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Autore: blackjessamine    26/02/2020    30 recensioni
[Ole Nissen (OC), Homer Landmann (OC)]
Certi legami hanno lo stesso calore del sole: tracciano scie luminose che rimangono impresse negli occhi anche quando la notte sembra aver impiastricciato di nero una vita intera.
Sono i legami che sanno rinsaldarsi anche negli spazi vuoti creati dalla distanza, quei legami che un nome non lo vogliono nemmeno trovare, perché sono tenuti in piedi da sorrisi che negli anni non cambiano mai.
Un Guaritore figlio del mondo.
Uno psichiatra schiavo di un'empatia fuori controllo.
Sotto lo stesso cielo.
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Malandrini/I guerra magica, Dopo la II guerra magica/Pace
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Surya Namaskara'
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Capitolo 1
 
 



I piedi di Ole affondavano con un movimento assai spiacevole nel terreno carico di pioggia. L’odore di erba bagnata e di foglie marce gli riempiva le narici, risalendo fino a soffocare qualsiasi altro stimolo percettivo: detestava la puzza del Campus in autunno quando tutto era sempre umido e molliccio, sempre sul punto si sfaldarsi e di trasformarsi in un mucchietto di spazzatura maleodorante appicciata alla suola delle scarpe.
Pioveva: pioveva ininterrottamente da due settimane, ma Ole aveva dimenticato il suo ombrello in clinica. Con il capo chino e la schiena curva sotto il peso della borsa piena di libri correre gli risultava difficile, così si limitava ad un goffo incedere un po’ storto, condito da un lieve ansimare – se lo ripeteva ogni anno che avrebbe dovuto trovare il tempo di andare in palestra, o almeno unirsi agli appassionati di jogging della domenica mattina – e da qualche sosta per risistemarsi meglio la cinghia della borsa sulla spalla.
Le luci giallastre dei lampioni punteggiavano le stradine di cemento che si diramavano tutto attorno a lui, silenziose e immobili: il Campus, a quell’ora, era praticamente vuoto. A Ole non dispiaceva rincasare tardi: rincasare tardi significava non doversi attardare in cucina assieme ai suoi compagni di stanza cercando di trovare argomenti di conversazione sufficienti a sostenerlo per tutta la cena. Non che ci fosse qualcosa di sbagliato nei suoi coinquilini: erano tre ragazzi con la testa sulle spalle – un po’ rumorosi, forse – ma anche simpatici, a modo loro… semplicemente, loro e Ole non avevano nulla in comune. E andava bene così, davvero: Ole, nonostante le sue inclinazioni che lo rendevano particolarmente adatto a comprendere gli altri esseri umani, non era mai stato granché portato per le relazioni umane. Lo spaventava  guardare in faccia i suoi compagni di stanza e avvertire i loro pensieri e i loro stati d’animo, riuscire a intuire sotto i loro sorrisi ciò che, inevitabilmente, pensavano di lui: uno strano ragazzo dal marcato accento inglese,  che parlava troppo poco e che, pur comportandosi in maniera tutto sommato normale – certo, passava fin troppo tempo sui libri, ma non era l’unico borsista a cavarsi gli occhi in biblioteca per non essere rispedito a casa senza troppe cerimonie – si portava sempre addosso un alone di stranezza, un che di inavvicinabile e che lo identificava, inevitabilmente, come uno strambo.
Strambo, Ole ci si era sempre sentito, sin da quando era soltanto un bimbetto dalle gambe troppo secche e gli occhi troppo vispi, un bimbetto che non parlava quasi mai ma sembrava sempre sapere quando rispondere a domande che gli altri non avevano nemmeno pronunciato.
Si era sentito strambo per una vita intera, Ole, soffocato com’era da un’infanzia condita da episodi a cui non riusciva a dare una spiegazione, oggetti che sparivano e altri che danzavano davanti ai suoi occhi.
