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Autore: Harriet    28/02/2020    2 recensioni
Quando infesti un teatro da troppo tempo, rischi di annoiarti. Ma se arriva un vivente interessante a occupare i tuoi spazi, allora sono tutti più contenti. Per esempio, il ragazzo che pulisce la costumeria. Qualcuno lo vuole adottare, qualcun altro ha un cotta per lui. L’importante è darsi da fare per confortarlo, quando sta vivendo un brutto momento.
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
- Questa storia fa parte della serie 'Masquerade'
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- Partecipa al COW-T di Landedifandom. Missione 3 “Obblighi come catene”. Prompt: IV – Onora tuo padre e tua madre.
- Wordcount: 2500
- Il mio Team è bello! <3
 
TW: omofobia, violenze in famiglia, autolesionismo
 

Il nostro vivente adottivo
 
7 maggio 1997
Firenze
 
            «Perché non risponde?»
            «Magari sei tu, che non ti sei davvero fatto vedere.»
            «Mi prendi per scemo? Sono morto cinquant’anni prima di te. Lo saprò, come si fa a manifestarsi ai vivi?»
            «Sì, ma lo chiami da cinque minuti e non ti considera: fatti due domande.»
            «Fatevele tutti e due.» Olga mise fine alla discussione, apparendo in mezzo a Federico e Araldo. E siccome la vecchia attrice veniva sempre corredata di piume, pellicce, perle, gale, balze, nastri e veli, gli altri due furono costretti a notarla. «Forse non vi vuole rispondere.»
            Federico fece il gesto di togliersi gli occhiali, cosa che non aveva mai perso nonostante non fosse più tra i vivi da un’ottantina d’anni. Araldo sbuffò e incrociò le braccia sul petto.
            «Perché non dovrebbe? Quando hai quella faccia lì, hai bisogno di qualcuno che ti conforti.»
            «O hai bisogno di stare solo» disse Olga.
            «Ma guardalo! È lì da mezz’ora buona, immobile. E ha chiuso a chiave la porta della costumeria. Voglio dire, un ragazzino da solo blindato in un teatro vuoto… »
            «Vi sento.» Finalmente udirono la voce del loro vivente adottivo. I tre spettri si fecero più vicini al ragazzo, seduto a gambe incrociate per terra, al centro dello stanzone adibito a costumeria e magazzino del piccolo teatro del quale erano inquilini speciali. «Scusate, non ho molto da dire.»
            «Ci stai facendo preoccupare!» disse Araldo. Quando era ansioso, la sua voce profonda e vibrante, anche se segnata dal tempo, si faceva ancora più scura e un po’ spaventosa. Sembrava che fosse infuriato con te, anche se in realtà voleva solo sapere come stavi.
            «Sto bene.»
            «Mi pare proprio di no» lo contraddisse Olga. «Senti un po’, Damiano: nessuno sta male nel mio teatro senza che io cerchi di fare qualcosa per aiutarlo. Hai capito?»
            «Non mi permetterei male di stare male nel tuo teatro senza farmi aiutare, Olga, ma davvero, non è niente di che.»
            Se c’era una cosa che a Federico piaceva di Damiano, era la maniera assolutamente naturale con cui aveva preso da subito a trattare i fantasmi. E dire che erano tre mesi appena che quel ragazzo aveva scoperto che il mondo era un po’ più grande e strano di come se lo immaginava.
            La colpa era stata di Federico. Era stato lui a ronzare intorno al vivente per un po’, fin da quando Damiano aveva cominciato a lavorare lì. Ogni tanto gli lasciava qualche indizio, le classiche briciole di pane lungo la via, come nelle fiabe, e aspettava che lui le seguisse.
            Monica era indignata: per lei, fuori i viventi dalle faccende ultraterrene di quel teatro.
            Araldo era eccitato come un bambino: gli piaceva l’idea di fare il nonno di un vivo.
            Alba non si era opposta: bastava che non sporcasse e non facesse troppo baccano.
            Desiderio non aveva dato una risposta precisa, come faceva sempre. Aveva attaccato una delle sue discussioni filosofiche: qual era lo scopo di comunicare con il mondo dei viventi?
            Olga aveva finto che della cosa non le importasse molto.
            Il gatto era il gatto, quindi si poteva presumere che avesse i suoi oscuri scopi, anche adesso che era un fantasma, e non si curasse di tali infime faccende umane.
