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Autore: Kira Eyler    01/03/2020    5 recensioni
[Leggere le note a inizio storia!]
"[...]
«[...] Cosa potrei fare, mi chiedi? Potrei staccarti le gambe, dal momento che resti immobile da settimane, e pure le braccia, dato che non vuoi perdere la tua umanità per uccidere e nutrirti. Umanità, poi... tutti gli uomini uccidono, anche senza motivo! Quale umanità perderesti se uccidessi per mangiare, stupida!? Uccidere è la cosa più umana che potresti fare!»
[...]
«[...]l’oscurità avanza e prima o poi sarai sua sposa».[...]"
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'ἄπειρον '
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NOTE IMPORTANTI!
Non volevo pubblicarla. Che novità, eh? Non volevo pubblicarla perché non sapevo in quale genere inserirla.
Non volevo peché ci sono spoiler del libro che sto cercando di scrivere. Non che qualcuno voglia comprarlo, ma comunque... di spoiler si tratta.... e i personaggi sono anche alcuni dei principali, quindi... Va bene, lasciamo stare.
Non volevo perché non mi piace. Perché non è venuta come desideravo.
Le note, dunque, sono queste: nota spoiler per i miei amici che dovranno comprare quel mattoncino; nota sovrannaturale/fantasy (folklore coreano!); nota "la pubblico solo perché il mio computer ha poco spazio, altrimenti devo cancellarla"; e, attenzione, c'è un lieve (credo) splatter.
Se notate errori, segnalate! Spero possa piacere a chi leggerà.
Un abbraccio,
-Kira

Of monsters and humans

Una lastra trasparente sospesa a parecchi metri dal suolo si fermò sul punto del bosco ove numerosi alberi erano crollati. Sotto di essa, oltre il verde dell’erba, risaltava una chiazza rossa e piccoli punti impegnati in impercettibili movimenti.
Una mano candida si mosse a disegnare cerchi invisibili nel vuoto.
«Fatemi scendere, ora», ordinò una voce femminile, atona e gelida.
Figure d’ombra accerchiarono la lastra e poggiando le mani sotto di essa, la fecero scendere pian piano verso il prato e i tronchi spezzati. La creatura femminile, tranquillamente adagiata a pancia in giù, si fece trasportare in silenzio.
Quando finalmente la lastra arrivò a solo qualche centimetro dal terreno, i mostri d’ombra si dissolsero nell’aria gelida dell’inverno e Sepathia mise piede sull’erba, scendendo dal suo mezzo e sollevandosi in piedi innanzi agli abitanti del luogo. Con gli occhi rosa colmi di fierezza e un falso sorriso sul volto bianco, come il resto della propria pelle, squadrò la grossa volpe a nove code e i cuccioli che le si erano nascosti dietro.
«Seo Yeon, qual piacere rivederti!» parlò e agitò la lunga coda.
La volpe a nove code ringhiò mostrando i denti, poi uno dei suoi cuccioli guaì e lei si ammutolì. Malvolentieri lasciò le sembianze volpine, di cui rimasero solo le code, e si trasformò in una giovane donna; rivolse un sorriso mellifluo a Sepathia, ripetendosi che fosse d’obbligo farlo.
«Sepathia, dea minore», la salutò con un goffo inchino. «Cosa la porta qui?»
Sepathia incrociò le braccia sotto i seni sodi e abbassò lo sguardo sulla chiazza di sangue: i volpacchiotti avevano i musetti macchiati della stessa sostanza, ma non vedeva alcun cadavere là attorno.
«Lo sai,» la dea minore sbuffò spazientita e arricciò una ciocca dei suoi lunghi e ondulati capelli attorno a un dito, «sono qui per quell’ingrata che ho riportato in vita, tramutandola da sporca umana a meraviglioso demone tuo pari».
«Oh!»
Seo Yeon non si sarebbe mai aspettata di veder tornare Sepathia per un essere inferiore: primo motivo, perché la dea odiava la Terra; secondo, perché la stessa dea considerava tutti i demoni e gli spiriti che avevano deciso di restare a vivere su quel pianeta dei vermi; terzo, perché mai aveva dimostrato attenzione e preoccupazione per qualcuno che non fosse se stessa. Pertanto non riuscì a trattenere un’esclamazione stupita, che le costò un’occhiataccia proprio da parte dell’interlocutrice.