Non aveva mai smesso di sentirsi fuori posto nemmeno a scuola, lassù in Scozia: quel mondo non gli apparteneva, non del tutto, e il suo affannarsi più degli altri per ottenere risultati mediocri ad ogni nuovo sventolio di bacchetta lo aveva sempre lasciato preda del dubbio terribile che, in fondo, le sue capacità non dovevano affatto essere sufficienti. Ole era un mago che solo una persona generosa avrebbe osato definire mediocre: la sua magia sembrava scorrere nelle sue vene come melassa densa, in grumi pastosi che qualche volta esplodevano con una forza incontrollabile, ma che per la maggior parte del tempo se ne stava colare densa fra le sue dita, impiastricciando ogni incantesimo di approssimazione e scarsa determinazione. Era un mago mediocre, e lo aveva accettato già a metà del suo primo anno a Hogwarts: era sempre stato un ragazzino studioso, e si era applicato con una dedizione commovente alle sue nuove materie di studio, ma se i suoi test scritti erano prova inconfutabile di un cervello acuto e di un animo diligente, all’atto pratico c’era ben poco che potesse fare.
C’era stato un momento, alla fine del secondo anno, in cui aveva anche preso in seria considerazione l’idea di abbandonare la Scuola di Magia e Stregoneria di Hogwarts per tornare ad occupare un posto nelle scuole medie del suo quartiere di Brighton: avrebbe forse perso un anno, ma era certo che con un po’ di impegno sarebbe riuscito a rimettersi in pari con i suoi coetanei. Non che i suoi professori avessero fatto alcuna pressione al riguardo: sembravano tutti convinti che Ole avesse solo bisogno di imparare a fidarsi un po’ di più delle sue capacità, ma non c’era niente che gli impedisse di diventare un mago discreto. Ole, però, non riusciva a scorgere un futuro in quella società basata sulla magia: non che a dodici anni avesse anche solo una vaga idea di quale fosse la carriera che avrebbe voluto intraprendere, ma qualcosa gli diceva che, in quella società, difficilmente avrebbe trovato una strada capace di soddisfarlo. Se non aveva abbandonato il castello scozzese era stato soltanto perché non avrebbe potuto tollerare di tornare a condividere ogni giorno il tetto con un padre che, anche se raramente parlava, non riusciva proprio a nascondere la disapprovazione per un figlio tanto sbagliato – sbagliato, sotto ogni punto di vista.
Eppure, quella sensazione di non sentirsi del tutto parte del proprio mondo non lo aveva mai abbandonato. E se quella sensazione aveva giocato un qualche ruolo nella scelta di un Ole appena diplomato di lasciare tutto – patria, amici e famiglia – per andare in Oregon a studiare psichiatria in un’università babbana, la sua fuga non era stata comunque sufficiente. Perché Ole poteva anche essere un mago mediocre, un mago che non si era mai sentito del tutto accettato e parte di quella società, ma non era un babbano. Non lo era, e non lo sarebbe mai stato, e poco importavano le lodi che si accumulavano con solida costanza sul suo libretto universitario.
Qualcuno più ottimista di lui avrebbe potuto sottolineare che Ole dentro di sé aveva due mondi, due potenzialità, due punti di appoggio ai quali reggersi durante quello strano viaggio che era la sua vita. Ole, però, si sentiva soltanto vuoto: vuoto, e irrimediabilmente spezzato a metà, privo di una qualsiasi appartenenza e stabilità.
E a quel pungolo in fondo allo stomaco, quello stimolo che lo spingeva a fermarsi in ogni istante concentrandosi su quanto si sentisse sbagliato ci si era ormai rassegnato, come se a ventitré anni la sua vita fosse ormai scivolata lungo una china inarrestabile, inevitabile, fatalmente disegnata.
 
***
 
Ole si trascinò fino al terzo piano del dormitorio del campus raggiungendo a fatica la porta dell’appartamentino che divideva con due studenti di ingegneria e un matematico.
