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Autore: Harriet    05/03/2020    1 recensioni
In una città segnata da problemi climatici, sovrannaturali, tecnologici, sociali e politici, i grandi e potenti clan di guerrieri hanno un ruolo di spicco. Quindi, perché uno dei figli del capo di uno di questi clan dovrebbe voler abbandonare la famiglia? Cosa c'è, di così importante, da fargli sembrare preferibile il dolore, l'esilio, la fuga e la disperazione, alla sua vita fino a quel momento?
Forse è il ricordo di quello che è successo a sua sorella. Forse è colpa di una persona che ha incontrato poco tempo fa, e delle sue maledette canzoni.
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
- Questa storia fa parte della serie 'Dietro le quinte della rivolta'
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Partecipa al COW-T 10 di Landedifandom. Missione 2 "Esistenza incontaminata", prompt: questa immagine.
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Questa storia è il seguito di "Canzoni contro la nebbia", che trovate nel mio profilo e che fa parte della stessa serie di questa. Però le due storie sono completamente leggibili in maniera indipendente l'una dall'altra.

Nota: Yedra è una persona non binaria. Purtroppo il nostro linguaggio non contempla un neutro, quindi nel testo, quando è indispensabile, uso il maschile, ma nella lingua dei personaggio Yedra utilizza il genere neutro.


TW: suicidio, violenza, abusi in famiglia, omofobia, sessismo, riferimenti allo stupro.


 
Inseguendo una canzone
 
 
            «È uno di loro, me lo ricordo!»
            «Sì, anch’io l’ho già visto.»
            «Che cazzo, sono tutti uguali: capelli lunghi, treccine e spade grosse. È uguale a tutti gli altri.»
            «Beh, lui la spada non ce l’ha.»
            «No, no, aspetta, io questo me lo ricordo davvero: l’ho visto insieme agli altri. Tutti biondi, ma lui ha i capelli rossi.»
            Ayld riusciva a malapena a tenere gli occhi aperti e faticava a distinguere i tratti del capannello di curiosi chini su di lui. La luce della mattina soleggiata era devastante. L’insieme sgradevole di sensazioni che abitavano il suo corpo gli ricordava l’unica sbronza pesante che avesse preso nei suoi quasi trent’anni di vita. Il problema era che questa volta era ubriaco dell’anestetico che gli avevano fatto il piacere di dargli dopo le ustioni. Chissà quali erano gli ingredienti di merda con cui era fatto. Quando si fosse ripreso e i suoi effetti stupefacenti fossero passati, sarebbe tornato il dolore delle ustioni, quindi in realtà doveva sperare che la finta sbronza non passasse troppo in fretta.
            «Aspetta, cos’ha lì, sulla faccia?»
            «È un tatuaggio.»
            «Sì, infatti, tutti i Sarran sono pieni di tatuaggi.»
            «Non in faccia, però.»
            «Non sarà che…»
            Ayld aprì la bocca, cercando un filo di voce per chiedere a quella gente di spostarsi e lasciarlo respirare. Riuscì a malapena a tossire. La sua testa era piena di ovatta e tutti i rumori gli arrivavano distorti. Sentiva la sabbia umida sotto la schiena e l’acqua del mare che stava inzuppando gli stracci che aveva addosso. Il dolore c’era, ma era ancora sordo. Tra poco però si sarebbe riacceso in tutta la sua forza, lo sapeva.
            «Non è il segno che fanno a quelli che buttano fuori?»
            «Ma chi?»
            «I Sarran. Come sta, la storia? Non è che ti segnano in faccia, per far capire a tutti che non sei più parte del clan?»
            «Dici che l’hanno cacciato?»
            «Allora è solo robaccia inutile. Non possiamo chiedere un riscatto.»
            «No, infatti. Ci rispondono: tenetevelo voi!»
            «Che sfiga, però: stai nel clan più cazzuto di Adraen e ti buttano fuori!»