            Poi c’erano le Due Ombre. Nessuno, lì, era nemmeno sicuro che esistessero davvero. O che fossero fantasmi. Chissà cos’erano. E poi, erano proprio due? In ogni caso, che fossero reali o meno, le Due Ombre non avevano avuto niente da ridire.
            «Tanto non se ne accorgerà nemmeno» diceva Federico, ogni volta che muoveva qualcosa, lasciava cadere un oggetto, evocava una brezza per smuovere quel che stava attorno a Damiano.
            «Chi lo sa» aveva detto Olga, una volta. «Ci sono persone che non ci vedrebbero nemmeno se apparissimo loro in faccia.»
            E invece Damiano aveva seguito la scia di briciole, aveva messo insieme i pezzi e aveva imparato qualcosa sulla vita. E sulla morte.
            Al momento Damiano teneva la testa bassa e aveva i lunghi capelli castani a nascondergli la faccia. Nella sua voce c’era l’abituale nota ironica con cui affrontava tutte le cose, però era profondamente abbattuto. Federico non lo aveva mai visto così e realizzò che era davvero spiacevole. No, non era spiacevole, la parola giusta. Forse era una parola moderna e non la conosceva. Ma non ce la faceva, a starlo a guardare senza agire, anche se lui aveva detto che…
            «Ma cosa ti è successo?» gli disse, andandogli incontro con tutta la tempesta di sentimenti che lo agitavano. L’aria intorno a loro si smosse. La luce fioca della costumeria si spense. Gli espositori carichi di costumi rivestiti di nylon ebbero un tremito, come se fosse passata una scossa di terremoto. Qualcosa cadde – qualche scatolone in equilibrio precario incastrato tra le scaffalature pencolanti dell’area adibita a magazzino per scenografie e oggetti di scena. Damiano trasalì.
            «Ma che combini?» sbraitò Monica, comparendo dal nulla.
            «Scusate, scusate!» Federico cercò di ritrovare un po’ di calma, ma intorno a loro tutto era ancora pervaso dal tremito della sua ansia. Pian piano le cose tornarono alla normalità e la luce si riaccese.
            Damiano stava sorridendo, anche se con sforzo.
            «Bella prova, Federico.»
            «Non ti volevo spaventare.»
            «Non me l’aspettavo.»
            «Scusami!»
            «Ma figurati. Non è la cosa più spaventosa che ho visto oggi.»
            Cercò di ridere ma ci rinunciò a metà strada e la sua risata diventò una specie di smorfia angosciata.
            «Che ti è capitato?» domandò Araldo.
            «Poche storie e diccelo, che questi qui sennò si preoccupano e pensano chissà a cosa!» tuonò Monica, con quella sua bella voce impostata da soprano.
            «Ho solo discusso con i miei.»
            «In che senso, dicusso?»
            «E che t’hanno detto, i tuoi, per farti intristire così?» insisté Araldo. Aveva preso il suo ruolo di nonno molto sul serio.
            «No, guarda, lasciamo perdere, eh?»
            «Hai paura che diamo ragione ai tuoi?» chiese Monica. Damiano annuì e sorrise, ma gli occhi gli si fecero lucidi.
            «Non immagini quanto» disse. Una lacrima gli scese lungo la guancia e si affrettò a farla sparire.           «Per favore, puoi dirci cos’è successo? Magari ti possiamo aiutare» tentò Federico, anche se sapeva che era una richiesta stupida. «In fondo, un po’ ti conosciamo, ormai. Sappiamo che persona sei, e…»
            «Ah, sì? Lo sapete?»
            Federico tacque, ferito da quell’interruzione e dalla rabbia che sentiva nella voce dell’altro.
            «Credo di sì» intervenne Olga. «Credo che lo sappiamo meglio di altri. A forza di stare qui, ho imparato un bel po’ di cose. I cambiamenti si imparano. Uno guarda, ascolta e assorbe tutto quanto. Le parole, le idee… E comunque, anche se siamo vecchi, il mondo alla fine è sempre lo stesso. Quello che voglio dire è: ci sarà un motivo, se quando vieni qui, a volte ti chiudi dentro, ti provi i vestiti e ti trucchi, e sembri davvero felice. Poi ti togli tutto e te ne vai di corsa, come se avessi fatto chissà quale reato. Pensi che non ne abbiamo vista, di gente come te, quando eravamo vivi?»
            «Io a dire il vero no» disse Araldo.
            «Io ne ho conosciuti un sacco» disse Monica. «Gente a cui piaceva indossare vestiti non proprio visti di buon occhio. Altri che invece si vestivano come tutti gli altri, ma poi facevano cose un po’ diverse da tutti gli altri, nel loro privato. Tra gli artisti si è sempre visto di tutto. Non prenderla come un’offesa, ma non sei niente di nuovo.»