Nel girare la chiave nella toppa, Ole già pregustava una lunga doccia calda, per poi infilarsi dei vestiti puliti e andare a rifugiarsi nella sua stanzetta in fondo al corridoio. Era venerdì sera, il che significava che aveva davanti un intero fine settimana per dedicarsi allo studio: poteva ben permettersi di ascoltare un po’ di musica standosene sdraiato a letto senza fare assolutamente niente. Oh, certo, forse avrebbe potuto cambiarsi e prendere un autobus per raggiungere i suoi compagni di studi giù in città per una birra e quattro chiacchiere sciocche, ma non aveva affatto voglia di buttarsi nuovamente sotto la pioggia. Aveva anche un lieve mal di testa che avrebbe volentieri evitato di aggravare con la confusione dei locali e con la presenza invadente di troppe persone.
Fu dunque con un malcelato moto di stizza che, aprendo la porta, avvertì la risata acuta e un po’ sguaiata della sua coinquilina, Mia Hathaway, subito coperta dalla voce decisamente troppo alta del suo fidanzato, Bruce Ranganathan. Era certo che ci fosse anche qualcun altro in casa: oh, be’, del resto la regola non scritta che sanciva la civile convivenza di quei quattro studenti voleva che gli ospiti fossero circoscritti alle serate cui seguiva un giorno di riposo. E, in fondo Ole lo sapeva, le persone con cui divideva la casa erano piuttosto educate: mai una festa troppo rumorosa, mai trambusti fuori dal comune, mai scenate sopra le righe… certo, Bruce ormai poteva essere considerato il quinto abitante della casa visto quanto tempo trascorreva con loro, ma era un ragazzo tranquillo e alla mano, e a nessuno sarebbe mai venuto in mente di lamentarsi della sua presenza.
Certo, Ole avrebbe preferito rincasare in un’abitazione vuota e silenziosa, ma c’era pur sempre la possibilità che Mia, Bruce e i loro amici avessero programmi più interessanti di una serata trascorsa su un divano sfondato, e stessero solo aspettando l'orario giusto per dedicarsi ai propri divertimenti.
Ole, cercando di non fare rumore, sgusciò lungo il corridoio: sapeva che era un comportamento sciocco e maleducato, ma quel mal di testa si stava facendo davvero insistente, e non aveva voglia di metterlo alla prova presentandosi agli assalti della personalità di individui che nemmeno conosceva.
Aveva ormai superato la porta socchiusa del soggiorno quando un suono sbagliato lo inchiodò al suo posto.
No, non era un suono sbagliato, rifletté.
Era una risata, una risata franca e aperta, un suono pieno e allegro, vivace, piacevolissimo.
Piacevolissimo, sì, ma terribilmente stonato in quell’appartamento di studenti babbani.
Non poteva essere.
Non aveva senso che fosse… eppure, nonostante gli anni trascorsi, a Ole sembrava di essere in grado di riconoscere quella risata come se si fosse trattato della sua stessa voce.
Eppure, non poteva essere. Non poteva proprio, non dopo quelle lettere tiepide, non con tutti quei chilometri a separarli…
“Ma davvero? Non mi stai prendendo in giro?”
La voce di Mia, di nuovo, si levò troppo stridula a coprire ogni altro suono.
E poi la giovane tacque, dando modo al suo interlocutore di far risuonare la sua voce limpida e musicale per tutto il salotto.
“Giuro sul mio onore, cara la mia Mia. Non potrei mai…”
Ole non lo udì nemmeno, che cosa non avrebbe potuto mai. Perché le sue orecchie erano improvvisamente invase da un fastidioso ronzio, mentre il suo stomaco si stringeva in un nodo strettissimo. Perché, se la risata lo aveva messo in guardia, quella voce aveva spazzato via ogni dubbio.
Per un istante, solo per un istante, il giovane aspirante psichiatra rimase paralizzato nel corridoio semibuio, troppo stordito dalla sorpresa per agire.
Poi, però, furono le sue gambe a decidere per lui, e prima che il suo cervello avesse tempo di trovare una spiegazione razionale per la presenza di quella voce nel suo soggiorno Ole si ritrovò a varcare la porta, posando gli occhi increduli sullo strano terzetto strizzato sul vecchio divano.
