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Autore: Freya_Melyor    09/03/2020    3 recensioni
~ Terza classificata al contest "Un fiore per tante eroine" indetto da NevilleLuna sul forum di EFP ~
One-shot introspettiva sulle emozioni provate da Edith quando, dopo aver perso le tracce di Michael e aver scoperto di aspettare un figlio, si ritrova nuovamente catapultata in quello che sembra l'ennesimo limbo di dolore e solitudine.
Dal testo:
"Sono sempre stata considerata privilegiata, una giovane donna la cui buona sorte pare non aver avuto limiti: nobile lignaggio, casata rispettabile, ottima istruzione, cospicue disponibilità... eppure, nonostante sia ben consapevole della condizione e dello status in cui verso, posso affermare con certezza che tutto questo non porta alla felicità né a quella che la gente considera fortuna. [...]"
Genere: Introspettivo, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Edith Crawley
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Sono sempre stata considerata privilegiata, una giovane donna la cui buona sorte pare non aver avuto limiti: nobile lignaggio, casata rispettabile, ottima istruzione, cospicue disponibilità... eppure, nonostante sia ben consapevole della condizione e dello status in cui verso, posso affermare con certezza che tutto questo non porta alla felicità né a quella che la gente considera fortuna.

Per tutta la vita non ho fatto altro che sentirmi ordinaria e dimenticata, sia come figlia e sorella che come donna. Non ho mai percepito chissà quale particolare interesse nei miei riguardi da parte della mia famiglia, da sempre occupata ad incoraggiare le pretenziosità di Mary o a tenere sotto controllo il carattere ribelle di Sybil; in quanto donna, poi, sono sempre stata conscia di non avere alcun tratto particolare – se non l'essere semplicemente me stessa – che potesse farmi ricordare nelle memorie di un uomo. Gli uomini, già... Patrick, Matthew, sir Anthony, Michael... tutti loro hanno abitato il mio cuore e ognuno, andandosene, ne ha portato via un pezzetto. Quest'esistenza invidiatami da molti mi ha ripetutamente posta dinanzi a delle prove; ho continuato a incassare colpo dopo colpo, ma l'essermi sempre rialzata non è stato sinonimo di forza: le cadute non sono mai state prive di lividi e il dolore non mi ha temprata affatto.

Dopo l'umiliazione e il rifiuto subiti da sir Anthony, mi ero convinta di non essere tagliata per l'amore; avevo deciso di abbandonare ogni speranza, troppo afflitta per poter anche solo immaginare di ricominciare da capo col rischio di crollare di nuovo, ma poi... poi conobbi Michael e tutte le paure che avevo si sciolsero come neve al sole: non mi importava che la mia famiglia all'inizio non lo considerasse abbastanza – probabilmente per loro non ero mai stata abbastanza neanche io –, non mi importava che fosse ancora sposato e non mi importò quando mi concedetti anima e corpo all'uomo che mi aveva rapita sebbene non fosse mio marito. Lo amavo con tutta me stessa e l'avrei aspettato per il resto dei miei giorni, attendendo lui e il documento che ci avrebbe permesso di coronare legalmente il nostro sogno. Ma più il tempo passava, più le tracce di Michael si dissolvevano nel nulla. Non avevo timori in merito alla sua decisione, ero sicura di ciò che provavamo l'uno per l'altra; a preoccuparmi era invece la sua incolumità. La paura che il destino gli avesse giocato un brutto tiro mi tormentava giorno e notte e, insieme a essa, anche il senso di colpa... sì, perché se le nostre strade non si fossero mai incrociate, Michael non avrebbe sentito l'esigenza di intraprendere quel tortuoso viaggio dal fine abbastanza complicato. Cominciavo a temere che le mie sventure si fossero riversate su di lui, rendendolo malcapitato proprio come me. E, tra un'inquietudine e un'altra, ricevetti quello che fu il colpo più grande da incassare, persino più dell'eventuale probabile morte del mio amato: una gravidanza inaspettata.

