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Autore: Raptor Pardus    21/03/2020    2 recensioni
Un anziano pastore, assetato di vendetta, si mette a caccia di un suo nemico di vecchia data, perdendosi sui monti abruzzesi.
Genere: Azione, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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La spalla gli faceva male, ma non ci badò. Non ci poteva badare. Doveva farlo per Mina, la sua Mina. Si risistemò la doppietta in spalla e continuò a salire, ora più attento a dove metteva i piedi. Abitava tra quelle valli e quei monti da una vita, e ormai non aveva più la forza e l’agilità di un tempo, anche se l’occhio era ancora buono, e sapeva mirare.
Dall’altezza a cui si trovava poteva benissimo vedere Scanno, la grande pozza in mezzo e Villalago dall’altra parte. La bestia era lì, da qualche parte, in qualche buca nascosta dai sassi, se lo sentiva nelle ossa. Bastava cercare ancora. Erano due giorni che cercava, prima o poi l’avrebbe trovata, la bestia, e l’avrebbe fatta soffrire, come quella bastarda aveva fatto soffrire le sue povere creature.
Finalmente trovò un’orma in mezzo alla boscaglia, un tronco scortecciato, feci ancora fresche. Era nel suo territorio, e la bastarda non doveva essere lontana. Era bella grossa per essere una femmina, più di altri maschi che aveva visto anni prima, ed era anche molto più aggressiva, e avventata. I maschi cacciavano solo sui monti, e si tenevano lontani dagli umani, e in qualche modo così facendo s’erano guadagnati il suo rispetto. Ma non lei, che s’era portata via prima Rino, il suo miglior becco, poi Giorgio e Fiorella, e infine Mina, la sua preferita. Ora la questione era dannatamente personale.
Si fece strada tra gli alberi silenzioso, finché non sentì un guaito. Tirò giù la doppietta, strinse la cinghia e aprì la culatta. Mentre infilava due cartucce si sporse dal tronco di faggio dietro cui s’era nascosto.
Due cuccioli giocavano in una piccola radura, al riparo da un tronco morto. Dovevano essere i suoi, il pelo era identico. Uno aveva appena buttato a terra l’altro e gli strofinava il muso sul ventre.
Si leccò le labbra e poggiò il fucile contro il legno, assaporando il gusto della vendetta, e prese la mira.
Un fiato caldo gli investì la spalla.
«Sei furba.» sussurrò, volgendo lentamente la testa.
Una grossa lupa color di talpa lo fissava, il grugno affilato a non più di mezzo braccio da lui. Lei ringhiò, facendo zittire i cuccioli che scapparono chissà dove. Nessuno dei due – cacciatore e preda – si mosse.
Il pastore iniziò a sudare freddo. Era ora o mai più. Scattò in avanti, portando il fucile contro il muso della fiera. La lupa gli fu addosso, partì un colpo. L’animale lo atterrò, ruggendo, la bava schizzava dalle sue fauci e lo accecava. Sentì gli artigli farsi strada attraverso il giubbotto e affondargli nella carne. Solo la canna dell’arma lo separava dall’animale e dalla morte. Menò un calcio all’inguine dell’animale e si rialzò, mentre quello guaendo ruzzolava di lato, e gli sparò mentre fuggiva attraverso la boscaglia, con la coda tra le gambe.
Il piombo volò alto, troppo.
Bestemmiò e infilò due nuove cartucce. Si tolse la saccoccia che usava a mo’ di zaino e si lanciò zoppicando all’inseguimento, urlando di rabbia. Intravide il pelo tra gli alberi e sparò.
«Questo è per Mina!» sbraitò, sparando ancora.
La lupa guaì mentre lui ricaricava e sparì di nuovo. Ormai era sua.
Si lanciò oltre un ramo per acciuffarla e sotto i piedi sentì il vuoto. Bestemmiò di nuovo mentre precipitava, colpì un masso con la testa e poi lo avvolse il buio.
 
«Enzo, mi senti?»
Le orecchie gli fischiavano.
«Enzo, riesci a capire ciò che ti dico? Muovi le dita se mi capisci.»
Strizzò gli occhi, accecato dalla luce, e mise finalmente a fuoco la faccia rotonda del maresciallo Frasca, del comando locale dei carabinieri.
«Sei sparito per tre giorni, Enzo, t’hanno ritrovato quelli della forestale. Sei in ospedale ora, hai dormito per un bel po’. Ci hai fatto preoccupare tutti.»
Il collo gli faceva un male cane, e la testa gli pulsava. Se respirava dal naso gli bruciava tutto, e ogni tanto i marescialli divenivano due.
«Enzo, quando ti riprendi ti dovremo portare in caserma. Non hai i permessi per quel fucile, vero? Ma se collabori ti possiamo aiutare. E per l’ennesima volta, non puoi cacciare i lupi della riserva, se ti danno problemi parla con la forestale o con il personale del parco.»
Enzo non riusciva a muovere la testa, e nemmeno a parlare. La bocca era un macigno che non rispondeva alla sua volontà. Il maresciallo uscì dal suo campo visivo e s’avvicinò alla porta.
«Hai rischiato di morire» disse prima d’andarsene, «inutilmente. E ti sei messo in grossi casini. Ma mi dispiace per la tua capra e le tue pecore, davvero.»
Enzo rimase da solo, coi suoi pensieri e suoi dolori. E a tutto quello si aggiungeva anche il bruciore di stomaco, la rabbia della vendetta mancata, il senso d’impotenza della sconfitta. Avvertiva poco il resto del corpo, come fosse distante. Nonostante tutto questo, solo una cosa continuava a importagli: che la lupa, per l’ultima volta, aveva vinto.
   
 
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