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Autore: MaxB    19/03/2020    9 recensioni
Questa è una storia che ho iniziato a scrivere dopo aver finito di leggere il secondo volume, quando ancora doveva uscire il terzo.
La considero una prosecuzione della storia originale come se il terzo libro non esistesse, e narra quindi delle vicende familiari che si sono succedute dopo la fine de Gli scomparsi di Chiardiluna, con leggere modifiche alla trama.
Sostanzialmente, Thorn e Ofelia saranno alle prese con la vita quotidiana da coppia sposata, cercando di capirsi, vivere insieme e prendere confidenza l'uno con l'altra.
E con un inaspettato desiderio di Ofelia...
Genere: Fluff, Romantico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Buongiorno a tutti e grazie per essere qui^^
Volevo fare alcune premesse prima di lasciarvi leggere questa... malsana cosa che ho partorito. Come anticipato, i fatti si svolgono dopo il secondo libro e prima del terzo, ma in realtà non tiene conto del terzo. Né di alcuni particolari della storia originale. Quindi:
- SPOILER per il terzo libro: Thorn non porta nessuna armatura alla gamba. Sta bene, come se non fosse mai stato ferito. Tecnicamente potremmo dire che in prigione non ha mai incontrato Dio.
- Deviando dalla storia della Dabos, Thorn è stato riabilitato come Intendente, non ha più la marchiatura di bastardo, ed è dunque un rispettabile e importante cittadino del Polo, grazie a ciò che Ofelia ha rivelato a Faruk.
- La storia è una descrizione di vita coniugale, dunque nessuno cerca di svelare i misteri legati all'esistenza di Dio o altre cose strane. Thorn è Intendente, Ofelia ha il suo studio di lettura, la zia Roseline è con lei al Polo, Berenilde e Vittoria vivono nel loro castello, separati dai coniugi e da Roseline.
Non credo di dover aggiungere altro, se avete domande basta chiedere^^
Grazie a tutti e buona lettura (spero).


Capitolo 1

Ofelia salutò Berenilde, già pronta per tornare a casa, ma la piccola Vittoria non voleva proprio saperne di lasciare la madrina, nonché cugina, che tanto la faceva ridere con la sua goffaggine e la capacità di animare i piccoli giocattoli.
- Lasciatemela per questa notte, madama – propose Ofelia, - sapete che per me è un piacere poterla tenere.
Berenilde la guardò con una certa apprensione, cercando poi la zia Roseline con lo sguardo. Tra le due donne si era instaurato un rapporto di fiducia tale da rasentare un’intima amicizia, tanto che le due signore si parlavano apertamente senza usare forme di cortesia, dandosi direttamente del tu. La vedova non l’avrebbe mai ammesso apertamente, ma era chiaro che uno dei motivi principali per cui aveva deciso di rimanere al Polo, oltre che per amore di Ofelia stessa, fosse l’affetto crescente nei confronti di Berenilde e Vittoria. Prendersi cura delle tre signore era ormai la sua missione, la sua occupazione, il suo lavoro e il suo diletto.
Per quanto Berenilde non avrebbe potuto scegliere madrina migliore per la piccola Vittoria, che ormai aveva già compiuto due anni da un bel pezzo, era ancora restia a lasciarla in affidamento a Ofelia. La zia Roseline era sempre presente, certo, ma erano state troppe le volte in cui Ofelia aveva rischiato di cadere con la piccola in braccio per permettere a Berenilde di dormire sonni tranquilli lontani dalla figlia. E, consapevole degli errori commessi con i precedenti figli, sentiva un profondo, viscerale senso di colpa ogni volta che si allontanava dalla piccola senza motivi imprescindibili, come ricevimenti o convocazioni improrogabili.
- Magari un’altra volta, cara Ofelia – decise alla fine, irremovibile. – Tra qualche giorno dovrei avere un ricevimento privato con Faruk, e non sono sicura che sia richiesta anche la presenza di Vittoria. Però gradirei la presenza di Roseline questa sera, se non è troppo chiedere.