            Ayld trasse un respiro profondo, spalancò gli occhi, incurante delle lacrime e del bruciore, e studiò finalmente quelli che gli si accalcavano intorno. Erano cinque, tre uomini e due donne, combinati come i classici ladri e tagliagole che bazzicavano i confini di quell’area della città. A pochi passi dalla riva su cui era crollato c’erano le case di quella parte di popolazione che aveva la pretesa di essere un po’ migliore di tutti gli altri perché avevano qualche soldo in più. Erano perfetti per essere derubati: c’era soddisfazione, a entrare nelle loro case, ma mancavano i macchinari folli e gli uomini armati che invece sbarravano la strada ai ladri nelle abitazioni dei membri dei grossi clan.
            Come si era trascinato fin lì, lo ricordava a stento. Era strisciato penosamente fuori dalle mura della fortezza del clan e poi… Poi tutto si perdeva in un incubo dai contorni sfumati e caotici. La cosa più difficile da capire, però, era il criterio che lo aveva portato lì, sulla spiaggia. Cosa stava cercando di raggiungere, in quelle condizioni?
            «Che ne facciamo, allora?»
            «Lascialo lì. Non ha nemmeno più armi, vedi? Non penso possa durare molto.»
            «Già. E quando i Sarran cacciano qualcuno, è roba seria.»
            «Sì, infatti. Non facciamoli incazzare. Andiamo via.»
            Davvero splendido. Faceva schifo persino ai comuni tagliagole. Avrebbe riso, se quel semplice atto non gli avesse causato dolore. Così rimase lì, ad ascoltare il rumore delle onde, chiedendosi cosa sarebbe successo se la marea improvvisa, quella che arrivava senza spiegazione, lo avesse raggiunto in quel momento.
 
            Prima della marea arrivò il dolore. Quello alla schiena in particolar modo era fortissimo, così si costrinse a sollevarsi. Il movimenti fu distruttivo, così quando riuscì a mettersi seduto, subito dovette piegarsi e vomitare. Finalmente riuscì a trovare un minimo di stabilità e cominciò a passare in rassegna la sua generale funzionalità.
            L’effetto dell’anestetico stava svanendo. La lucidità tornava. Le ustioni che gli avevano provocato per cancellare i vecchi tatuaggi di appartenenza al clan bruciavano sempre di più. Quella vasta, sulla schiena, era insopportabile. Quelle sulle braccia erano più piccole e superficiali, erano vagamente tollerabili. Quella sul petto sembrava fare più male con ogni momento che passava.
            Gli faceva male anche il tatuaggio sulla guancia destra, appena fatto: una luna spezzata, per annunciare al mondo che il figlio quartogenito del capoclan non era più parte della famiglia.
            Per il resto, si sentiva debolissimo e confuso, e non aveva idea di dove potesse andare.
            Non aveva niente, con sé, se non quel paio di brache stracciate e quella camicia bianca quasi a brandelli, le uniche cose che gli erano state date, insieme alla dose abnorme di anestetico, prima di mandarlo via.
            Da quanto tempo era finita, quella crudele cerimonia con cui i Sarran sancivano la fine della tua affiliazione con il clan? Quante ore? Aveva i ricordi scombinati e il senso del tempo e dell’orientamento completamente fuori fase. Sapeva che era successo tutto la notte precedente, ma che ore erano? Non c’era da fidarsi del cielo sopra Adraen, mai. Sembrava una mattinata luminosa, azzurra e violetta, ma forse in realtà era sera. Forse era notte, e quella luce proveniva da uno dei mondi che talvolta si sovrapponevano al loro spicchio di universo. Adraen era infida più dei Sarran e delle loro rigide regole.
            Riuscì a mettersi a gambe incrociate, con la faccia rivolta verso il mare. Stirò la schiena, cercando dentro di sé tutto l’allenamento che aveva sviluppato negli anni per resistere al dolore. Trovò il ritmo giusto del respiro e si concentrò su quello. Da qualcosa doveva ripartire. Poteva farlo da lì. Dall’inspirare ed espirare, con un ritmo regolare.
