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Autore: pxsticca    15/03/2020    1 recensioni
«Tu giri l’insalata e non ce la fai più»
Song fic basata sulla canzone Limonata, di Calcutta.
Genere: Introspettivo, Romantico, Song-fic | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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«Tu giri l’insalata e non ce la fai più»

Tac. Il coltello scattò verso il basso con un movimento veloce. Tac. Mi chiedo come fanno quelle gambe stanche a tenerti su. Tac. Un piccolo cerchio arancione si unì agli altri che componevano una fila sbilenca sul tagliere di legno. Man mano che finiva di tagliare una carota, i movimenti si facevano sempre più lenti e deboli. Era in cucina da poco più di mezz’ora, ma con quella velocità che si affievoliva esponenzialmente, ci sarebbe potuta stare per giorni. Lì, in piedi da sola, con i capelli biondi che le andavano un po’ sul viso. Uno scheletro illuminato solamente da una fioca luce gialla.
Mi aveva ripetuto spesso, mentre decidevamo come arredare la casa, di non volere quel tipo di lampadina per la cucina, che sarebbe stata meglio una luce più forte e più bianca. Io ogni volta le dicevo che sarebbe sembrata una stanza di un ospedale, ma questo non la fermava dal discuterne per giorni. Avevamo sempre un buon motivo per litigare, specialmente per le cose più futili: il tipo di illuminazione per la cucina, se andare a mangiare dai suoi la domenica a pranzo o, come mezz’ora fa, se averla ancora accanto obbligandola a fare un sacrificio in più, per poi rischiare di perderla per sempre.

Era rimasta nuda sul letto con la faccia affondata nelle mani, mentre i fumi dell’incenso le avvolgevano il corpo candido. Le misi una mano sulla spalla con un movimento lento, come se non potessi fare altro. Scrollò le spalle per toglierla con un movimento veloce. La risposta era quella? Si alzò di scatto e si rivestì, mentre io, con il corpo nascosto dalla coperta rossa, la seguivo con i miei occhi. Registravo tutti i suoi momenti per non perderli mai, quella volta poteva essere l’ultima e io dovevo ricordarmi tutto. Prima di uscire dalla stanza, si voltò e mi chiese, fissandomi intensamente, ma con uno sguardo stanco: “Vuoi un po’ di insalata?”

Riuscii solo a sussurrare un “sì” che lei forse nemmeno sentì, ma lo capì dal mio annuire lento. Sparì dalla stanza.
Aspettai a seguirla, rimasi a guardare l’incenso che piano piano finiva mentre la cenere cadeva a pezzi più grossi. Non si sbriciolava o volava via nell’aria mossa dal vento, cadeva perché troppo pesante per rimanere sospesa. Mi sembrava che il mondo mi stesse urlando la risposta, e io invece ero fermo mentre tutto scorreva, aspettando un segno che mi dicesse di fare esattamente quello che volevo sentirmi dire. Tutti gli altri segni erano solo delle casualità. Iniziavano ad essere troppe casualità.