La zia, indaffarata con i giochi che la piccola e vivacissima bambina aveva seminato per la casa, alzò lo sguardo interdetta. – La mia presenza?
A disagio, Berenilde sembrava un’anguilla che cerca di sgusciare via, agitandosi nervosamente. Ofelia notò gli sguardi che la dama lanciava alla zia, ma non avrebbe saputo come interpretarli. Alla fine, quando si chinò per prendere in braccio la figlioccia che le tirava le sottane in cerca di attenzione, dedusse che il messaggio di Berenilde aveva raggiunto il destinatario, perché la zia le sfilò davanti, in imbarazzo, per raggiungere la signora dei Draghi.
- Certo, mia cara, sarò ben lieta di farti compagnia fino a domani. Andiamo, piccola Vittoria.
La bambina, rabbonita dal tono dolce della zia, che era innamorata di lei tanto quanto lo era Ofelia, passò da un grembo all’altro senza lamentarsi, per poi allungare le braccia grassocce verso la madre, e cambiare nuovamente seno.
Ofelia, spaesata, provò a protestare, ma i saluti di congedo delle dame non le permisero di indagare sul loro strano comportamento, e nel giro di un attimo si ritrovò sola nella grande stanza.
- Sono uscite?
Ofelia per poco non sobbalzò sentendo la voce di Renard alle sue spalle. Il suo consigliere sembrava avere un sesto senso che gli permetteva di entrare in scena proprio quando lei rimaneva sola. Probabilmente stava sviluppando un dono a sé stante, che non aveva a che fare con quelli delle altre famiglie di nobili del Polo.
- Sì – rispose Ofelia, riscuotendosi.
La sua voce era rimasta un sussurro che Renard aveva imparato a conoscere bene quasi quanto suo marito, che ormai era in grado di capire i suoi stati d’animo appena varcava la soglia di casa.
- Vi aiuto a sistemare. La piccola Vittoria è tanto adorabile quanto pretenziosa in fatto di giochi. Inutile dire che diventerà bella e viziata quanto la madama.
Ofelia si limitò a sorridere e dargli una mano in silenzio mentre la sciarpa, rilassata dopo la dipartita delle due signore e mezzo, si adagiava languidamente attorno a collo e spalle della padrona.
Dopo aver finito di riordinare, Renard si ritirò e Ofelia rimase da sola nel grande salotto del castello che Thorn le aveva donato come regalo di nozze. Il marito sarebbe dovuto rientrare a breve, ma una strana inquietudine la pervase. Non era un sentimento angoscioso che riguardava il marito, quanto… una malinconia indescrivibile che era andata crescendo dal momento in cui Berenilde e la zia Roseline se n’erano andate portando via Vittoria. Capitava spesso che la zia passasse la notte dalla signora di Faruk, ma non era la prima volta che le sembrava di essere esclusa da qualche… cospirazione tra le due.
Avrebbe dovuto indagare al riguardo, ma per il momento si limitò ad aspettare l’arrivo di Thorn per cenare.
 
Nei giorni successivi, l’irrequietezza di Ofelia andò aumentando, e la mancata comprensione dell’origine di quel sentimento la rendeva anche nervosa. Esaminando se stessa oltre alla zia Roseline e Berenilde, che vedeva confabulare discretamente quando pensavano che lei fosse distratta, notò che la presenza di Vittoria era l’unica in grado di calmarla.
In quel periodo, tra il censimento annuale e le pratiche di fine anno, Thorn lavorava spesso fino a tardi, nonostante la sollecitudine di Ofelia nel costringerlo a riposare un numero ragionevole di ore la notte, e il tempo passato da sola non l’aiutava certo a distendere i nervi. Anche il suo studio di lettura era chiuso per lavori di manutenzione, e l’inattività professionale a cui non era abituata la faceva sentire inutile e vuota.
