull’ultimo treno diretto a un centro di smistamento. Hanno preso posto in una carrozza completamente deserta, coi sedili consunti e i finestrini rotti in cui s’insinuano spifferi di vento.
“Non pensavo che ci avrebbero davvero concesso una settimana di licenza proprio sotto Natale,” commenta Schwerin, guardando il paesaggio imbiancato che gli scorre davanti agli occhi. La luce della luna gli conferisce una luminescenza spettrale, quasi si trattasse di un deserto di ghiaccio.
Richter sospira. “È più il tempo che ci vuole per fare andata e ritorno dalla Turingia in treno che quello che ho a disposizione per questa licenza.”
Schwerin annuisce. Ha ben presenti i chilometri che li separano dalla Germania e le variabili che potrebbero disturbare il viaggio: controlli della feldgendarmeria, bombardamenti, deviazioni inaspettate, assalti dei partigiani, binari divelti dalle mine...
Con un movimento reso leggermente impacciato dal dolore alla spalla, anche Richter si volta verso di lui. Adesso i loro volti sono così vicini che Eugen sente il battito del proprio cuore accelerare. Si rende conto di aver già da tempo varcato una soglia oltre la quale sarà difficile tornare indietro. “Ricordati la proposta dell’altro giorno...”
Hermann copre la sua mano con la propria senza dire niente, come a suggellare la promessa. Le dita s’intrecciano saldamente e Eugen abbandona la nuca contro il sedile, mentre il treno procede sferragliando nella notte ucraina. Presto arriveranno in Prussia Orientale, a casa sua.
 
 
Uno sparo secco squarcia il silenzio, facendo frusciare i rami degli alberi. Uno stormo d’uccelli si leva in volo spaventato e nell’aria si diffonde un cupo bramito.
Hermann esce fuori dal suo nascondiglio tra i cespugli e si lascia scivolare il fucile sulla spalla. “L’ho preso,” annuncia, in tono tranquillo. Senza attendere una conferma da parte dell’amico, si allontana e i suoi stivali militari affondano nella neve mentre si avventura alla ricerca di una fronda d’abete.
Eugen abbassa il binocolo e annuisce. “L’ho notato. Non mi hai dato neanche il tempo di inserire la cartuccia...”
“Hai seguito la traccia sbagliata. Quelle erano le orme di un altro cervo.”
“E tu come facevi a esserne così sicuro?”
Nel frattempo, Hermann è tornato con un rametto d’abete rosso tra le mani. Eugen vede un guizzo d’orgoglio nei suoi occhi, che si illuminano di un’intensa sfumatura argentea. “Ho avuto il battesimo di Sant’Uberto quando ero alto così,” spiega – e nel dirlo, mima un’altezza irrisoria per il suo metro e novanta, “nella mia famiglia la caccia è sempre stata una tradizione molto sentita.”
Si mettono sulle tracce del cervo senza dire altro: è Hermann a celebrare il rituale del Bruch, offrendo all’animale l’ultimo saluto. È come se il suo animo si fosse improvvisamente alleggerito: le guance pallide sono arrossate dal freddo e la malinconia sembra scomparsa dal suo volto, dandogli l’aria di un ragazzo poco più che ventenne.
Eugen lo lascia fare, per avvicinarsi soltanto quando è il momento di intingere il rametto nel sangue del cervo e sistemarglielo sul berretto, per onorare l’abbattimento. “Waidmannsheil.”
Waidmannsdank,” risponde Hermann, sistemandogli a sua volta un rametto sul cappello.
Le loro mani si sfiorano appena, quasi titubanti, poi si stringono con forza.
I due ufficiali depongono i fucili e affidano la carcassa al guardiacaccia della tenuta, che brinda insieme a loro.
Di nuovo soli, si abbracciano e si scambiano una calorosa pacca sulla spalla.
“Sono felice che tu mi abbia invitato,” aggiunge Richter, inoltrandosi nel bosco. Dopo qualche passo volta la testa per guardarsi intorno e gli ultimi riflessi del sole fanno brillare i suoi capelli come se fossero dotati di luce propria. Tra gli alberi secolari spira una brezza frizzante che ne fa ondeggiare i rami; nulla in confronto al rigido inverno del fronte. “È bellissimo, qui.”
“E io sono felice che tu abbia accettato.” Schwerin sorride, ma sul suo volto passa un’ombra fugace. “Altrimenti credo che avrei trascorso la licenza in qualche città di frontiera, in attesa di ripartire per il fronte.”
“Vivi da solo in questa villa?”
“Sì. Mio padre è morto due anni fa e mio fratello è in Nordafrica, con le truppe del generale Rommel. Mia madre... quasi non la ricordo più.”
L’altro gli sfiora la guancia con le dita fredde. “E questo pensiero ti rende triste?”
Eugen alza di nuovo la testa e incrocia i suoi occhi, senza smettere di seguire il filo dei propri pensieri. “Non oggi.”
Comprende il significato di ciò che ha appena detto solo quando si ritrova le labbra di Hermann premute sulle sue. Nessuno dei due sa chi è stato a prendere l’iniziativa, ma adesso tutto è chiaro – e forse lo è sempre stato, anche quando facevano di tutto per dissimulare il reciproco interesse sotto una cortese amicizia. D’istinto, Schwerin lo afferra per il bavero del cappotto e schiude le labbra per approfondire il bacio, mentre l’altro lo spinge con la schiena contro il tronco di un albero.
Senza fiato, Hermann si costringe a staccarsi e si guarda intorno imbarazzato, come se temesse di scorgere qualcuno. “C’è da qualche parte un posto dove possiamo stare da soli?” ansima.
Eugen lo trattiene, intrecciando le dita tra le ciocche bionde. La tensione percorre i loro corpi avvinti come una miriade di scariche elettriche. “Vieni con me.”
 