Tossì portandosi un pugno davanti alla bocca e tentò di ricomporsi: «Be’, mia dea, la ragazza è davvero un’ingrata: è rimasta ferma per tutte queste settimane lì dove lei l’ha lasciata. Non le va proprio di godere della sua seconda vita!»
Sepathia gonfiò le guance; la sua esile corporatura, i capelli soffici e dall’insolita forma a nuvola e quell’aria imbronciata le fecero perdere la nomea di spietata assassina per qualche secondo.
Alzò il tono di voce, furiosa: «E tu, stupida Kumiho, non hai fatto niente per smuoverla un po’? Per tutti i cieli di quest’universo!»
Seo Yeon agitò una mano, come se volesse scacciare lontano le parole della dea, e indurì lo sguardo.
«Ma per chi mi ha presa? Non sono una badante, o una psicologa per troiette col mutismo selettivo!» ringhiò, sollevando le code con uno scatto minaccioso. «Ho dei figli e preferisco occuparmi di loro, data l’irresponsabilità del mio stupido compagno».
Sepathia storse le labbra in un’espressione disgustata e sbuffò di nuovo.
Uno dei volpacchiotti si tramutò in una bambina tanto piccola quanto denutrita, che afferrò la mano della madre e la scosse con le sue poche forze per attirare la sua attenzione. Temendo di non essere percepita, la chiamò a voce alta: «Mami, mami!»
Seo Yeon non la degnò di uno sguardo, spaventata dallo staccare gli occhi da quelli di Sepathia, ma le rispose comunque: «Non ora, tesoro, la mamma è impegnata».
«Ma noi ci annoiamo!» lagnò la bimba-volpe. «Possiamo andare da papà?»
Sepathia sollevò un angolo delle labbra a formare un ghigno.
La Kumiho strinse i denti, infastidita sia dallo sguardo della dea che dalla richiesta della figlia, e dovette piegare il proprio orgoglio per annuire e dare ai suoi bambini il permesso di allontanarsi.
«Grazie, mami!» trillò la piccola e subito diede le spalle alle adulte, correndo via tra gli alberi assieme ai fratelli.
Quando le loro figure sparirono in lontananza, Sepathia si abbandonò a una risata argentina e batté la coda sull’erba come se fosse un frustino.
Seo Yeon portò un piede indietro e digrignò i denti, minacciosa, mettendo i mostra i canini che si erano allungati: ripeté a se stessa che, qualora la creatura lì presente avesse deciso di fare del male ai suoi figli, non si sarebbe trattenuta dal tentare di ucciderla.
Ma Sepathia rise di nuovo, questa volta tenendosi il ventre: «Scherzavo, stupida! Se avessi voluto ucciderti, non ti avrei mai lanciato un avvertimento».
Seo Yeon si calmò, rilassando i muscoli del viso ma non i pugni, che rimasero stretti.
La dea minore si volse, congedò la Kumiho con un gesto della mano e un sorriso beffardo e tornò alla sua lastra. Si sedette su di essa e schioccò le dita, richiamando a sé i mostri d’ombra che caricarono sulle proprie spalle l’improvvisato mezzo di trasporto.
«Tornerò quando avrò bisogno di te,» disse Sepathia e accavallò le gambe, mentre i suoi sudditi presero a camminare, «mia fedele Yeon!»
Le passò accanto e, ancora comodamente seduta, le lanciò un bacio con due dita di una mano.
Seo Yeon forzò un sorriso di circostanza e annuì, ma non appena Sepathia si allontanò tirò un sospiro di sollievo e roteò gli occhi scuri al cielo, stizzita da quell’incontro. Dopodiché, col pensiero rivolto ai suoi bambini – e a loro soltanto –, assunse le sembianze da volpe e si gettò a capofitto tra gli alberi.
 
*
 
Sepathia lasciò sparire i suoi mostri non appena raggiunse la meta. Salto giù dalla lastra con un balzo e, avanzando disgustata tra l’erba alta e il terriccio, cercò con lo sguardo la causa di tutti i suoi mali: la terrestre diventata Kumiho.