            Da qualcosa doveva ripartire.
 
            «Voglio lasciare il clan.»
            Silenzio profondissimo e tagliente. La faccia di suo padre, pallida come non l’aveva mai vista. Varie sfumature di rabbia sulle facce dei suoi fratelli. Un brusio incredulo tra le fila dei loro uomini.
            Vuole lasciare il clan? Il figlio del capo vuole lasciare il clan?
            Poteva immaginare i commenti e i pensieri. È sempre stato strano. Non è mai stato per davvero uno di noi. I suoi fratelli lo sfottono perché, alla fine, non ammazza mai nessuno. Un paio di volte, quando era più giovane, lo hanno ripescato in mezzo alla folla di qualche stupido festival popolare. Era lì a guardare il teatro. Non è mai stato normale. Lo sai che l’hanno trovato con un uomo, una volta? Suo padre si è incazzato parecchio. Già da quello si capiva, che questo figlio era venuto fuori male. I Sarran non fanno queste cose.
            Tutti commenti che aveva sentito, tra le mura della fortezza, così tante volte, fin dalla sua adolescenza. Non che gliene fosse mai fregato molto. Forse all’inizio sì, quando era un ragazzino, ma poi tutto aveva cominciato a perdere importanza. Sì, era membro di uno dei clan di guerrieri più ricchi e potenti di Adraen. Sì, questo gli garantiva uno status superiore a quello del 90% della popolazione. Sì, lui era molto diverso dagli altri Sarran.
            Sì, sarebbe voluto essere come loro, all’inizio, ma poi…
            «Vuoi lasciare il clan?»
            «Sì.»
            «Non sono sicuro di aver capito bene.»
            «Hai capito benissimo. E lo hai sempre saputo.»
            «E perché vorresti farlo?»
            «Perché sì. Perché non mi ci vedo, una vita intera a sventrare la gente che non ci piace e a gozzovigliare con tutti i soldi che il governo ci dà per non fare nulla di realmente utile.»
            Suo padre era rimasto zitto. Cos’altro doveva dire, per farlo esplodere?
            «Perché dovremmo difendere la gente di Adraen dai mostri, ma per la maggior parte delle persone, è meglio incontrare un mostro che uno di noi.»
            I suoi fratelli fremevano. Zii, cugini e uomini del clan aumentavano il loro parlottare.
            «Perché se ho voglia di scopare con un uomo, voglio poterlo fare, anche se le idee del cazzo di questo clan dicono di no. Insomma, tu e tutti gli altri scopate tutte le donne che vi pare, anche se loro non sono d’accordo. Non penso di essere molto peggiore di voi.»
            Ancora niente, da suo padre. Ayld non sapeva più perché fosse così importante, farlo incazzare.
            «Perché…»
            Ecco, la bomba era lì, pronta per essere lanciata.
            «Perché non voglio avere niente a che fare con quelli che hanno portato mia sorella al suicidio.» Lì la mano di suo padre era scattata e gli si era chiusa attorno alla gola. Perfetto, c’era riuscito.
 
            Alzarsi in piedi fu un processo lungo, riuscire a rimanere stabile fu un’impresa ardua. Ora gli mancava solo di cominciare a camminare. I suoi piedi scalzi affondavano nella sabbia. Onde sempre più grandi e rapide gli lambiavano le gambe e lo schizzavano. C’era una marea imprevista in arrivo, di sicuro. Doveva andarsene da lì. Doveva capire dove andare.
            A cosa aveva pensato, quando aveva annunciato di voler lasciare il clan? Perché lo sapeva, cosa gli sarebbe toccato. Dopo la rabbia e la furia dei suoi, dopo tutto il dolore fisico, di cui i Sarran erano sempre molto prodighi, con i nemici, sapeva che c’era solo l’esilio. Dove aveva pensato di trascorrerlo, quell’esilio?