La camera da letto, con le sue cortine di broccato e il fuoco che scoppietta nel camino, li accoglie col suo tepore. Hermann non ha fatto domande, si è limitato a seguire il suo compagno attraverso le ampie sale e i corridoi affrescati.
Si chiudono la porta alle spalle con uno scatto secco e arretrano fino a ricadere avvinghiati sul letto a baldacchino, a baciarsi con ardore; l’attrazione reciproca tende i loro muscoli traducendosi in vibrazioni quasi dolorose.
Eugen fa scivolare le mani sotto l’uniforme del compagno, avanzando a tentoni per liberarlo dalla stoffa che gli impedisce di godere del pieno contatto col suo corpo. Hermann gli cinge il torace con un braccio e affonda il viso nel suo collo, sfiorandolo con tiepidi baci mentre gli sbottona la camicia e gliela fa scivolare giù dalle spalle.
Schwerin getta la testa all’indietro, abbandonandosi contro di lui, e socchiude gli occhi alla ricerca di un contatto più intimo. “Non mi aspettavo tanta intraprendenza da te, ma devo dire che non mi dispiace affatto,” sussurra con voce roca.
Hermann ride sommessamente, il suo fiato gli solletica la pelle provocandogli sottili brividi di piacere. “Potrei dire lo stesso di te, Prinz Eugen.” Lo bacia con passione e lo spinge all’indietro sul letto, poi gli rotola addosso e intreccia le mani alle sue.
Egli si stupisce di quello slancio, ma lascia che prenda il controllo, affondando il capo nel guanciale mentre i loro corpi si uniscono nel modo più profondo.
Le bocche si cercano ancora una volta, le dita si stringono più forte.
È da tanto tempo che non si lascia andare con qualcuno e a quel punto si rende conto di non aver desiderato altro. Gli si dona completamente, e Hermann fa lo stesso, rivelando un fuoco inestinguibile sotto la patina all’apparenza glaciale.
La guerra, i fantasmi del passato, le macerie dei ricordi sono ormai oltre, spazzate via dalla passione che li unisce.
 