Finché un giorno il suo fedele consigliere Renard le aprì gli occhi sulle macchinazioni delle sue signore più care.
Ofelia stava sistemando il soggiorno per tenersi occupata, borbottando con irritazione per non aver capito l’ennesima conversazione muta tra Berenilde e Roseline. La zia si era ritirata nelle sue stanze, declinando l’invito di Berenilde a stare da lei per la notte, ma qualcosa bolliva in pentola e Ofelia non riusciva ad identificare l’odore della pietanza che quelle due stavano cucinando.
- Credo sia inutile sprimacciare i cuscini nel tuo stato, ragazzo – la ammonì Renard, divertito.
Il nervosismo di Ofelia, in effetti, agitava il mobilio, e di conseguenza risultava ridicolo sistemare dei cuscini che nel giro di pochi secondi iniziavano a scontrarsi tra loro e accartocciarsi.
- Sono giorni che i tappeti mi fanno lo sgambetto e gli orologi segnano ore improbabili o rintoccano quando li aggrada. Volete dirmi cosa vi passa per la testa?
Ofelia si sedette sul divano, massaggiandosi le tempie, per poi alzarsi poco dopo, quando i cuscini ingaggiarono una battaglia con la sua fedele sciarpa.
- Penso che madama Berenilde e la zia Roseline stiano… confabulando, o architettando qualcosa alle mie spalle, ma non saprei direi cosa…
- Oh, quello… - la interruppe Renard con l’aria di uno che la sa lunga. La sua espressione divertita non prometteva nulla di buono.
Ofelia assottigliò gli occhi, esasperata: - Sputate il rospo, Renold.
Renard non poté fare a meno di ridacchiare prima di rispondere. – Stanno solo cercando di… ecco… come dire… creare l’atmosfera, la circostanza, chiamatela come volete, per lasciarvi sola con il signor intendente e… be’, darvi da fare per proseguire la discendenza.
Gli occhiali di Ofelia divennero rossi come non lo erano mai stati e la sciarpa si agitò convulsamente, fendendo l’aria come alla ricerca di fuga.
- Non agitarti così, io ho solo riferito i piani delle due madame, ragazzo.
- Gr-grazie, Renold – balbettò Ofelia, prima di allontanarsi lasciando alle spalle un salotto sul piede di guerra.
Che gli altri si aspettassero dei figli da loro era normale, ma questo non rendeva la questione meno imbarazzante. Scivolando a sedere per terra, contro il muro, Ofelia si nascose il viso tra le mani e aspettò che le passasse il batticuore.
Avere dei figli con Thorn…
Una nuova vampata di calore l’assalì, costringendola a togliersi sciarpa e occhiali per farli calmare.
Persa com’era nelle sue elucubrazioni, si accorse dell’ombra che la sovrastava solo quando questa le oscurò la luce.
Thorn torreggiava su di lei con sguardo impassibile come sempre, che però tradiva una certa perplessità.
- Ofelia?
Sentire il suo nome pronunciato con così tanto scioltezza la fece rabbrividire, e Ofelia si alzò con foga inciampando nelle frange del tappeto che stavano ballando in maniera convulsa.
Le braccia di Thorn la afferrarono immediatamente, ormai abituate e reggerla per evitarle cadute accidentali dovute alla sua poca coordinazione.
A disagio, quando Ofelia capì che il marito non aveva intenzione di lasciarla, indietreggiò di un passo per poterlo guardare negli occhi. Lui la scrutava, inflessibile, con il suo metallico sguardo da rapace e le sopracciglia aggrottate. Nonostante l’addolcimento dei tratti che Ofelia aveva notato in lui durante quei due anni di matrimonio, il viso spigoloso e gli occhi gelidi non erano cambiati ed erano ancora capaci di terrorizzare la maggior parte degli abitanti del Polo. Ma il viso che mostrava alla moglie, quando erano insieme, era più vicino al rilassamento di quanto Ofelia si sarebbe mai aspettata.