            «I teatri sono sempre stati un rifugio per le persone a cui non vanno bene i panni considerati accettabili» incalzò Olga. «Non è un caso, che tu sia finito qui. E che questo posto ti sia piaciuto così tanto.»
            Damiano prese fiato e si passò una mano tra i capelli, scostandoli dal viso. Guardò gli spettri, uno per uno. Erano arrivati anche Alba, Desiderio e il gatto. Federico si sentiva in preda a un’agitazione così profonda da aver paura di se stesso e delle reazioni che i suoi sentimenti di spettro avrebbero potuto scatenare tutt’intorno.
            «Sabato scorso sono uscito con uno e mia zia mi ha visto.»
            «Uscito in che senso?» domandò Monica.
            «Ha portato fuori un gentile signorino per una serata romantica o perlomeno ricreativa, penso» spiegò Araldo.
            «Sì, in quel senso. Insomma, mia zia mi ha visto proprio bene e io sono andato nel panico pensando che lo avrebbe detto ai miei. E ho passato tre giorni di merda, in attesa che il mondo finisse, perché ero sicuro che glielo avrebbe detto.»
            «Anche mia zia era un’impicciona» sospirò Alba.
            «E poi, stavo così male che oggi gliel’ho detto io. Ho pensato: qual è la cosa peggiore che possa capitare? Bene, la faccio succedere io, così almeno mi sono tolto il pensiero. Quant’è idiota, questa cosa? No, non me lo dite, lo so da solo. E, insomma, nessuno in famiglia è stato proprio entusiasta.»
            Silenzio. Federico intimò ai propri sentimenti di stare fermi, prima di vederli esplodere di nuovo. Eppure c’erano così tante cose, dentro di lui. Il dispiacere, la rabbia, il bisogno di aiutare l’altro, la gioia feroce nell’avere la conferma di quello che aveva pensato relativamente a Damiano, e quindi la conferma che la sua cotta senza speranza forse era meno senza speranza di quel che credeva…
            «Eh, che vuoi. Si sa, la gente è così» sospirò Monica. «Mica puoi pretendere che tutti lo trovino normale, no? Per carità, ragazzo, per me è tutta pari e ognuno può fare quel che gli piace, ma io sono una cantante, sono un’artista, e per noi è tutto diverso. Dovresti saperlo.»
            «Una corretta relazione con i familiari è utile per una vita quieta» sentenziò Desiderio. «Ricade sulle spalle del giovane, comprendere l’anziano genitore e venirgli incontro, per quanto sia difficile.»
            «I miei non sono così anziani. E comunque, perché ricade tutto sul giovane, scusa? Loro non devono fare nulla?»
            «La saggezza dei nostri avi ci insegna che al figlio spetta il rispetto e la reverenza nei confronti del genitore.»
            «Ma cosa ti hanno detto?» chiese Federico, interrompendo ben volentieri le pedanterie di Desiderio.
            «Mia mamma si è messa a piangere e ha ripetuto una decina di volte la parola vergogna e i suoi derivati: che vergogna, mi vergogno di te, dovresti vergognarti e simili. Mio fratello maggiore si è messo a ridere e mi ha mostrato quanto è vasto il suo vocabolario di insulti omofobi, e ha riso così tanto che alla fine ha coinvolto anche il minore, sul quale avevo qualche speranza. Beh, niente, ho perso pure lui.»
            «Anche mio fratello maggiore era un essere umano orribile» sospirò Alba.
            «Mio padre ha trattato il problema come fa sempre lui. Si è messo a sbraitare come come un pazzo e mi ha preso a schiaffi, dicendo che se sente ancora dire stronzate del genere me ne dà il doppio. Ed è una cosa di cui è capace. Quindi, alla fine sono stati tutti molto fedeli a loro stessi, nella reazione. Non dovrei rimanerci così male.» Si asciugò altre lacrime e strinse le mani attorno alle proprie braccia magre e nude, che spuntavano da una maglietta nera. Strinse così forte da lasciare dei graffi sulla pelle.
            «Cosa…» Iniziò Federico, sentendosi di nuovo turbinare dentro un oceano incontenbile. «Non fare così. Rischi di farti male.»
            A Damiano ci vollero alcuni istanti per realizzare cosa stesse facendo. Allentò la presa, a disagio.
            «Non volevo trattenervi qui. Avrete un sacco di cose da fare. Cose da spettro. Quindi, non vi state a preoccupare per me. Tanto ci vediamo. Forse.» Piegò la testa in avanti e scoppiò in singhiozzi.
            «Ma che dici?»