Sono sdraiati tra le lenzuola, uno accanto all’altro, le gambe intrecciate e i volti vicini. Non hanno avuto bisogno di parlare, si sono capiti subito.
Anche se fuori fa freddo, i capelli castani di Eugen, arruffati dalla foga dell’amplesso, sono leggermente umidi di sudore. Hermann glieli ravvia dolcemente all’indietro e lo bacia sulla fronte.
Schwerin si lascia scappare una leggera risata. “È una strana sensazione pensare che nel mio letto c’è nientemeno che il mio ombroso parigrado.”
“Le apparenze ingannano.” Richter sogghigna. “Nemmeno tu mi sei sembrato algido e compassato come vorresti dare a vedere.”
“Talvolta il nostro ruolo ci impone di portare delle... maschere, lo sai bene,” replica Eugen, facendosi di nuovo serio. “Ma è un peso che abbiamo accettato di buon grado, decidendo di dedicare la nostra vita al servizio della Patria.”
“È così.” Hermann sospira. “Certe volte, però, si sente il bisogno di lasciarle cadere. Voltare le spalle alle convenzioni, essere semplicemente se stessi.”
“Da come ne parli, è come se quest’opportunità ti mancasse da tempo.”
“Ognuno di noi, credo, ha il suo fardello da portare.” Si stringe nelle spalle, volge lo sguardo al soffitto affrescato. “Non è rivangando il passato che ne alleggeriremo il peso.”
Eugen, beffardo, si protende per baciarlo ancora una volta, poi lo afferra per i polsi e lo spinge sotto di sé. Di nuovo le posizioni si ribaltano, rotolano tra le lenzuola fingendo di lottare. “Hai ragione,” sussurra sulle sue labbra, “potremmo impegnare il nostro tempo in altri modi...”
 