Per sua fortuna la trovò realmente lì dove l’aveva lasciata dopo il loro ultimo incontro, sotto un albero colmo di foglie morte e rami storti e anziani. Si fermò a osservarla, sollevando un sopracciglio coperto dalla frangia: la giovane teneva la schiena poggiata al tronco, le gambe strette al petto e il viso nascosto tra le ginocchia; il suo corpo era coperto, per quanto possibile, dalle nove code nere e le orecchie volpine, ugualmente scure, erano tenute basse.
Le si avvicinò a passo spedito e più furiosa, ma quella non la sentì arrivare – o forse, pensò la dea, fece finta di non averla udita arrivare. Ciò alimentò solo la sua rabbia e il suo astio verso di lei e, squadrandola dall’alto, non si trattenne dal gridare il suo nome in un rimprovero: «Kei!»
Kei ebbe un sussulto e intimorita sollevò la testa; fu per una frazione di secondo, poiché subito tornò a nascondere il viso tra le ginocchia.
Sepathia fece in tempo a guardare le corna sulla sua fronte, spuntate tra la frangetta corvina, e i buchi vuoti al posto degli occhi.
«Kei,» la chiamò una seconda volta, «alzati».
Kei deglutì e tremò, ma trovò il coraggio per rispondere alla divinità: «Non mi chiamo Kei».
Sepathia negò col capo e ridacchiò, ritenendola insulsa e soprattutto patetica. Nervosa per il tono con cui la Kumiho le aveva rivolto la parola, la contraddì: «Sì, invece. Ti chiami così, adesso».
«Non risponderò a questo nome».
«Oh, lo farai...» Sepathia fremette per la collera «... con le buone o con le cattive».
Kei si obbligò a ridere, poi, quando il cuore non volle più assecondare la farsa, le domandò con tono di sfida: «Cos’altro potresti fare di cattivo?»
Alzò la testa e Sepathia la guardò con ribrezzo.
«Mi hai già privato degli occhi, della mia famiglia, della mia prima vita... e vuoi togliermi l’umanità. Cos’altro puoi fare di orribile?» ripeté, a voce più alta.
«Osi accusare me di tutto questo?» sibilò Sepathia, le parole uscirono velenose e lente dalle sue labbra. «Sei stata tu ad abbandonare la tua famiglia e la tua prima vita: ti sei suicidata, o non lo ricordi, stupida come sei?»
La Kumiho si fece piccola contro il tronco dell’albero, brividi di terrore le percorsero il corpo nudo assieme ai tremori del freddo. Mosse le labbra e pronunciò un appena udibile: “Non sono stupida”; ma Sepathia udì comunque quel soffio leggero.
«Lo sei! Incolpi me, povera, meravigliosa e misericordiosa creatura, di tutte le tue disgrazie,» la dea fece una pausa teatrale, socchiudendo gli occhi rosa, «quando sei stata tu a decidere ogni cosa. Cosa potrei fare, mi chiedi? Potrei staccarti le gambe, dal momento che resti immobile da settimane, e pure le braccia, dato che non vuoi perdere la tua umanità per uccidere e nutrirti. Umanità, poi... tutti gli uomini uccidono, anche senza motivo! Quale umanità perderesti se uccidessi per mangiare, stupida!? Uccidere è la cosa più umana che potresti fare!»
Kei si strinse nelle spalle e affondò i denti nel labbro inferiore; non riuscì a sentirsi al sicuro nemmeno avvolta dalle sue code e pregò per un abbraccio della propria mamma, come aveva sempre fatto da bambina.
Sua madre...
Temette di dimenticare la sua faccia. Temette di dimenticare i colori, le forme, il cielo e il mare.
«Non voglio uccidere nessuno! E anche se volessi farlo, non saprei nemmeno che cosa mangiare!» gridò, sentendosi il cuore in gola.
Sepathia sbuffò, esasperata. «Spostati, vai dalle altre e chiediglielo!»
«Come dovrei spostarmi senza occhi!?»