Mi alzai e mi diressi verso il corridoio, ero ancora scalzo ma il pavimento freddo era ciò che mi dava meno fastidio in quel momento. E lei era lì, in cucina, esile e debole come una spina di grano. Rimasi a guardarla. Lei non si girò mai verso di me, ma sapeva della mia presenza, si sentiva osservata.
Continuava a lavare e a tagliare verdure, a spremere i limoni, spingendo verso il basso con entrambe le mani e portando avanti le spalle per metterci più forza. Ero immobile appoggiato allo stipite della porta.
Una volta finito di girare l’insalata alzò la testa, tenuta china fino a quel momento, e mi disse un asciutto “vieni” e non passò nemmeno un secondo che mi mossi, ero già seduto al tavolo, davanti a lei che aveva iniziato a servirsi. Mi passò la ciotola piena di insalata e la misi nel piatto. Sarebbe stato il nostro ultimo pasto insieme, ne ero sempre più consapevole. Fino a quel momento pensavo che ogni “ultima cena” dovesse essere ricca e piena di sapori e odori e colori. Un’infinità di portate che si mescolano tra loro inebriandoti il palato e la mente.
Ritrovandomi nel piatto sei foglie di lattuga con olive e pezzetti di pomodoro, capii che una vera ultima cena deve essere il riassunto di tutto quello che si è passato fino a quel momento. E lei stava a dieta da una vita e non ce la faceva più.
Il silenzio si spezzò e iniziammo a parlare di ciò che era successo in quei sette anni insieme, dei nostri amici e dei suoi genitori.
“Mia madre è partita un’altra volta” mi disse scuotendo il capo e accennando un sorriso “Dice che questa volta starà via più a lungo e spegnerà il cellulare, se voglio sentirla dovrò aspettare che mi chiami lei. Tanto lo so come andrà a finire: appena scenderà dall’aereo mi chiamerà e mi terrà al telefono per ore raccontandomi del volo e di tutto il resto...”
Lo faceva spesso, sua madre, di scappare. Sopportava spesso il marito, ma arrivava ad un certo punto in cui doveva partire, quasi come una purificazione. Pensava che l’unica a poter salvare il suo matrimonio fosse la Madonna. Quindi faceva le valigie, annunciava a tutti la sua partenza e andava a Medjugorje. La prima volta che successe, tutti in famiglia si misero a ridere, poi però capirono che stava dicendo sul serio e iniziarono a chiedersi se non avesse perso la testa a soli cinquant’anni. Ora si erano abituati tutti a questa sua credenza.
Io non credo che alla Madonna interessi molto del loro matrimonio, ma a qualcuno serve solo un segno per decidere di restare accanto a chi ama.
“Beh, salutamela quando ti chiamerà, magari farà una preghiera anche per noi”. Almeno da fuori sembrava di essere tornati indietro nel tempo, ai primi giorni in cui ci frequentavamo, ma noi, da dentro, conoscevamo benissimo quel tono amaro che pervadeva i nostri discorsi.
“Solo mia madre?”
Solo lei” risposi fermo, mentre mi accennava un sorriso. Non mi era mai piaciuto suo padre, non che non lo trovassi intelligente, ma non riuscivo a togliermi dalla mente l’immagine di un uomo vecchio, stanco di spiegare a tutti quei concetti complessi ma fondamentali, che lui trovava semplici come la tabellina del due; un professore in pensione che passava le sue giornate nel salotto, immerso nei fumi della pipa, rigorosamente nel lato sinistro della bocca, mentre il vinile di De Gregori scorreva e lui leggeva Feuerbach o Kierkegaard o Schopenhauer. Odiavo il suo modo di fare: mi intrappolava in ogni discussione e non riuscivo mai ad uscirne vincitore. Sapeva tutto su ogni argomento.
Tra una madre rigorosamente cattolica e un padre che in sostanza non era altro che un comunista da salotto, ne è uscita sicuramente meglio di quanto avrei potuto fare io.
E ora la guardavo e avevo solamente due uniche consapevolezze: la prima era che volevo solo starle accanto, come se fossimo ancora bambini e le nostre litigate durassero appena dieci minuti, per poi tornare a prenderci per mano e a guidarci verso il vialetto per giocare a campana, rincorrerci per il prato e arrampicarci sui sugheri verso la sera, prima che i nonni ci chiamassero per la cena, esclusivamente per vedere le prime stelle comparire, mentre la luna spiccava tra il rosa pallido del tramonto. La seconda certezza era la più difficile da mangiare giù: non avrei avuto più niente di tutto ciò. L’insalata era la risposta. La accettai, dunque, e mandai giù un’altra foglia di lattuga. Ci aveva messo le carote, cosa che non avevo mai visto fare da nessuno, eppure non ci stavano male. Come potevano stonare in quel contesto? L’ortaggio simbolo della menzogna per eccellenza. Il Pel di Carota di Renard, il Rosso Malpelo di Verga.

Il tempo si era congelato, vivi nel mondo c’eravamo solo noi in quella stanza. Vivi, per modo di dire: lei distrutta psicologicamente da un amore tossico, io come un abitante di Dublino, incapace di riuscire in qualcosa a causa dell’ambiente ostile, che non era altro che il corpo in cui mi trovavo intrappolato.
Lei dozzinale ma fresca come un’insalata, io cattivo e bugiardo come la carota.
 
   
 
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