Il buio che li avvolge è quasi totale, ma loro due sono ancora lì. Anche in camera è calata la penombra, ma le luci rimangono spente per non turbare l’intimità di quel momento; le braci morenti sfrigolano nel camino.
Fluttuando come sospesi in un’atmosfera ovattata, fronte contro fronte, i respiri che si confondono, entrambi sentono di aver perso il contatto con la realtà contingente.
“Mi sono sempre chiesto una cosa,” riprende Eugen dopo un po’. “Sempre se mi permetti.”
Hermann si lascia scappare una leggera risata. “Dopo quello che è successo tra noi, la sincerità mi pare il minimo.”
L’altro gli passa le dita tra i capelli, scompigliandoglieli affettuosamente. “Perché hai deciso di arruolarti?”
“Mio padre era iscritto al Partito fin dai tempi del Putsch di Monaco. Ero ancora un ragazzino – dodici o tredici anni, forse – quando mi portò in città a vedere una parata delle SA,” risponde lui. “Ricordo che rimasi subito colpito da quei soldati, dai loro discorsi, dal desiderio di riscatto che brillava nei loro sguardi. Erano gli anni della crisi: solo mio padre lavorava, mentre mia madre doveva tirare su da sola tre figli piccoli. Per aiutare in casa, mio fratello maggiore dovette abbandonare la scuola a quattordici anni per andare a lavorare nell’officina di mio zio, e un paio d’anni dopo a me toccò la stessa sorte. Allora, raggiunta l’età, decisi di fare domanda per arruolarmi come soldato semplice nella fanteria. Mi accettarono, per un po’ mi spostarono da un reggimento all’altro per mettere alla prova le mie capacità, poi mi ammisero alla scuola ufficiali di Dresda.”
“E te ne sei mai pentito?”
“Mai, neanche una sola volta.” Segue un breve silenzio, ma gli sguardi non si separano. “E tu, perché hai scelto la carriera militare?”
“Nella mia famiglia, da generazioni, tutti i maschi scelgono la carriera da ufficiali... ma mentirei se dicessi che l’ho fatto solo per onorare questa tradizione.”
“E allora... perché?”
“Non potevo accettare il fatto che il mio Paese fosse stato privato della propria dignità e di un esercito che meritasse tale appellativo. Ho frequentato una scuola per cadetti di fanteria e sono entrato come ufficiale della Reichswehr... chissà, forse abbiamo iniziato anche nello stesso anno.”
“Io sono diventato sottotenente nel ‘33.”
“Anche io. Comunque, ricorderai bene quegli anni di disgregazione e riarmo... io guardavo alla Luftwaffe: il mio sogno era quello di diventare pilota.”
Richter annuisce. Ricorda bene le allusioni del compagno, e rimane in ascolto senza fare domande. Eugen prosegue: “Così, quando si è presentata l’occasione, mi sono arruolato nella Legione Condor come volontario e sono stato addestrato come pilota di Stuka.” A quelle parole, i suoi occhi si velano di nostalgia. “Mi piaceva volare, guardare il mondo dall’alto come se tutto il resto fosse piccolo ed effimero. Pilotare quegli aerei era un’avventura elettrizzante, un brivido continuo: ci volevano nervi saldi per effettuare la picchiata e precisione per centrare il bersaglio, e poi bisognava essere rapidi a richiamare e riprendere quota evitando di sfracellarsi per terra. Era proprio la cabrata la parte più pericolosa: certe volte le accelerazioni erano così forti da privarti della vista per qualche secondo. Ma anche il rischio faceva parte dell’avventura; senza di esso non sarebbe stata la stessa cosa.” Volge lo sguardo verso il soffitto. “Pensa che sono stato accettato subito alla prima prova, anche se di solito le selezioni sono durissime.”
“E come mai te ne sei andato?” non può fare a meno di chiedergli Hermann.
“Di certo non per mia volontà.” Laconico, Schwerin sospira. “Canale della Manica, una missione operativa come un’altra. Dovevamo bombardare un aeroporto inglese, da qualche parte vicino a Londra. A un certo punto ci siamo trovati almeno dodici Hurricane alle calcagna, ci hanno inseguiti fino in Francia scaricandoci tonnellate di traccianti addosso. Non mi sono nemmeno accorto che stavo precipitando, se non quando mi sono risvegliato in un letto d’ospedale con un gran mal di testa e una fasciatura che mi lasciava scoperti solo gli occhi e la bocca. Non sapevo nemmeno se sarei sopravvissuto... e invece, dopo quasi sei mesi di convalescenza, sono stato dichiarato non più idoneo a volare. Allora ho fatto domanda di trasferimento e ho ripreso regolare servizio come capitano di fanteria.”
Richter lo ascolta in silenzio, così come l’altro ha ascoltato in silenzio le sue confidenze: pensa che in certi casi le parole siano superflue, soprattutto tra due uomini abituati a combattere e a riflettere senza il bisogno di sprecare fiato. Si limita a passare un braccio intorno al torace del compagno e a posargli un leggero bacio sulla tempia.
L’altro si rannicchia contro di lui. “Per noi la morte era precipitare in vite dopo essere abbattuti dalla contraerea, o schiantarci al suolo dopo una picchiata verticale... tra i soldati di trincea c’è un senso di comunità diverso.”
Tacciono di nuovo, entrambi, l’uno tra le braccia dell’altro. Hermann si bea della sensazione di avere di nuovo al proprio fianco qualcuno su cui poter contare, non solo in battaglia e nella vita militare, ma anche nell’intimità di quel nido caldo. Non sa se può definirla felicità, ma vorrebbe poter fermare il tempo, per imprimersi nella mente il ricordo di quei momenti e custodirli nel cuore quando si ritroverà di nuovo a marciare nel fango e nel gelo, in attesa di una nuova battaglia.
 