            Il pensiero tornò a fargli visita, spingendolo a voltarsi alla sua sinistra, cercando il punto più estremo della costa, dove la terra disegnava quell’arco che dava il nome a tutta la baia. Persino da lì, dov’era lui, si vedeva la foresta di edifici semidistrutti e abbandonati, tra i quali si nascondeva la sua esilissima speranza per il futuro.
            Speranza era una parola grossa, sì, quasi una parola impronunciabile. L’aveva sempre ritenuta stupida e pericolosa, ma in quel momento era tutto ciò che aveva.
            Quanto gli ci sarebbe voluto, per arrivare lì, in quelle condizioni? Giorni, probabilmente. Se fosse riuscito a trovare le forze, prima di tutto, e poi un po’ di elemosina grazie alla quale nutrirsi, forse…
            L’alternativa era sedersi lì e aspettare di morire.
            Un’onda più alta delle altre gli raggiunse l’inguine. Un frammento della canzone che custodiva gelosamente da mesi nella sua testa tornò a fargli visita.
            Tornò a guardare le case abbandonate. Aveva fatto una fatica incredibile, a ottenere le poche informazioni che aveva, relativamente alle persone che cercava. Poteva essere tutto falso. Magari erano stati laggiù, ma poi se n’erano andati. Eppure, quello era tutto ciò che aveva.
            Respirò a fondo e cominciò a muovere il primo passo. Poco dopo camminava, lento e zoppicante, verso quella meta della quale non sapeva nulla, se non che era l’unica, fragilissima possibilità che la sua vita valesse ancora qualcosa.
 
            Tutti dicevano che era rimasto sconvolto dalla morte di Hilder perché l’aveva trovata lui, ma per Ayld quel commento era assurdo. Tua sorella si lancia da una torre di ventisette metri, e tu non dovresti rimanere sconvolto? Era inconcepibile che tutti i suoi fratelli l’avessero presa così bene. Non c’entrava niente il ritrovamento, anche se gli aveva lasciato un bagaglio di incubi che, sospettava, si sarebbe trascinato dietro per sempre.
            Invece la morte di Hilder era stata assorbita piuttosto bene, dal clan. Era stata giudicata come una di quelle cose da debole, fragile donna. Insomma, c’erano dei buoni motivi, se i Sarran formavano come guerrieri e membri del clan solo gli uomini.
            Non importava che il resto di Adraen se la ridesse, di quell’idea, e che altri clan avessero guerriere che potevano tranquillamente fare il culo ai migliori dei Sarran. No: per loro, Hilder aveva scelto la morte perché era una donna. Non perché l’avevano costretta a sposare uno dei mercenari affiliati al clan, che aveva bisogno di un aggancio di qualche tipo per essere ammesso pienamente nei Sarran. Le idee arcaiche del capofamiglia dicevano che un matrimonio era perfetto, allo scopo. Un semplice editto che conferiva all’uomo il titolo di membro onorario dei Sarran, no.
            No: doveva violare Hilder contro la sua volontà, per essere veramente accettato nel clan.
            Hilder aveva chiesto, per favore, che non la coinvolgessero nella cosa. Lo aveva chiesto per mesi. Lo aveva chiesto a sua madre, ormai completamente rinchiusa nel suo mondo da anni. Non le aveva nemmeno risposto. Lo aveva chiesto al padre e ai fratelli, in tutti i modi, ma nessuno l’aveva considerata.
            Ayld ci aveva provato, a supportare le sue richieste, ma Ayld non era proprio il membro della famiglia più stimato e rispettato del clan. Era considerato poco più che una donna, per tutta una serie di motivi: prima di tutto, c’era stato l’episodio in cui lo avevano beccato in intimità con un uomo. Non era certo roba da Sarran, quella, e se altri del clan indulgevano in quel genere di vizio, erano più svegli di lui e non si facevano beccare. Poi c’era la faccenda del suo amore per l’arte popolare, le fiere paesane e roba simile. Tutti lo sfottevano, ma nessuno aveva davvero capito cosa gli piacesse, di quegli assembramenti.  Nessuno aveva capito che il problema di Ayld era il canto. Se c’era gente che cantava, perdeva la testa.