«Non ti servono gli occhi per camminare!»
«Non so dove metto i piedi e ho paura di quello che non posso vedere!»
«Hai altri quattro sensi e dei poteri per muoverti anche senza vista. Capisci quanto sei stupida, ora!?»
«No, senza occhi non posso fare più nulla! E comunque, mi rifiuto di mangiare parti del corpo o organi umani!»
Kei era terrorizzata da Sepathia, dal suo silenzio in risposta al suo ultimo grido. In un gesto un tempo abituale, abbassò le palpebre e portò i pugni contro le tempie, aspettando di ricevere uno schiaffo, un calcio, o un colpo datole con la coda – probabilmente, pensò, quest’ultimo avrebbe fatto più male di fruste e bacchettate.
Eppure, niente di tutto il peggio che immaginò si avverò.
La dea minore, nonostante il fastidio che provava, lasciò che l’ira scivolasse giù e si sedette sulle ginocchia davanti a Kei. Mai in millenni d’esistenza s’era abbassata all’altezza di qualcuno, ma quella volta il gesto le risultò spontaneo; così come le risultò spontaneo allungare le braccia verso l’altra e prenderle il viso tra le mani.
«Ascoltami bene, Kei,» marcò il suo nome a posta per ribadirle che, da quel momento in poi, si sarebbe chiamata come tale, «perché non lo ripeterò una seconda volta: che ti piaccia o no, questa adesso è la tua vita. Vuoi sprecarla standotene qui seduta, a lamentarti di non poter fare niente senza occhi e a digiunare? Fa’ pure! Per il poco che m’importa, puoi piangerti addosso per l’eternità dal momento che non potrai morire di fame, invece di cercare di sviluppare gli altri sensi e i tuoi poteri. Ma questa è la tua vita: essere Kei, una Kumiho, un mostro, vivere in una merda di posto e uccidere. Dimentica il Giappone e tutto ciò che eri, perché non lo sarai mai più: l’oscurità avanza e prima o poi sarai sua sposa».
Sepathia allontanò velocemente le mani dal suo volto e scattò in piedi.
Kei cercò di afferrarle un polso, ma non seppe verso che direzione dovesse allungare la mano e la abbandonò nel vuoto, lasciandola crollare come le sue speranze. Schiuse le labbra, ma la dea la precedette e con nervosismo, aggiunse: «Che tu lo voglia o no».
Un grido squarciò l’aria, gli uccelli sugli alberi si levarono in volo battendo con vigore le ali e cinguettando animatamente e piccoli animali selvaggi fuggirono nelle più svariate direzioni.
Sepathia si voltò indifferente verso una precisa strada nascosta dagli alberi, mentre Kei balzò in piedi con le mani giunte al centro del petto e il fiato corto.
«C-Chi ha gridato?» domandò, la voce impregnata di paura.
Abbassò le code, si schiacciò contro l’albero sperando di essere da lui inghiottita e avvertì un nodo alla gola. Volle piangere con tutta se stessa.
Prima di rispondere alla domanda della Kumiho, Sepathia rigirò quel nome sulla punta della lingua: «Seo Yeon».
Agguantò una mano di Kei e scattò in corsa, imboccando il sentiero osservato poco prima.
Kei si lasciò quasi trascinare, correndo alla cieca e inciampando senza però cadere, con i battiti del cuore che le martellavano nelle orecchie e che le facevano dolere il petto. Quando Sepathia si fermò dopo aver percorso parecchi metri, lei venne lasciata e per la frenata improvvisa cadde al suolo; affondò le mani nell’erba all’ultimo minuto per non permettere alla faccia di fare un incontro doloroso col terreno.
Seo Yeon urlò straziata una seconda volta.
Fu un grido così potente che Kei si chiese se la gola le stesse sanguinando, graffiata dalla voce acuta. Non le ci vollero gli occhi per capire la sofferenza della compagna Kumiho: era l’unica nota presente nel suo tono e aveva cancellato qualsiasi altro stato d’animo, qualsiasi altra emozione.
E dopo le grida arrivarono i singhiozzi, strilli più forti, tonfi pesanti.