Crudele il destino!, da una parte dà e dall'altra toglie. Prima ti fa assaporare la felicità e poi, non appena ti abitui alla sua dolcezza, rende il boccone talmente amaro che è impossibile mandarlo giù. Dove mi aveva portata il fato ingannatore? A un passo dall'altare, a un passo dall'amore, a un passo dall'essere madre del figlio concepito insieme all'uomo che amavo... quel figlio che tanto desideravo ma che non avrei potuto avere. Sapevo di dovermene sbarazzare, anche se la sola idea mi faceva provare repulsione verso me stessa; ma quale altra scelta avevo? Non sapevo se Michael avrebbe mai fatto ritorno e non potevo diventare lo zimbello di Grantham, a far parlare di me ci avevano già pensato le vicissitudini del passato. Inoltre non potevo arrecare una tale vergogna alla mia famiglia, la quale, tra alti e bassi, continuavo comunque ad amare. Non avrei sopportato sguardi delusi e adirati da parte di mio padre né tanto meno taglienti battute da parte di Mary; non avrei tollerato neanche la finta reverenza con la quale avrebbe continuato a trattarmi la servitù, conscia delle voci di corridoio che alcuni di loro avrebbero sparso e che sarebbero riecheggiate per l'intera tenuta.

Eppure, nonostante il buon proposito di tenermi tutto dentro in modo da non angosciare altri se non me stessa, non ce la feci e cedetti irrompendo in un pianto disperato quando la zia Rosamund iniziò a pormi domande. Sebbene non la mostrò esplicitamente, colsi l'amarezza nelle sue parole e questo mi ferì parecchio; presto l'amarezza cedette il posto all'indignazione, quando la resi partecipe della decisione che avevo preso. Non potrò mai dimenticare lo sguardo che la zia mi rivolse, quasi come se avesse avuto dinanzi il più immondo tra gli assassini; non potrò dimenticarlo perché, se mi fossi guardata allo specchio, avrei rivolto alla Edith riflessa lo stesso identico sguardo e, soprattutto, perché era esattamente così che mi sentivo: un'assassina... e lo sarei diventata se la paura e il pentimento non mi avessero colta quando, giunta in quello squallido studio, decisi infine di scappare via. Perché di fondo, benché il terrore mi abbrancasse e il panico mi impedisse di respirare, ho amato la mia dolce Marigold fin dal primo momento, fin da quando scoprii di portarla in seno. Che facoltà avevo per decretare che la sua nascita non avrebbe dovuto compiersi? Ero e continuo a essere sua madre: la donna che tuttora morirebbe per lei; la donna che l'ha portata in grembo per nove mesi, che ha pianto a ogni suo movimento poiché consapevole di non poter assistere ai suoi primi passi, di non poter udire le sue prime paroline, di non poter ammirare il primo sorriso che avrebbe rivolto al mondo.

Non sapevo come avrei gestito la gravidanza, prima o poi il mio stato sarebbe risultato evidente e allora avrei dovuto confessare la verità se non fosse stato per l'idea che ebbe la zia Rosamund: annunciò di voler partire per qualche mese alla volta della Svizzera col fine di migliorare il francese e di gradire la mia compagnia per quel lungo viaggio. Tale sotterfugio, per quanto bizzarro e leggermente campato in aria, convinse tutti a eccezione della nonna Violet... e la nonna, con la sua caparbietà e il suo veder lungo, alla fine scoprì il mio segreto. A dispetto di quanto credessi, fu abbastanza comprensiva per essere una donna della sua età e portatrice di saldi valori; mi offrì sostegno economico e morale tacendo con il resto della famiglia, caricandosi sulle spalle le mie stesse pene. Tuttavia, per quanto la zia e la nonna mi abbiano aiutata prendendo parte del mio carico e facendolo proprio, il dolore che ho provato e che continuo a provare non potrà mai essere compreso da nessuno se non da una madre protagonista della mia stessa sorte.