            Insomma, Hilder e la sua volontà non valevano niente, e l’unica persona di famiglia disposta a supportarla valeva appena un briciolo più di lei. Così tutto era andato come previsto dal capoclan. Tutto, tranne il piccolo particolare che, un mese dopo il matrimonio, Hilder aveva deciso di uscire di scena.
            Ayld non lo avrebbe mai perdonato a nessuno della sua famiglia. Mai. A nessuno. Però era rimasto con loro, perché non avrebbe saputo cos’altro fare della sua vita.
            Finché un giorno si era trovato a dare la caccia a uno di quei vigilanti straccioni, gli Aedi, con le loro pretese di giustizia e i loro metodi deliranti. Aveva inseguito quel tizio fino dentro a uno dei luoghi più pericolosi e infestati di Adraen. E lì, per venirne fuori vivi, si erano dovuti alleare. Il vigilante aveva salvato la vita di Ayld, facendosi quasi ammazzare da un mostro.
            Il vigilante era giovane e molto attraente, e soprattutto, aveva cantato.
            Se c’era gente che cantava, Ayld perdeva la testa.
            Hilder aveva iniziato a spezzare il suo legame con il clan. Le canzoni del vigilante gli avevano dato il colpo di grazia.
 
            Quanto tempo gli ci sarebbe voluto, per raggiungere quella zona desolata, dove, secondo le informazioni che aveva raccolto, si nascondevano gli Aedi?
Giorni. E lui aveva camminato, e a volte strisciato, per giorni, rischiando la vita, dormendo all’aperto, urlando per il dolore, campando a malapena con qualche avanzo misericordioso gettatogli dalla gente che incontrava. A guidarlo c’erano solo uno stupore delirante e lo sferragliare continuo dell’Orologio dell’Est, uno dei resti del tentativo fallito di migliorare la città, una trentina di anni prima. I miracoli che gli Orologi avrebbero dovuto fare non si erano mai visti, ma la città era ancora vegliata da quelle quattro altissime creature meccaniche e inquietanti, che segnavano ciascuna un’ora diversa e spandevano nella loro zona suoni estenuanti e sostanze tossiche. Ma l’Orologio dell’Est era uno dei suoi pochi punti di riferimento per trovare la sua meta.
Poi era arrivato. Aveva miracolosamente superato sbarramenti, occhi sospettosi, malintenzionati, parole d’ordine e strade bloccate, e ora aspettava davanti a una porta chiusa. Sapeva che dall’altra parte c’erano le persone che era venuto a cercare. Forse. Così gli avevano detto.
            Così aspettava.
            Quando la porta si aprì, Ayld aveva già cominciato a pensare che fosse tutto un inganno. Invece si trovò davanti una donna alta e robusta, con la pelle nera e i capelli raccolti in una massa di treccine fucsia e rosa. La donna indossava una corazza di cuoio, un’ampia cintura alla quale erano appese due pistole e una serie di fiale dal contenuto colorato, una corta gonna verde pistacchio e stivali marroni alti fino alla coscia. Aveva un bel viso dai grandi occhi scuri, che lo guardavano dietro le lenti di due occhialetti dalla montatura fine.
            «Benvenuto.»
            «Sto cercando…»
            «Lo sappiamo, chi stai cercando, o non saresti qui. Vieni, vediamo se possiamo fare qualcosa per te.»
            Lo fece entrare in una stanza piccola e spoglia. L’unica cosa gradevole era il fuoco che bruciava in un braciere in un angolo. C’era un gruppetto di sette o otto persone, per la maggior parte con le facce coperte da maschere o distorte da un trucco molto evidente. La donna che lo aveva accolto era l’unica a viso scoperto.