- Stai bene?
C’era voluto un anno perché riuscissero a mettere da parte le formalità e darsi del tu, su espressa richiesta di Thorn. Era successo di fronte ad un piatto di minestra, in pieno inverno; Ofelia lo stava rimproverando per la sua mancanza di “adeguato riposo” con più fervore del solito.
Thorn, impassibile come sempre di fronte ai rimbrotti della moglie, aveva posato il cucchiaio e giunto le mani di fronte a sé, sul tavolo. Poi l’aveva scrutata con tanta intensità da metterla a disagio.
- Possiamo evitare di darci ancora del voi, Ofelia? Lo trovo inadeguato alla nostra situazione.
Interdetta, Ofelia lo aveva fissato senza battere ciglio. Dopo un silenzio interminabile, allo sgomento era succeduta l’irritazione. – Questa è la vostra risposta al mio monologo sul vostro fabbisogno di dormire?
Il viso di Thorn era stato attraversato da un unico, impercettibile movimento all’angolo della bocca, che Ofelia aveva catalogato come un divertito tentativo di sorridere. Forse. Nemmeno gli occhi e la fronte perennemente aggrottata aveva smosso. – Sì, perché siete mia moglie, condividiamo il letto coniugale da mesi e mi fate perenni raccomandazioni e ramanzine come una madre ad un figlio, e ci diamo ancora del voi. Non trovi la questione un poco insensata, Ofelia?
Erano poche le volte in cui il marito usava il suo nome, e quelle volte era sempre in grado di farla arrossire e appannarle gli occhiali di un tenue e romantico rosa. Dopo aver rovesciato la saliera e il bicchiere, fortunatamente vuoto, Ofelia si era ricomposta e aveva convenuto che forse sì, era il caso di abbandonare certe formalità non più richieste. Ci era voluta una settimana per abituarsi a dargli del tu, e tra balbettii confusi e gote rosse d’imbarazzo, Ofelia avrebbe giurato di aver visto più volte una luce divertita negli occhi del marito.
Una leggera scossa alle braccia da parte di quest’ultimo la riportò alla realtà, facendole assumere un’aria ancora più smarrita.
- S-sì – balbettò in risposta alla sua domanda, raddrizzandosi e rassettandosi i vestiti. – Sei tornato presto – cambiò argomento, dicendo la prima cosa che le venne in mente.
Thorn, senza staccarle gli occhi di dosso, tirò fuori l’orologio che faceva parte di lui come la sciarpa e gli occhiali appartenevano a lei, e glielo mise di fronte al naso. – Sono in perfetto orario. Com’è possibile che tu sia così turbata da non notare il mio rientro?
Ofelia incespicò sui suoi stessi piedi. Di solito aspettava Thorn in sala da pranzo, di fronte alla cena già pronta e servita, e si accomodava con lui al rintocco della campana, un rituale che gli aveva imposto per controllare che mangiasse a sufficienza e successivamente si coricasse ad un orario decente. La rivelazione di Renard doveva averla destabilizzata più del previsto.
- Non sei turbato. Cioè, io non sono turbata – farfugliò a mezza voce, saltellando da un piede all’altro. – Stavo per… accompagnarti in sala da pranzo.
Girandosi sui tacchi, Ofelia si incamminò verso il salone, consapevole dello sguardo indagatore e poco convinto che le perforava la schiena. Sarebbe stata una cena difficile, e per una volta Ofelia rimpianse che quella sera Thorn non avesse faccende urgenti da sbrigare.
 
Ofelia resse per quasi un mese. Resistette alle lettere allusive di madre e sorella, che le chiedevano quando avrebbero potuto salutare il nuovo nipotino, incitandola così a darsi da fare in quel senso; ignorò le macchinazioni di Berenilde e della zia Roseline, finse di non vedere le occhiate divertite di Renard e mise a dura prova la pazienza di Thorn, ma alla fine riuscì a non dare importanza a quei messaggi insinuatori.