Ogni giorno trascorso in Svizzera mi avvicinava al parto e, allo stesso tempo, all'abbandono di mia figlia. La decisione era stata presa: avrei partorito e affidato quella che scoprii essere una bambina – la mia bambina – a un famiglia locale che l'avrebbe cresciuta come loro. Era la cosa più giusta per me e per lei, sebbene ammetterlo mi costasse lacrime e fatica, e così feci. Ma, poco dopo essere rientrata in Inghilterra, mi resi conto dell'enorme sbaglio commesso: non potevo lasciare che la mia Marigold, carne della mia carne e sangue del mio sangue, crescesse così lontana da me; non ce l'avrei fatta a perdere anche lei. Era mia figlia, quella figlia che avrei cresciuto insieme a Michael se solo chissà chi o chissà cosa non l'avesse fatto svanire nel nulla; quella figlia che, seppur illegittima, amavo con tutta me stessa. Quella figlia che, ora lo sapevo, era l'unico vero amore della mia vita. Corsi a riprendermela nonostante le proteste di coloro che condividevano il mio arcano, ma non mi importava; non mi importava come, nonostante l'iniziale parere contrario della mia famiglia, non mi era importato di innamorarmi di suo padre e concedermi a lui quell'unica notte. Portai Marigold a Downton e l'affidai alle cure del fattore Drewe e della sua ignara moglie, sicura di poter sopportare una vita fatta sì di menzogne ma allietata dalla vicinanza delle mia bambina. Ciononostante sbagliavo... eccome se sbagliavo.

Averla così vicina eppure così lontana, è una sofferenza che mi squarcia l'anima e la riduce atrocemente in brandelli: quante volte vorrei prenderla e stringerla a me esattamente come una madre dovrebbe fare; quante volte vorrei riempirla di infiniti baci e carezze, rimanere a guardarla giocare e dormire fino ad addormentarmi insieme a lei, avvicinandomela al petto in modo da alternare il mio respiro al suo. Quante volte devo invece ricacciare indietro le lacrime mentre osservo la moglie del fattore fare da madre a mia figlia, trattenendo l'impulso di strappargliela dalle braccia per portarla via con me in un posto lontano dove nessuno ci conosce, dove Marigold è libera di essere mia figlia senza che venga additata come bastarda. E intanto il dolore continua a regnare sul mio animo afflitto, padroneggiando indisturbato mentre acquista terreno, schiaffeggiandomi con maggior impeto all'unisono delle occhiate della signora Drewe che diventano sempre più scortesi a ogni mia visita.

Soffro. Soffro e continuo a soffrire, nutrendomi di tali pene che mi ricordano – giorno dopo giorno – di quanto futile sia l'avere un titolo, un nome e una dote quando non posso avere l'unica cosa che vorrei, l'unica veramente importante che non ha prezzo alcuno: mia figlia.

 

 

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NdA: La storia si svolge durante la prima metà della quinta stagione. Nelle prime cinque puntate vediamo Edith tormentarsi per non poter fare da madre a Marigold, riportata in Inghilterra e affidata alle cure della famiglia Drewe. Edith non ha ancora appreso della morte di Michael (notizia che le perviene nella sesta puntata) ed è per questo motivo che, nella mia storia, non ha ancora preso la decisione di portare via Marigold da casa Drewe e partire insieme a lei.

Stando al contest, bisognava scegliere un fiore con annesso significato e scrivere una storia la cui trama fosse incentrata su quest'ultimo. Il fiore che ho scelto è il Crisantemo, il quale esprime dolore. In questo caso, seppur non si tratti di un dolore per la dipartita di una persona cara (Edith non sa ancora che Michael è deceduto, altrimenti il dolore provato poteva in parte rifarsi alla morte di quest'ultimo), si tratta comunque di una perdita per la protagonista: la perdita di sua figlia, del diritto di esserle madre e del dolore che per tali cause le lacera l'animo.

   
 
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