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Autore: imunfjxable    07/03/2020    1 recensioni
Un breve racconto della vita di un sasso, attraverso la storia.
"I sassi nelle tasche se li mettono quelli che si ammazzano. Quelli che si ammazzano si mettono i sassi nelle tasche. Prendono i sassi, camminano, e si buttano in acqua. Si lasciano trasportare in basso, mentre lanciano un ultimo sguardo verso la luce, e si adagiano sul fondo. E lì ci restano, perché ci vogliono restare (almeno fino a quando qualcuno non va a reclamarne il cadavere con prepotenza). Ma i sassi invece?
Nessuno ci pensa mai ai sassi. Non possono fare nulla se non obbedire in silenzio, succubi delle decisioni di chi crede di comandare il mondo. Non è che i sassi abbiano tutta questa voglia di essere il mezzo con il quale ci si può togliere la vita. Non hanno nemmeno tanta voglia di restare a mollo nell’acqua, mentre i pesci mordicchiano il cadavere fresco del disgraziato, che si decomporrà a breve. Io però ci penso ai sassi, ma questo è perché sono un sasso. "
Genere: Fantasy, Generale, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Breve (ma non troppo) storia di un sasso.


I sassi nelle tasche se li mettono quelli che si ammazzano. Quelli che si ammazzano si mettono i sassi nelle tasche. Prendono i sassi, camminano, e si buttano in acqua. Si lasciano trasportare in  basso, mentre lanciano un ultimo sguardo verso la luce, e si adagiano sul fondo. E lì ci restano, perché ci vogliono restare (almeno fino a quando qualcuno non va a reclamarne il cadavere con prepotenza). Ma i sassi invece?
Nessuno ci pensa mai ai sassi. Non possono fare nulla se non obbedire in silenzio, succubi delle decisioni di chi crede di comandare il mondo. Non è che i sassi abbiano tutta questa voglia di essere il mezzo con il quale ci si può togliere la vita. Non hanno nemmeno tanta voglia di restare a mollo nell’acqua, mentre i pesci mordicchiano il cadavere fresco del disgraziato, che si decomporrà a breve.
Io però ci penso ai sassi, ma questo è perché sono un sasso. Proprio uno di quelli che ora è sul fondo di un fiume al quale non appartiene e che non vede l’ora di trovare un modo per tornare sulla terra ferma. Eppure, prima di trovarmi qui sotto, zuppo d’acqua, mentre i pesci mi guardano un po’ con disprezzo (perché sono un assassino) e con divertimento (perché l’acqua non fa per me), ero una montagna. Sono stato tante cose ora che ci rifletto, ma questo è perché io sono un sasso, e i sassi sono la Terra. Siamo la materia del pianeta, l’essenza che gli ha dato forma e che ne ha ospitato la vita.
Un pesce mi passa davanti, coprendo la mia figura tonda, facendomi perdere il contatto con l’obiettivo della videocamera.
“Stiamo cercando di girare un docufilm qui, non se ne è reso conto Signor. Fisch?” sbotto.
Mi aggiusto come meglio posso, facendo segno al regista, Kamień, di ricominciare a girare. Lo osservo mentre si aggiusta il cappello bianco (abbastanza superfluo quando ti trovi nel letto di un fiume), che spicca sulla sua colorazione nera. Kamień è venuto direttamente dalle miniere di carbone della Polonia per girare questo documentario con me. È una pietra per bene, tutta d’un pezzo, che ha occhio per i dettagli e per le piccole cose che passano inosservate, cavallo di battaglia dei suoi innumerevoli e pluripremiati film. Anche lui, come me, è uno dei membri fondatori del PSI, Pro Sassi Indifesi, il partito che nasce per difendere i sassi dai soprusi e dall’opinione comune che i sassi non servano a nulla. Pertanto Kamień ora è qui, sul fondo del fiume dove mi trovo ora, per registrare la mia storia, in modo da poter raccogliere una testimonianza importante per far aumentare la consapevolezza sulla nostra condizione. Vogliamo dimostrare al mondo intero che dovrebbe mostrarci un po’ di riconoscenza, perché senza sassi la vita non esisterebbe. E no, non sto esagerando. Io c’ero. Io ci sono sempre stato.