O così diede a vedere.
Più di ogni altro commento, occhiata, piano o lettera, fu Vittoria a fare la maggior parte del lavoro sporco. Quel mese Ofelia dovette tenerla con sé per due o tre notti, a causa di alcuni impegni improrogabili di Berenilde, e la dolcezza della bimba le penetrò dentro come se Ofelia fosse stata uno specchio e Vittoria l’animista in grado di attraversarlo. Il suo bisogno di guida, cure e attenzioni la intenerivano e la facevano sentire utile, amata e apprezzata. I sentimenti di affetto della bambina erano reali, sinceri e puri, così lontani dagli artifici e dalle illusioni di corte. Vittoria chiedeva senza pretendere, senza ricatti né minacce, nel più naturale dei modi. Anche Thorn le si era affezionato, sebbene lo desse a vedere a stento e i domestici si irrigidissero ogni volta che la bambina lo disturbava, temendo magari qualche spazientito colpo di artigli. Ma mai Thorn si era rivolto alla piccola con mancanza di delicatezza o con modi bruschi, nemmeno quando Vittoria gli tirava i pantaloni mentre lui leggeva sul divano, o quando chiacchierava senza freno nel momento in cui a lui serviva silenzio, o quando era costretto a schivare i suoi giochi sparsi disordinatamente per tutto il salone. Lui era per la quiete, per l’ordine, per la routine, non per i marmocchi.
Thorn aveva già detto a Ofelia di non volerne, molto tempo prima, quando erano ancora due sconosciuti l’uno per l’altra, e lei aveva rivelato di non voler condividere nemmeno il talamo nuziale con lui.
Quella seconda affermazione era stata ormai infranta. Ofelia sperava che Thorn ritrattasse la prima.
Perché le altre donne avevano capito la natura della sua insoddisfazione prima di lei: Ofelia desiderava un figlio.
Ma non avrebbe mai trovato il coraggio di sottoporre la questione al marito.
 
Poco tempo dopo, una sera, Thorn si sdraiò come di consueto a letto di fianco ad Ofelia, che si svegliò a causa del sonno leggero. Bastavano il movimento del marito per la stanza e il fruscio degli indumenti che si sfilava con cura per farle aprire gli occhi, ma Ofelia gli dava le spalle e fece finta di continuare a dormire. Sapeva che era molto tardi, anche se non aveva la vista così buona da poterlo appurare leggendo la pendola di fronte a sé, però non avrebbe potuto sgridare il marito se non rivelando che si era svegliata. Thorn odiava trascinarla fuori dal sonno senza un buon motivo, e cercava sempre di fare più piano che poteva.
Le ci volle tutta la buona forza di volontà di cui era capace per non muoversi e tradirsi quando lui si coricò, facendo muovere tutto il letto adattato per poter ospitare la sua smisurata altezza. Aspettò che si sistemasse per poter riprendere a respirare, temendo che il suo fiato potesse tradirla, ma le cose non andarono come previsto.
Quando Thorn la cinse con il braccio freddo e la trascinò contro il suo petto caldo, i polmoni le si svuotarono rumorosamente. Sentiva il contrasto tra la mano gelida premuta contro il suo addome, quella frescura che nemmeno la vestaglia riusciva ad isolare, e il suo corpo bollente. Thorn aveva sempre gli arti freddi e il corpo caldo, e dormiva a petto nudo per non dover sopportare anche di notte la costrizione degli indumenti; la divisa da intendente era già abbastanza scomoda da dover portare per la maggior parte della giornata.
Nonostante Ofelia fosse ormai abituata ai loro contatti fisici, quell’improvvisa vicinanza la fece arrossire fino alla punta dei capelli, e sentì le coperte iniziare a tremare leggermente, mentre le venivano in mente, passo dopo passo, i progressi che avevano fatto sotto quell’aspetto…
  
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