Kei voltò la testa prima a destra e poi a sinistra, cercando di capire dove fosse Sepathia, e alla fine si decise ad abbassarla per porgerle, timorosa, una domanda che premeva per ottenere risposta, spinta alla bocca dal cuore: «Cos’è successo?»
Sepathia fece un sorriso amaro.
Davanti a loro, inconsapevole di essere osservata, Seo Yeon continuò a battere pugni  contro il suolo e a cercare di soffocare altre urla.
«È successo quello che tu non vuoi fare:» marcò le ultime parole per schernirla, «un massacro».
Kei alzò le orecchie, spalancò le palpebre d’istinto e le labbra le tremarono. Scosse impercettibilmente la testa, strappando fili d’erba per scaricare la sua ansia.
La dea minore osservò i volpacchiotti di Seo Yeon a terra, esamini, ciascuno nella propria pozza di sangue e alcuni spogliati della propria pelle, privati delle loro già poche code. Sentì l’odio ribollirle nelle vene e il cuore pompare veleno a ogni nuovo grido e singhiozzo di Yeon, le interiora contorcersi per la rabbia che non poteva liberare.
«Gli umani hanno ucciso tutti i suoi cuccioli», asserì, con le iridi lucide ora rivolte a Kei. «E tu parli di umanità?»
Kei tentennò tra il ribattere e lo stare zitta. La sua mente vagò tra infinite possibilità: forse gli umani si erano solo difesi? Fose avevano visto quei cuccioli come una minaccia? Forse... Forse...
 
«Mia mamma dice che porti solo sfortuna e, per questo, non meriti di essere trattata come una persona!»
«A cuccia, mostriciattolo, e cerca di non mordere!»
«Posso dare fuoco a quei campi e incolpare lei?»
«Impara a guaire, invece di piangere sempre, tanto sei un animale
 
... avevano ucciso e basta. Per il gusto di farlo, perché si divertivano. Perché non avevano una coscienza e avrebbero riso con le loro famiglie di quel massacro. Si sarebbero vantati di aver ucciso dei demoni, sarebbero stati acclamati dai loro simili.
L’odore del sangue e quello pungente della morte arrivarono a Kei come una pugnalata. Il dolore di Seo Yeon fu sul punto di farle sanguinare le orecchie e romperle i timpani.
«Che schifo di pianeta», mormorò Sepathia e indietreggiò, «e che schifo di esseri viventi. I più intelligenti dell’universo, i più sviluppati, dicono! E invece sono una massa di egoisti che farebbero paura ai re di ogni razza demoniaca».
Diede le spalle al triste spettacolo e si allontanò, lasciando Kei da sola.
Questa immaginò di avere tra le mani il suo vecchio flauto traverso. Immaginò di suonarlo, di riempire l’aria di note minacciose, lente, sempre più cupe e basse, poi di accompagnare la tragedia e il pianto di Seo Yeon con suoni sinistri e più acuti, soffiate d’odio sulla testata.
La vendetta avrebbe avuto note soavi.
 
*
 
Kei comprese di poter assumere le sembianze di una grossa volpe nera per caso: desiderò con tutta se stessa di poterlo fare, perché sua madre le aveva sempre raccontato di quanto le volpi fossero astute e intelligenti e anche che, essendo canidi, avevano un olfatto capace di portarle dall’oggetto che volevano, e d’un tratto si sentì cambiare.
Lanciò un grido per il terrore di cosa potesse esserle accaduto, ma si tradusse in un acuto uggiolio.
“Diamine!” fu la prima cosa che le passò per la mente. “Sono da sola, non so come tornare una mezza umana e non vedo dove sono. Potrebbe andare peggio di così?”
L’odore del sangue dei cuccioli di Seo Yeon era ancora percepibile: di conseguenza non poteva essersi allontanata molto.
Aveva provato a raggiungere la Kumiho straziata dalla perdita dei figli, però era ruzzolata giù da una discesa non appena aveva messo un piede in avanti. L’aveva, dunque, chiamata per nome con una pessima pronuncia, sperando di sentirla arrivare; Seo Yeon, tuttavia, era resa cieca e sorda dall’ira e dal dolore, e aveva ignorato i richiami di Kei.