            «Raccontaci come mai sei qui» gli disse, prendendo posto su uno sgabello in mezzo agli altri ascoltatori.
            «Sono Ayld Sarran. Lo ero. Quartogenito del capoclan dei Sarran. Ma ho lasciato il clan.» Indicò il tatuaggio sulla guancia. Poi si tolse la camicia malridotta che indossava, con fatica, e mostrò le ustioni che gli avevano fatto per cancellargli i tatuaggi che indicavano l’appartenenza al clan.
            «Va bene, sei credibile» gli disse la donna. «Hai lasciato i Sarran. Come mai?»
            «Non avevo più niente a che spartire con loro. Non credo di averlo mai avuto.»
            «Perché sei venuto proprio qui?»
            «Perché c’è una persona… È un uomo, giovane. Non è molto alto, ha i capelli neri e mossi, e parla di sé usando il neutro. Quando l’ho incontrato vestiva da donna.»
            «Da donna» commentò qualcuno, ridacchiando.
            «Poveretto: viene dai Sarran. Per loro tutto il mondo è diviso in cose da uomo e da donna. Devi capirlo.»
            «Questa persona sa cantare. Una volta mi ha salvato la vita. E dopo mi ha detto che se mai avessi voluto lasciare il clan, avrei potuto cercare gli Aedi.»
            Mentre lo diceva, si accorse di quanto le parole suonassero strane, perfino stupide. Uno degli Aedi gli aveva salvato la vita e ora… Lui voleva diventare uno di loro? Così, dal nulla? Dopo averli cacciati per anni? Aveva senso, ciò che stava dicendo? Oppure era solo una creatura patetica, sporca, maleodorante e senza scopo, e avrebbe fatto meglio ad aspettare che se lo prendesse la marea?
            «Come si chiama, questa persona?»
            «Non mi ha voluto dire il suo nome.»
            «Non che ce ne sia bisogno…» borbottò qualcuno. Altri risero. La donna fece un sorriso.
            «Diciamo che la persona di cui parli fa effettivamente parte del gruppo e può confermare la tua storia. Che cos’hai da offrire, agli Aedi?»
            «So combattere. Conosco molte cose sui Sarran. Posso esservi utile. Non ho alcuna richiesta. Voglio solo… Mi basta offrire quello che so fare. Decidete voi come usarlo.»
            Silenzio. Poi uno dei presenti, che indossava una maschera scura e una cappa rossa, emerse dal gruppetto e si fece avanti, raggiungendo Ayld.
            «Io l’ho salvata a te, tu l’hai salvata a me, la vita» disse, con quella voce limpida che aveva infestato i sogni di Ayld per settimane. Si tolse la maschera e gli sorrise. «Bentrovato, Ayld. Non hai idea della felicità che provo, nel vederti qui. Ho sempre pensato che tu fossi totalmente sprecato, per i Sarran.»
            Ayld non disse niente. Chinò la testa e rimase in attesa.
            «Il capo degli Aedi ha bisogno di una guardia del corpo» gli disse l’altro. «Te la sentiresti, di assumere questo ruolo?»
            «Se è quello che volete, lo farò.»
            «Molto bene. Questo è uno dei nostri rifugi in questa zona. Abbiamo un paio di stanze abbastanza decenti dove ti potrai lavare e riposare. Ti accompagno lì. Più tardi vedrai il capo in persona.»
            Ayld annuì. Voleva chiedere il nome alla persona che gli stava davanti: quella curiosità gli ardeva dentro da così tanto tempo. Ma non lo fece. Lo seguì in un’altra stanza, con quella leggerezza che si prova quando qualcun altro ci dice cosa fare, e noi possiamo affidarci completamente.
            Gli diedero acqua per lavarsi e dei vestiti che più o meno gli andavano bene. Gli fornirono anche medicinali per le ustioni, e fu proprio l’Aedo senza nome a medicarlo. Volle anche aiutarlo a lavarsi i lunghissimi capelli rossi, nonostante le proteste di Ayld. Ma l’altro lo ignorò e rimase a lungo con lui, finché Ayld non si coricò sul giaciglio che gli avevano preparato.