Mia e Bruce erano come sempre intrecciati l’uno all’altra in un intrico di braccia e gambe che avrebbe fatto pensare che i due fossero uno strano esemplare di gemelli siamesi, e non una coppia di fidanzati che trascorreva assieme almeno dodici ore della propria giornata. E al loro fianco, a suo agio come se quella casa l’avesse costruita lui, come se Mia e Bruce fossero amici d’infanzia con cui aveva condiviso tutta la vita, un giovane dall’ampio sorriso se ne stava mollemente adagiato sui cuscini verdi. Sul suo volto dalla pelle abbronzata brillavano due occhi scurissimi, profondi e luminosi, che si mossero lentamente nella stanza soffermandosi con un leggero tremito sulla figura di Ole.
Il sorriso di Homer Landmann, se possibile, si allargò ancora di più mentre il giovane balzava in piedi con un movimento fluido ed elegante.
Non parlò, Homer, ma si limitò ad attraversare la stanza con lunghe falcate, raggiungendo Ole. Quest’ultimo, frastornato, cercò di sottrarsi all’abbraccio, farfugliando parole scomposte, ma Homer, con una scrollata di spalle sembrò sbarazzarsi di ogni remora, attirando Ole in un abbraccio che, per un istante, fece barcollare entrambi.
Ole non sapeva dare un nome a quella sua strana predisposizione che lo spingeva a comprendere i pensieri e gli stati d’animo di chi gli stava vicino: non era legilimanzia, non del tutto, perché Ole non sapeva penetrare nella mente delle persone – non a comando, e non sempre. Qualche volta un pensiero non suo gli si avvolgeva attorno alla testa, come fosse fumo di sigaretta: incorporeo e mai del tutto afferrabile, assumeva concretezza solo se Ole lo osservava con la coda dell’occhio della sua coscienza. Si trattava più che altro di intuizioni che andavano soltanto un passo più in là della deduzione logica, come se la sua empatia qualche volta si perdesse in un riflettersi di echi capace di amplificarla oltre misura.
Qualche volta, invece – quando era stanco, o spaventato, o molto provato, o quando era qualcun altro a provare emozioni tanto forti – lo stato d’animo di chi gli stava accanto lo travolgeva come se non esistessero confini fra le coscienze.
 
Stretto contro la figura alta ed elegante di Homer, Ole non avrebbe saputo dire quale di queste situazioni si fosse verificata. Sapeva solo che improvvisamente i confini fra la sua coscienza e quella di Homer si erano sciolti: non importava più chi fosse quello stupito di vedere l’altro, né di chi fosse quella gioia salda e luminosa. Domande e risposte, mi sei mancato e te l’avevo detto che ci saremmo rivisti, ricordi, e quell’unico, saldissimo affetto.
Non era cambiato niente.
Non era cambiato niente, mentre le coscienze lentamente si ritraevano e si ricomponevano in due entità distinte e separate.
Alla fine, Ole riuscì a balbettare:
“Ma che cosa ci fai tu qui?”
Il giovane si scostò di un mezzo passo, allontanandosi dal viso una ciocca di capelli scuri. Li portava più lunghi dell’estate in cui avevano compiuto diciassette anni, riccioli scuri che gli coprivano la fronte e gli solleticavano la nuca.
“Oh, passavo di qui”, si limitò a rispondere Homer con quel suo sorriso svelto che proprio non riusciva a scivolargli via dalle labbra.
Sbuffò, Ole: potevano non vedersi da almeno sei anni, ma avevano mantenuto un rapporto epistolare piuttosto regolare; Ole sapeva benissimo che Homer stava studiando a Kinshasa, e che stava valutando un trasferimento a Singapore per aderire a un programma sperimentale. Anzi, probabilmente il trasferimento era già avvenuto, ma le lettere del giovane non avevano fatto in tempo a coprire la distanza, perché Portland non era esattamente sulla strada fra Kinshasa e Singapore.
“Passavi di qui?”
“Sì, passavo di qui. Da Eugene, per essere precisi: mia madre inaugura un distaccamento della sua Accademia, sai, e ho pensato di farle una sorpresa la sera dell’inaugurazione. E di fare una sorpresa anche a te, già che ero a portata di Material… di viaggio, insomma”.