Aveva tentato di seguirla, poi le era venuto a mente che non sapesse quale direzione Seo Yeon avesse preso per allontanarsi: destra? Sinistra? Era tornata indietro? E qual era il suo indietro? Foglie e rami calpestati non l’avevano aiutata a capire dove andare e pertanto, si era messa in piedi e aveva fatto qualche passo senza avere davvero una meta.
“Ed ora eccomi qui”, disse a se stessa.
Agitò le nove code e tese le orecchie, sollevò il muso al cielo e cercò di distinguere, tra i tanti odori, quello di Seo Yeon. Almeno ci provò finché un altro non attirò la sua attenzione: quello di un essere umano, con certezza l’assassino dei piccoli.
Kei ringhiò, la rabbia fece sì che il pelo scuro sul dorso si rizzasse dandole un’aria più minacciosa. Un solo ordine echeggiò nella sua mente, freddo e deciso: “Seguilo”.
Non riconobbe la sua stessa voce, il tono aggressivo, la bramosia di sentire le grida dell’assassino mentre gli faceva provare lo stesso dolore di Seo Yeon. Non riconobbe più Fūnko, né comprese il perché di quel folle desiderio o il motivo della sua obbedienza – perché, ancor prima di potersene rendere conto, si mise a correre seguendo una pista tracciata dall’odore dell’insulso umano.
Evitò ogni ostacolo con agilità, percependo la loro presenza ancor prima di andarvi contro; erano le code e i poteri che le donavano a farglielo capire, lei dovette soltanto ascoltare e seguire l’istinto.
Le tracce della preda terminarono fuori dal bosco e, dopo aver captato la presenza di più esseri viventi, sparirono anche i poteri che l’avevano fatta arrivare fino a lì.
Kei si sentì di nuovo spaventata: avvolta dalla paura, desiderò di poter sparire e si ritrovò, invece, di nuovo nella sua forma umana, seduta sulle ginocchia. Si strinse nelle spalle e deglutì a fatica, l’aria sembrò non arrivare ai polmoni.
Il terrore la pietrificò sulla strada.
«Cazzo, un’altra! Ma quante ne siete?»
Una voce maschile la fece sobbalzare; il rumore di un’arma che veniva ricaricata le strinse il cuore in una morsa dolorosa.
Non l’aveva sentito arrivare. Ancora una volta si ripeté quanto sarebbe stato tutto più semplice, se avesse avuto la vista: in quel momento, nonostante avesse udito la sua voce,  non riuscì neppure a capire se l’uomo fosse davanti o dietro di lei.
Si morse a sangue l’interno guancia e abbassò la testa.
«Sbaglio o non hai neppure gli occhi?» l’umano continuò a porle domande a cui lei non trovò il coraggio, o l’ironia, per rispondere. «Meglio per me: ucciderò in fretta anche te».
Kei si rilassò all’improvviso. Con una calma che sapeva non le appartenesse, trovò la forza per chiedere: «Hai ucciso tu i bambini di Yeon?»
«Di chi?» rise l’uomo. «Bambini? Mostri, vorrai dire! Siete tutti mostri. Dovete morire, o moriremo noi per mano vostra».
La Kumiho chiuse le palpebre e in un sibilio ripeté la parola usata dall’assassino: «Mostri...»
Mostri.
Dei bambini e una madre spezzata dal dolore non erano niente di più.
Mostri.
I diversi erano tali. Lo era stato anche lei, nella sua precedente vita, pur essendo nata umana.
Mostri.
Mostri e basta.
 
«Tutti gli uomini uccidono, anche senza motivo!»
 
Kei lasciò cadere le braccia e strinse i pugni sulle ginocchia.
 
«Uccidere è la cosa più umana che potresti fare!»
 
Serrò le labbra riducendole a una linea dritta, i capelli corvini le ricaddero lungo le spalle.
Un oggetto le si poggiò sul capo; lo identificò come l’arma che stava per ucciderla.
«Mostri...» mormorò di nuovo, poi alzò la voce «... Hai davvero detto mostri?»
«E non me ne pen...»