            «Riposati. Domani conoscerai il capo.»
            «Grazie» bisbigliò, scivolando nel sonno. «Il tuo nome…»
            Non gli giunse nessuna risposta.
 
            La mattina successiva aprì gli occhi e l’altro era sempre lì, seduto per terra. Era vestito diversamente, aveva un elaborato trucco sull’azzurro e fermagli d’argento tra i capelli.
            «Buongiorno, Ayld.»
            Lui si sedette, lentamente, e si stropicciò gli occhi.
            «Puoi farmi di nuovo la stessa domanda, Ayld.»
            «Cosa…»
            «C’è una cosa che vuoi sapere, no?»
            «Come ti chiami?»
            «Yedra.»
            «Yedra… È il nome del capo degli Aedi.»
            «Un nome d’arte, in realtà, ma ormai mi si è appiccicato addosso, e a voler dire la verità, lo preferisco al mio vero nome. Non so cosa ne pensi del teatro, e quindi non so se hai colto la citazione, ma naturalmente è stato scelto in onore della protagonista della Trilogia delle Tredici Arpe
            «Tu…» Ayld respirò e studiò la persona che gli stava davanti. «Tu sei il capo degli Aedi?»
            «In persona. Mi sto fidando davvero molto, di te, Ayld. In generale pochissimi, anche tra i miei, conoscono la mia faccia. Sai, ho una doppia vita: faccio l’attore e poi il vigilante, quindi meno gente mi conosce, più sono al sicuro. Ma se devi diventare la mia guardia del corpo, avrai bisogno di sapere chi devi difendere.»
            «Avevo quasi catturato il capo degli Aedi.»
            «Sì. Se mi avessi preso e portato in dono a tuo padre, ne sarebbe stato molto contento. Ti stai pentendo di avermi permesso di fuggire, dopo che ti ho salvato?»
            Ayld scosse la testa.
            «No. Volevo andarmene. Non sarei mai rimasto lì per tutta la vita.»
            «Mi dispiace che la tua separazione dalla tua famiglia sia stata così gravosa. Spero che ti riprenda al più presto.»
            «Sto bene.»
            «Sai, a differenza dello sfoggio di stupida virilità del tuo ex clan, qui siamo tutti piuttosto tranquilli, riguardo la possibilità di esprimere le proprie emozioni. Non devi dimostrare niente. Appena sarai in grado, troverai qualche arma che ti piace e la userai per impedirmi di finire di nuovo nei guai.»
            «Ieri mi hai aiutato come se fossi il mio servo.»
            «E quindi?»
            «Non è una cosa che… Non è una cosa tipica da capo.»
            «Qui abbiamo un concetto di gerarchia un po’ particolare. Imparerai. Spero che ti piaccia. Dimmi un po’: quel tatuaggio in faccia, preferisci che troviamo il modo di cambiarlo, vuoi che lo faccia sparire con il trucco o…»
            «No. Lascialo. Che la gente lo sappia, da dove vengo. Aver lasciato i Sarran è un motivo di orgoglio. Se poi pensi che possa creare dei problemi e rendermi riconoscibile, allora fai come credi meglio.»
            «Decideremo di volta in volta. La cosa bella del teatro è che puoi trasformarti in chiunque, a seconda delle esigenze. Ne vedrai, di teatro, Ayld. Non ci chiamiamo Aedi per nulla. Per stravolgere completamente questa città abbiamo bisogno sia dell’arte che delle nostre attività illegali.»
            «Farò quello che mi chiederete.»
            «E tu non hai nessuna richiesta per noi?»
            Rispose senza pensarci.
            «Posso sentirti di nuovo cantare?»
            Yedra rise, stupito. Poi tacque, aprì la bocca e diede vita a una canzone.
 





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