Sorrise ancora, Homer, sorrise di quel sorriso soddisfatto che aveva ogni volta che qualcosa gli riusciva esattamente come aveva sperato. Il che, a dire la verità, accadeva praticamente sempre, qualunque cosa facesse.
Solo in quel momento Ole si rese conto che Homer indossava un completo che soltanto una persona nata e cresciuta nel mondo magico avrebbe potuto ritenere adatto a un venerdì sera in una residenza universitaria: velluto a coste larghe di un porpora cupo, intenso e ricco, impreziosito da inserti di qualcosa che poteva essere solamente pelle di drago iridescente. Oh, per l’amor del cielo, Ole era talmente abituato a immaginare Homer in un contesto magico che non ci aveva nemmeno fatto caso. Eppure, il suo aspetto eccentrico che in qualsiasi altro caso avrebbe attirato a un malcapitato del genere le occhiate scocciate di Bruce e le risatine di Mia, non era riuscito a impedire a Homer di trascorrere del tempo comodamente seduto accanto a loro, chiacchierando come nemmeno Ole, in quei due anni di coabitazione, aveva mai fatto.
Anzi, con grande stupore di Ole, Mia gettò un’occhiata all’orologio a forma di Mickey Mouse appeso sopra la loro vecchia televisione, poi guardò Homer e, con una rapida occhiata pensosa a Ole, domandò:
“Ragazzi, noi stiamo per andare a una festa giù da Bonnie: vi va di unirvi?”
Ole era sconcertato. Mia Hathaway non lo aveva mai invitato a una festa, mai in due anni di coabitazione. A Homer invece era bastato trascorrere poco tempo in sua compagnia per convincerla a passare oltre il suo abbigliamento fuori luogo e ricevere un invito. Be’, in realtà Ole non avrebbe dovuto essere poi tanto stupito: Homer aveva sempre avuto un grandissimo talento per piacere a chiunque, professori o coetanei non faceva alcuna differenza.
“Noi veramente… cioè, si, magari, ma non so… Homer?”
Ole farfugliò qualcosa, indeciso: non sapeva se a Homer quell’invito potesse fare piacere, e anche se lui non aveva la minima voglia di andare a una festa in cui si sarebbe sentito solo a disagio, e in cui di certo non avrebbe avuto modo di parlare con Homer quanto avrebbe desiderato, non voleva nemmeno tornare a ricoprire il ruolo dell’amico noioso che rovinava ogni occasione di divertimento.
Fu Homer, invece, a dare una risposta decisa:
“Grazie, Mia, ci piacerebbe, ma purtroppo non credo di potermi trattenere così tanto”.
La ragazza parve delusa, e non attese nemmeno che Ole confermasse di non potersi recare alla festa, tornando a dedicarsi con molto entusiasmo all’abbraccio del suo fidanzato.
Homer si rivolse allora a Ole, e sussurrò:
“Vieni anche tu salutare mia madre, vero? Sarà felicissima di rivederti. E se vieni anche tu, io avrò la scusa per scappare presto senza sembrare maleducato, così poi noi possiamo fare due chiacchiere in pace…”.
Ole, in realtà, non aveva molta voglia nemmeno di finire in mezzo a un’inaugurazione formale di un’Accademia di Belle Arti Magiche, ma il sorriso speranzoso di Homer era un’arma a cui Ole era sempre stato fin troppo sensibile.
Inerme, per essere precisi.
“Io non… sicuro che non disturbo?”
Di nuovo, quella risata musicale, spontanea e fresca riempì l'aria e la distanza.
“Figurati se disturbi. Anzi, la mamma ci resterebbe malissimo se sapesse che sono passato da te e non ti ho portato”.
Di nuovo quel sorriso svelto, ampio, quel sorriso che sembrava smontare ogni difficoltà del mondo, rivelandolo soltanto un sassolino che era possibile scavalcare con un balzo divertito.