Forse sempre è iperbolico. Non so quando sono attivamente diventato sasso, ma posso affermare con certezza che il momento in cui ho acquisito piena consapevolezza del mio essere è stato moltissimo tempo fa. Ho passato anche molti anni in uno stato di quiete quasi noioso, a mollo nell’acqua, senza fare niente. In realtà ho capito solo dopo tanto tempo che una colonia di minuscoli esseri unicellulari si muoveva su di me, cresceva e si moltiplicava, solleticando il mio dorso grigiastro. Solo perché non facevo niente, non significava che non fossi utile a qualcosa. Il discorso dell’utilità- inutilità mi ha sempre causato problemi, soprattutto da giovane, mentre vedevo il mondo attorno a me crescere e fiorire, divertendosi e vivendo.
La prima volta che mi sono sentito utile- ma utile per davvero- è stato veramente molto tempo fa. Erano passate centinaia di anni da quando ero una roccia che si annoiava sul fondo del mare, e l’acqua si era ritirata, lasciando posto all’aria, e alla luce. Mi annoiavo un po’ anche lì, ma questa situazione non durò molto. Mi trasferii in una grotta, che non era di mio particolare gradimento, ma i Grandi Sassi (non sto a spiegarvi la complessa gerarchia geologica di noi Sassi, ma vi basta sapere che loro, quelli che sono più vicino al cuore della Terra, sono quelli “che comandano” e che decretano gli spostamenti salienti di tutti noi, che ci muoviamo a placche, e veniamo sballottati con grande forza e casino un po’ ovunque) avevano deciso così.
Dalla mia posizione potevo vedere molte cose, come il sorgere e il calare del sole- il mio passatempo preferito- e diverse creature, che correvano libere sul terreno brullo. Fu un milione di anni fa, se non ho sbagliato i conti, che le cose cambiarono. Alcuni di quegli animali entrarono nella caverna per cercare riparo dal freddo, e muovevano i loro tozzi arti goffamente, a fatica, tentennando ad ogni movimento. Fu forse per reggersi alla parete, che una zampa pelosa mi strinse e mi strappò dal mio gruppo, portandomi vicino alla sua bocca, per mordermi. I suoi denti erano duri e spessi, ma io lo ero di più. Un gemito straziante uscì dalle sue labbra sporche, mentre mi scagliò, per rabbia o per dolore, contro la parete opposta alla mia, quella bianca e sottile.                    Fu in quell’esatto istante che accadde qualcosa. Quando io e una delle pietre ci scontrammo, furono faville. Le scintille si sprigionarono nell’aria, rischiarando l’oscurità. Caddero al suolo come comete, tra i versi primordiali degli ominidi nella caverna, che mi si riavvicinarono e mi lanciarono nuovamente contro le pietre bianche, mentre le scintille scendevano lente e luminose su un mucchietto di foglie secche trasportate dal vento. Si accese un fuoco, il fuoco.
Viaggiai con loro per molto tempo, passando da mano a mano, fin quando caddi e mi dimenticarono per terra. Godersi quel riposo fu piacevole, e desiderai quasi di poter restare con i miei nuovi amici per sempre. Eppure dentro di me mi torturavo, e nella notte mi domandavo spesso come qualcuno potesse dimenticarsi così facilmente di me, senza chiedersi che fine avessi fatto. Ora, dopo le mie innumerevoli esperienze, posso solo rispondere dicendo che gli umani sono davvero, davvero strani.
Credo di averne avuto la conferma quando mi chiusero in una teca, nella “Casa di Dio”. Eppure, anche se era casa sua, io questo “Dio” non l’ho mai visto, né l’ho mai conosciuto (ma forse riuscirò a farlo in futuro). Venivano ogni giorno e da ogni parte del mondo per vedermi e sfiorarmi: c’era chi si inginocchiava e mi chiedeva di fare miracoli, come se avessi un qualche potere sovrannaturale, chi mi guardava con ammirazione o chi più semplicemente si baciava le dita affusolate e le poggiava sul vetro, quasi come se potesse toccarmi mediante questo gesto infantile.