Uno scoppio interruppe la frase dell’uomo. Schizzi caldi finirono contro la pelle di Kei, macchiandola di rosso, e un tonfo seguì la caduta del corpo privo di testa.
Grida, stavolta umane, ruppero la quiete e la Kumiho sorrise: finalmente riuscì a percepire anche gli altri, nascosti nelle loro dimore o in strada a fare da spettatori. Si alzò in piedi barcollando, un dolore acuto le esplose nelle tempie.
Pensò che fosse dovuto agli spari.
Allungò un braccio e aprì il pugno chiuso: i proiettili tornarono indietro, uccidendo o ferendo chi aveva fatto fuoco.
Altre grida. Kei pensò a quanto fosse soddisfacente udirle.
Superò con un balzo il cadavere davanti a lei, girò su se stessa ridendo e percepì le fiamme carezzarle la pelle; uno scatto verso l’alto delle code e il fuoco avvolse edifici e persone.
Bruciarono donne e uomini. Bruciarono bambini e neonati. Chi non accettò di farsi divorare dal fuoco, esplose tra le braccia dei suoi cari.
I loro strilli disperati e terrorizzati si intrecciarono con le risate di Kei, le note dolci e festose di un flauto fecero loro da accompagnatrici; si unì poi il ruggito del suolo e ancora dopo il crollo delle case.
Kei sorrise come mai aveva fatto prima di quel momento, muovendosi accanto alle fiamme e indirizzandole verso i fuggitivi, e si esibì ogni tanto in allegre giravolte, come le avevano insegnato.
Vennero le lacrime e i pianti e sorsero le tenebre e i mostri.
Il fuoco si propagò senza controllo verso il bosco e bruciò qualsiasi cosa, o essere vivente che trovò sul suo cammino; spinse le altre Kumiho a correre ai ripari e a raggiungere il villaggio, seguendo il fumo nero e le richieste di aiuto.
Il sangue e le ceneri coprirono il suolo.
E il suo mondo tacque.
 
*
 
«Hai fatto un bel casino».
Sepathia sbadigliò dopo aver pronunciato quelle parole con voce compiaciuta, a dir poco orgogliosa.
Kei, camminando qualche passo dietro di lei, abbassò le orecchie e la testa per la vergogna e i sensi di colpa.
«Vorrei tornare indietro nel tempo e fermarmi», confessò, addolorata. «Quella non ero io. Io non voglio uccidere nessuno, né fare del male. Riportali in vita,» la voce si ruppe in un singhiozzo e fermò la sua camminata, «ti prego».
Sepathia si fermò a sua volta e si voltò a guardarla, con gli occhi sbarrati e le labbra schiuse per la sorpresa. Esaminò il corpo tremante di Kei, le sue mani che tappavano la bocca per impedire ad altri singhiozzi di venir fuori, e vagliò le lacrime rossastre che colarono giù dalle palpebre chiuse; il suo orgoglio sparì e tornò a considerarla ridicola.
Scoppiò a ridere e Kei si abbandonò al suo pianto.
«Per chi mi hai presa, stupida!? Non riporterò in vita quei vermi solo perché ti senti in colpa. Potevi anche pensarci prima, invece di uccidere tutti!» esclamò in risposta alla preghiera della Kumiho, la rabbia in contrasto con le risate che non riuscì del tutto a spegnere. «E non dono seconde vite a caso: dovete superare un esame, un test, che svolgete senza nemmeno rendervene conto. Loro non lo hanno superato, quel test».
«Ma p-per favore...» Kei giunse le mani in segno di preghiera «... i-io non volevo. Non so perché l’ho fatto. Non meritavano di morire, non...»
Sepathia rise di nuovo, mormorò qualcosa nella sua lingua e batté le mani per applaudire.
Prima che Kei potesse chiederle, implorarle, di smetterla di ridere e di prendersi gioco di lei, uno schiaffo le colpì una guancia talmente forte da farle voltare la testa. Fu inaspettato. Ma la mano che l’aveva colpita non apparteneva a Sepathia: era più calda.
La stessa dea guardò allibita Seo Yeon, presentatasi in mezzo a loro senza alcun preavviso, però i suoi occhi saettarono subito dopo sulla figura di Kei e fece qualche passo indietro.