Ole si ritrovò a pensare a Cecilia Landmann, ai suoi abiti ampi e alle sue mani sempre sporche di pittura fresca, ai suoi occhi scuri e luminosi quanto quelli del figlio e ai pomeriggi d’estate che Ole aveva trascorso in casa Landmann. Cecilia era sempre stata gentile con lui, sempre pronta a regalargli un sorriso gentile e ad abbracciarlo con la stessa naturalezza con cui abbracciava Homer. Quello di Cecilia era stato un affetto sincero, e Ole lo sapeva: non era la compassione mossa dal senso del dovere che alcune donne provavano quando scoprivano che sua madre s’era spenta per un osteosarcoma quando lui non aveva ancora compiuto quattro anni, lasciandogli solo una manciata di ricordi confusi e il suono malinconico di una ninnananna appena sussurrata. No, Cecilia Landmann aveva provato per lui un affetto genuino, accogliendolo nella sua casa ogni volta che Homer decideva – dall’oggi al domani, solitamente – di invitarlo a trascorrere parte delle vacanze in casa Landmann.
“Non credo di avere niente di elegante da mettermi”, borbottò allora Ole, pensando con desolazione al suo striminzito guardaroba. Non aveva niente di elegante da mettere nel mondo babbano, figuriamoci in quello magico.
Scosse ancora le spalle, Homer, trattenendo a stento una risata:
“Tanto lo sai che alla mamma importa solo che tu abbia la maglia della salute, le calze asciutte e le mutande di lana”.
In effetti, Cecilia Landmann era sempre stata troppo impegnata con la sua arte per prestare attenzione a frivolezze come abiti formali e atteggiamento compunto.
“Eddai, Ole, non fare il difficile! Mettiti dei calzini puliti e andiamo! Non ho attraversato mezzo mondo per vedere come sei vestito, e hai un sacco di cose da raccontarmi. E io ne ho troppe da raccontare a te, ma sai bene che non lo posso fare qui, per cui, muoviti!”
Una gomitata leggera, e di nuovo quel sorriso di chi il mondo sapeva rigirarselo sul palmo di una mano.
Davanti a quel sorriso, qualsiasi obiezione Ole avesse potuto trovare si spense lentamente: il giovane aveva il sospetto che Homer Landmann sarebbe stato capace di convincere anche un Ippogrifo a mettersi a fare le fusa, se solo lo avessero lasciato fare. E Ole, la forza d’animo di un Ippogrifo non ce l’aveva, nemmeno un po’.
 
 
 
 


 
Note:
Ah, che fatica.
Voi nemmeno lo immaginate quanto sia stato difficile per me arrivare qui.
Ho in mente questa storiella da mesi (non scherzo: ci sto pensando almeno da settembre), ma riuscire a darle la luce è stato più difficile di quanto avrei mai immaginato.
Ole Nissen e Homer Landmann sono due personaggi originali che hanno iniziato a prendersi un po’ di spazio mentre scrivevo la storia “Love, walk the autumn, love”, ambientata circa vent’anni dopo questo primo capitolo. E, ecco, le loro vite mi si sono impresse in mente con una forza tutta loro, ma ho continuato a rimandare il momento in cui avrei dedicato qualcosa a loro: prima perché volevo finire la long, e poi perché… non lo so. Forse perché ho fantasticato su di loro così tanto che, ora, avevo un po’ paura di “bruciarmi” l’occasione di scrivere di loro. E così ho scritto, cancellato, riscritto, cancellato di nuovo questi tre capitoli (che non sono certa saranno davvero tre) almeno cinque volte.
L’idea iniziale era quella di descrivere tre notti in cui i due si trovano ad aspettare l’alba insieme (da qui il significato del titolo), ma ormai ho impastato e tirato i contorni di questa vicenda così tante volte che non lo so, davvero non lo so che cosa ne verrà fuori. Perché, se all’inizio volevo avere la storia completa prima di pubblicarla (trattandosi di qualcosa di tanto breve), alla fine mi sono decisa a seguire il metodo che per me funziona meglio, in questi casi: seguire l’istinto.
Quindi, no, non so bene dove andrà questa storia. Ma da qualche parte ci andrà, perché a questi personaggi sono affezionata in un modo che non riesco neanche a dirvi.
Perdonate le note chilometriche: spero davvero che abbiate voglia di accompagnarmi in questo strano viaggio sulla scia dei miei due dottorini prediletti.
   
 
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