Si era sparsa la voce che “il figlio di Dio”, mi avesse preso durante una delle sue prediche e avesse pronunciato, avendomi tra le mani “Chi è senza peccato scagli la prima pietra”. Almeno Lui sono riuscito a conoscerlo però. Non così, perché nessuno mi raccolse più da terra da quando quegli ominidi mi lasciarono sul suolo sabbioso (se non uno della loro specie molto strano- credo nel 1190-, con il volto coperto d’argento e marchiato da una croce sul petto, che mi pose qui in questa Chiesa). Eppure, il Figlio, mi passò a pochi metri di distanza quando pronunciò questa frase. Quando lo sentii parlare rimasi estasiato da tanta bravura e rimasi davvero dispiaciuto quando venni a sapere della sua morte; era un bravo ragazzo. Cosa avesse fatto poi per far incazzare questi umani così tanto me lo domando ancora- sempre di notte, assieme alla questione del dimenticarsi delle persone. Aveva detto solo di essere gentili gli uni con gli altri. Eppure, se ci penso attentamente, mi sembra naturale che questo possa averli fatti arrabbiare.
Pensate che una volta uscito da questa prigione di cristallo sono finito in un cantiere, dove un giorno un operaio mi ha afferrato e mi ha piazzato in un muro, assieme ad altre pietre. Eravamo felici, lì. Tutti assieme, provenienti un po’ da tutto il mondo, per assolvere uno scopo ben preciso (e qui ritorniamo alla questione dell’utilità): essere un muro. Fui un po’ meno felice quando seppi a cosa serviva quel muro. Me lo disse Sten, un sasso svedese, che era stato posizionato accanto a me.
“Klip, ma tu lo sai a che serve questo muro?”
“Non so Sten, a dividere le cose. In genere è questo che fanno i muri. Tengono fuori qualcosa, proteggiamo la città.”
“Klip, noi siamo un muro nella città”
“In effetti, non ci avevo mai fatto caso”- dissi guardandomi intorno- “e cosa stiamo tenendo fuori esattamente?”
“Stiamo dividendo le persone Klip. Non li senti la notte, quando a volte qualcuno viene qui e piange, allungando lo sguardo dall’altro lato, come se potesse vedere oltre?”
Pensai molto alle parole di Sten, e quella notte (sempre mentre non dormivo per rispondere ai miei soliti quesiti) capii cosa aveva provato a dirmi. Il mio sguardo fu catturato un uomo di mezza età, che passeggiava in maniera troppo animata, procedendo celermente in linea retta, percorrendo a ripetizione la stessa distanza. Si fermò all’improvviso quando una voce lo richiamò, severa e senza volto, immobilizzandolo. Vidi quella sera uno dei pochi atti di umanità sui quali ebbi la fortuna di posare gli occhi. L’uomo aveva gli occhi stanchi e pochi capelli in testa, le mani callose e cercava di nasconderle nelle tasche della giacca lacerata, per ripararsi dal freddo berlinese.
“Sono tutti dall’altro lato. Sono tutti a Berlino Ovest. Io sono rimasto solo” disse.
“Tunnel 57”
Rispose solo questo quella voce imponente, che non ho mai avuto la fortuna di associare ad un volto. L’uomo sorrise al vuoto riconoscente, piegandosi dinanzi alla bontà del nulla, e riprese la sua strada in silenzio, ma con occhi vispi e speranzosi. Che fosse stata quella voce il vero Dio?
Quando demolirono il muro, mi separai a malincuore da Sten. Mi prese con sé una ragazza, come ricordo. Ero perplesso dalla sua scelta: perché ricordare tempi bui? Solo ora comprendo che la memoria è importante, perché la storia ci insegna ad evitare il buio, evitando strade già percorse, cercando la luce in quelle nuove.
Rimasi a casa di quella ragazza per molto tempo, fin quando non mi donò a suo nipote. Mi ripose in una libreria, ma i libri non sono mai stati tipi loquaci, pur essendo pieni di cose da dire. Bisogna aprirli per sapere cosa hanno da dire, e non ne ebbi mai la possibilità. Desiderai spesso- sempre di notte- di essere spostato, e qualche tempo fa, successe.
Mi prese e mi mise in tasca. Capii troppo tardi perché ero nella sua tasca, e purtroppo, non fui in grado di fare nulla per fermarlo. Quando entrai in acqua, per la prima volta desiderai di non essere pesante e di pietra, ma di poter essere leggero e dolce, siccome la vita non lo era stata con lui.
Anche se sono nato in acqua, non mi è mai piaciut
“Taglia” urla Kamień al cameraman.
“Ci serve un finale ad effetto Klip”
“Non saprei che dire Kamień. Sai, penso che noi sassi non potremo mai avere l’onore di parlare di fine. Siamo eterni. Abbiamo la storia dentro di noi, ma ambiamo all’immortalità”
   
 
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