È Eugen, dopo un istante che pare a entrambi interminabile, a ricordarsi che l’ora di cena è vicina. Seppur a malincuore, devono rialzarsi e prepararsi.
“Se c’è una cosa che mi piace di te, Hermann, è che sei un mio camerata, ma con te posso essere me stesso senza maschere.”
A quelle parole Richter gli rivolge un sorriso sornione, guardandolo mentre si riabbottona la giacca. “E senza vestiti.”
“Sto parlando seriamente.” Eugen aggrotta le sopracciglia. “Non ti avrei invitato a passare la licenza da me se la mia intenzione fosse stata quella di... divertirmi e basta.”
“È un’allusione velata per invitarmi a restare?”
L’altro alza le spalle. “Perché no? Non mi dispiacerebbe passare qualche altra serata insieme a te, fosse anche solo per conversare.”
“Sono contento di sentirtelo dire.” Hermann sorride, a un soffio dalle sue labbra. “Non mi piacciono quelli che si sottraggono dalle loro responsabilità.”
“Apprezzo la tua sincerità e ti garantisco che la penso come te.” Schwerin gli sistema il colletto ruvido dell’uniforme, poi gli tira un buffetto sulla guancia. “Dopo cena, che ne dici di starcene un po’ tranquilli? Potremmo andare in salotto o nella sala musica... se vuoi suono qualcosa per te al pianoforte.”
Hermann si svincola dalla sua presa. “Buona idea, però adesso spetta di nuovo a te l’onore di guidarmi: non vorrei perdermi in questo dedalo di corridoi.”
“Ma certo, seguimi.”
Egli lo segue, come la prima volta, e finalmente si sente l’animo alleggerito: ha trovato un uomo degno della sua fiducia e non vuole lasciarlo andare.
 
 
Nun merk' ich erst, wie müd' ich bin,
da ich zur Ruh' mich lege;
das Wandern hielt mich munter hin
auf unwirtbarem Wege.
Die Füsse trugen nicht nach Rast,
es war zu kalt zum Stehen;
der Rücken fühlte keine Last,
der Sturm half fort mich wehen.
 
(Solo ora mi accorgo di quanto sono stanco,
al momento di distendermi per riposare;
il vagare mi teneva sveglio
sulla strada inospitale.
I piedi non cercavano quiete,
faceva troppo freddo per fermarsi;
le spalle non sentivano peso,
il soffio della bufera mi spingeva ad andare avanti.)
 
Le note del pianoforte si spandono per la sala, accompagnate dalla voce del maggiore Schwerin.
Richter si alza e si avvicina alla finestra. Ormai avvezzo ai paesaggi invernali, si ritrova a contemplare lo scenario quasi con stupore. I riflessi della luna si stendono su un paesaggio da fiaba, fatto di alberi intessuti di trame di ghiaccio. Simili a petali, i fiocchi bianchi volteggiano nell’aria e si posano sulla terra immacolata: lì, anche la neve sembra avere un’altra consistenza.
Inevitabilmente gli torna in mente il Natale precedente, coi soldati che cantavano Stille Nacht nei rifugi e nelle trincee invase dalla neve: anche se si trova miglia e miglia lontano dalla guerra, si sente come se ormai essa fosse entrata a far parte di ogni fibra del suo essere.
 
Auch du, mein Herz, in Kampf und Sturm
so wild und so verwegen,
fühlst in der Still' erst deinen Wurm
mit heissem Stich sich regen!
 
(Anche tu, mio cuore, nella lotta e nella tempesta
così audace e selvaggio
proprio nella pace senti il tuo serpente
infliggerti punture roventi.)
 
Il pianoforte tace di nuovo.
Eugen lo raggiunge e gli avvolge le braccia intorno alla vita, appoggiando la testa sulla sua spalla. “Domani è Natale: il primo che trascorro lontano dal fronte.”
“È lo stesso per me. Quasi non mi sembra vero.”
Rimangono lì, due ombre contro la finestra mentre intorno a loro ardono le candele.
Non hanno bisogno di festeggiamenti, si accontentano di quei brevi attimi di tregua: prima che inizi il nuovo anno, un aereo li avrà già riportati al fronte.
 

 
[*] Uno stormo di uccelli neri sorvola il mare e la terra, e quando essi appaiono i nemici fuggono via. Si lasciano cadere in picchiata dal cielo fino alle profondità della terra...
 
  
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