            «Forse? In che senso?»
            «Ragazzo, ascoltami un po’…»
            Federico si lasciò andare di nuovo: si sollevò un vento che spettinò Damiano e fece tremare le meraviglie custodite nella costumeria. Ma non erano solo i suoi sentimenti, a levarsi forte lì dentro: c’erano anche quelli degli altri, adesso.
            «Niente.» Damiano ritrovò un briciolo di padronanza di sé. «Ovviamente hanno detto che devo smettere di lavorare qui e di seguire i corsi, perché è colpa dei posti di merda che frequento, se sono…»
            «Anche mio padre mi fece smettere di andare a cavalcare con le mie amiche, perché diceva che facevo gli occhi dolci al proprietario del maneggio» sospirò Alba.
            «E tu che hai intenzione di fare?» domandò Olga.
            Damiano aggrottò le sopracciglia e strinse i pugni.
            «Col cazzo che me ne vado. Continuo. Ho diciannove anni: posso fare quel che cazzo mi pare. Che mi buttino fuori di casa: giuro che vengo a dormire qui dentro, ma non smetto certo! Abbiamo lo spettacolo di fine corso tra meno di un mese, non è che posso andarmene e mollarli così…»
            «Senza protagonista» concluse Araldo. «E certo che no!»
            «È un po’ umido, qui, ma tanto sta arrivando l’estate» disse Monica, guardandosi attorno.
            «Il mondo è pieno di strade aperte per te» disse Araldo.
            «E di stanze da affittare a poco prezzo» disse Olga, con un sorriso quasi dolce.
            «Non dovremmo suggerirgli l’insana idea di abbandonare la casa paterna e rompere con i suoi» protestò Desiderio.
            «Possiamo eccome!» rispose Federico. «Se fai ancora quei discorsi sul rispetto mi arrabbio. Non dovrebbe essere reciproca, la cosa? Va bene onorare il padre e la madre, ma non mi sembra che loro abbiano onorato granché il loro figlio, in questo caso.»
            «Storicamente, è una condizione che si verifica di rado» concluse Desiderio, mesto. «Non vorrei qui lamentarmi della mia famiglia, ma anche la mia decisione di dedicarmi alla filosofia non fu accolta con particolare calore, ai tempi.»
            «Sul serio mi state invitando ad andarmene di casa?» chiese Damiano.
            «Ci sembra l’opzione migliore, se ti vogliamo tenere qui» disse Araldo.
            «Mi volete tenere qui?»
            «Sei il nostro… A noi fa piacere, avere un…»
            «Un vivente adottivo» concluse Alba.
            Damiano finalmente fece una risatina.
            «È… Una definizione bellissima.»
            Federico lo vide sorridere e si sentì svanire un po’ di devastazione dall’animo.
            «Basta che non ti metta in pericolo» disse Olga, tornando seria.
            «In che senso?» chiese Monica.
            «Per una volta, mi faccio la stessa domanda di Monica» disse Damiano. Olga fece ondeggiare il suo boa di piume fino a farlo scivolare sui capelli del ragazzo e poi lungo il suo braccio. Federico si chiese cosa sentisse, un vivente toccato in quel modo.
            «Due sono, i nemici che più di tutti mi fanno paura» disse Olga. «Il nemico che si nasconde in chi condivide il tuo sangue, e il nemico che si nasconde dentro di te.»
            Damiano non rispose, ma forse aveva capito. Tornò a stringersi le braccia, come per difendersi dal freddo, questa volta con più delicatezza. Rimase in silenzio per qualche istante, distratto e distante, poi tornò a guardare i suoi spettri.
            «Siete un regalo strano» mormorò. «Ancora non sono sicuro che ci siate davvero. Però vedervi e parlarvi è… Non lo so. Grazie, comunque.»
            Nessun altro provò a continuare la conversazione. Non c’era molto da dire né da fare. Potevano essere solo quello: un regalo strano.
            Federico provò a trovare un po’ di calma dentro di sé e a irradiarla tutt’intorno. Damiano sospirò e allargò le braccia.
            «Fa più caldo, adesso.»


***

Questa storia appartiene a una serie che racconta alcune delle storie di Damiano nell’arco di più di vent’anni, da quando era un ragazzino che vedeva gli spettri nella costumeria di un teatro a quando diventerà un mago di rilievo della Firenze magica e segreta. Se la cosa vi incuriosisce, per adesso le storie nella serie sono due, ma ne arriveranno pian piano altre.

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