Kei sfiorò con le dita la guancia colpita, carezzando il sangue che l’aveva imbrattata al posto delle lacrime. Non fece male, lo schiaffo, e per lei fu come non averlo sentito; ma un moto d’odio insorse nel suo cuore e si sentì di nuovo divisa in due: paura e odio, tristezza e rabbia, la consapevolezza di essersi meritata quel colpo per aver ucciso qualcuno e il “Perché mi hai colpita se ho vendicato i tuoi figli? Non me lo meritavo!”.
«Sei... Sei...» iniziò Seo Yeon, ansante, i canini affilati messi in mostra «Non ci sono parole per descrivere cosa sei! Mancano categorie, aggettivi!»
«Andiamo, tesoro, ha vendicato i tuoi bambini», intervenne Sepathia, alzando gli occhi al cielo.
«Non lo ha fatto! Volevo ucciderli io, quei bastardi! Sarebbero dovuti morire per mano mia! Mia!»
Seo Yeon urlava, straziata e arrabbiata, e un’altra emicrania esplose nella testa di Kei; un altro violento mal di testa, uguale a quello avuto innanzi agli esseri umani. Erano dolore psichico ed emotivo tramutati in malessere fisico.
Erano due parti di sé che non collaboravano.
Era lei che cercava di cucire i due pezzi assieme.
«Con quel dannato incendio poteva uccidere anche altri Kumiho e i loro bambini! Lo capisce, Sepathia!? Ha pensato solo a se stessa!» Seo Yeon pianse per la rabbia e desiderò strapparsi le guance per non percepire le lacrime scottarle la pelle. «Per non parlare di quelle esplosioni! Nessuno di noi, nessuno, ha mai fatto esplodere qualcuno! La porti via o la uccido!»
Kei indurì lo sguardo e ribatté a quella minaccia con tono di sfida: «Tu non oserai toccarmi mai più».
Seo Yeon la guardò e agitò le code. «Altrimenti?» sibilò con un ghigno sul viso.
L’altra non replicò, si limitò a sollevare un orecchio.
«Vai via, maledetta», continuò a istigare Seo Yeon, ma Kei restò immobile dov’era.
A quel punto pensò di eliminare il problema e basta: una possessione sarebbe bastata, poi immaginò quanto sarebbe stato soddisfacente vederla bruciare. Allungò una mano verso di lei, spalancò il palmo e le sue code scattarono all’insù. Il suo grido arrivò prima del fuoco: la coda responsabile di quel potere venne brutalmente staccata dal suo corpo da arti invisibili.
La fissò cadere a terra, osservò l’osso sporgente e insanguinato. Con orrore rivolse gli occhi a Kei e una cascata di sangue venne fuori dalla sua bocca, mentre il busto precipitò a terra e le gambe crollarono dalla parte opposta.
Sepathia cacciò fuori la lingua, disgustata, poi voltò il viso di lato e puntò lo sguardo altrove.
«Ed eri quella che diceva di non voler uccidere nessuno», schernì, ridacchiando.
Kei non comprese all’istante le parole di Sepathia.
Fu come se il suo cervello avesse rimosso quell’ennesima uccisione e il suo desiderio di vederla soffrire dopo quello schiaffo, ma quando l’odore del sangue arrivò ai suoi polmoni le gambe cedettero, lasciandola cadere a sedere sull’erba. Pregò che fosse tutto un incubo.
Un brutto incubo.
Scosse la testa, volendo negare le sue colpe, non riuscendo ad accettare ciò che aveva fatto. Ritenne tutto così sbagliato che avrebbe voluto prostrarsi ai piedi Sepathia e implorare la sua condanna capitale; non lo fece perché sapeva che la dea le avrebbe nuovamente riso in faccia, umiliandola ancora e ancora.
«Non voglio essere così», e tornò a piangere nello stesso momento in cui aprì bocca.
Sepathia sorrise melliflua e la raggiunse a passo lento, le sfiorò i capelli corvini e le code tenute sollevate.
«Nessuno vorrebbe,» le sussurrò, «ma a volte è necessario spegnersi per far brillare l’Oscurità»
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