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Autore: ChiiCat92    22/03/2020    0 recensioni
"« Stravan! » urlò. Non riusciva ancora a vedere dove si trovava la druida. Che si fosse resa invisibile con uno dei suoi incantesimi? Indietreggiò affinché la schiena toccasse la porta da cui era entrato: un punto in meno da proteggere dall’attacco del nemico. « Mostrati! In nome di Gorkil pretendo vendetta! »"
Questa storia è stata ispirata da un orribile, terribile sogno che mi ha svegliata in lacrime. Sapevo che le immagini non mi avrebbero lasciata finché non l'avessi scritto, e ora che l'ho fatto mi sento un po' meglio. Spero di aver reso giustizia ai suoi protagonisti.
Genere: Angst, Avventura, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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19/03/2020

 

L’Ultimo Viaggio


L’aria era satura, irrespirabile, pesante come una coltre, sotto la pettorina di cuoio i polmoni si contraevano e si espandevano a fatica.

In alto tra le fronde riusciva a scorgere una falce di Luna, l’unica vera fonte di luce in quella notte nefasta eppure chiara. 

Il copricapo che indossava, ricavato dal teschio di un grosso cinghiale compreso di corna, era una pallida apparizione tra i cespugli, l’ultima visione negli occhi dei nemici prima di morire con la gola mozzata.

A piedi nudi riusciva a sentire il terreno, evitare le asperità e muoversi con la delicatezza del vento, anche se gli ossicini legati tra i capelli tintinnavano ad ogni movimento. 

L’odore ferroso del sangue gli impregnava le narici, le mani lorde reggevano due lame affilate.

Xewn si era lasciato alle spalle una scia di cadaveri mentre avanzava lento, metodico, verso il cuore della foresta. 

I pensieri appannati dal desiderio di morte erano ingarbugliati intorno al suo obiettivo: trovare Stranvan e ucciderla. 

Aveva solo la vaga consapevolezza dei compagni, nascosti nel folto e disposti a ventaglio tutto intorno a lui. Se avesse mandato il richiamo della civetta gli altri avrebbero risposto. Non era solo, eppure sentiva le piante dei piedi bruciare roventi come se stesse percorrendo il tragitto verso l’Oltretomba in solitudine. 

Una goccia di sudore caldo segnò un solco bianco nella lordura di sangue e polvere del suo viso. 

Un fruscio improvviso lo fece arrestare, il corpo si tese, le lame dei pugnali divennero salde tra le sue mani. 

Di fronte a lui si trovava uno degli uomini di Stranvan. Dinoccolato, con una pelle di castoro gettata sulla schiena, sonnecchiava appoggiato alla lancia. Una guardia, e non una particolarmente zelante.

Xewn lo aggirò piano, cercando di mantenersi nascosto e acquattato sotto le piante di ginepro così care alla druida. 

Doveva agire in fretta se non voleva che qualcuno dei suoi compagni rivendicasse l’uccisione. 

Prima ancora che la guardia capisse cosa gli era saltato addosso, Xewn aveva già conficcato la lama del pugnale a fondo nella gola a tranciare la trachea e le corde vocali. L’uomo si accasciò al suolo senza emettere un suono, il tonfo venne attutito dal morbido sottobosco. 

Xewn mandò una preghiera Gorkil, la Dea della guerra che aveva reso agile e precisa la sua lama, e proseguì. 

Non troppo lontano da dove si trovava si alzò il verso della civetta. Lui rispose, comunicando così al compagno di essere nelle vicinanze, di essere vivo, di essere pronto. Altri cinque versi si alzarono nella notte. 

Sulla lingua, sui denti, all’interno delle guance, Xewn sentiva il sapore ferroso del sangue, eppure il suo desiderio di morte non si era ancora estinto. Bruciava dello stesso fuoco che aveva raso al suolo il suo villaggio, bruciava come i resti di sua madre, bruciava come il cielo acceso da un nuovo spaventoso sole la notte che Stranvan aveva mandato i suoi guerrieri a sterminare la tribù senza pietà.

Era tempo, adesso, che la loro vendetta si compisse. 

La sentinella all’ingresso del villaggio non cadde neanche a terra quando Xewn le trapassò la gola con il pugnale: rimase lì, rozzamente in piedi contro la lancia, come se volesse difendere la sua signora dall’incursione dei nemici.

Il ragazzo diede un calcio al cadavere facendolo cadere nella polvere. Gli sputò contro per scacciare i demoni della sua presunzione: nessuno sarebbe rimasto in piedi a proteggere Stranvan, né vivo né morto.

La civetta cantò ancora, e Xewn seppe che i compagni erano entrati con lui nel villaggio.

Il compito di uccidere Stranvan spettava a lui, erano state le divinità a deciderlo, e proseguiva acquattato nelle ombre mentre i compagni si infilavano nelle capanne.

A differenza dei guerrieri di Stranvan loro avrebbero ucciso senza dolore, non c’era onore nel massacrare donne, infermi e bambini, gli unici che avrebbero patito sarebbero stati gli uomini in grado di reggere un’arma. Alla fine di quella notte la terra sarebbe stata zuppa di sangue, la testa di Stranvan avrebbe adornato una picca, e gli Dèi si sarebbero quietati. 

La capanna della druida era posizionata al centro del villaggio, tutte le altre erano state costruite in cerchio intorno ad essa. Era illuminata dalle pallide luci di un fuoco morente che Xewn considerò di buon auspicio: la druida consumava i suoi ultimi momenti così come le fiamme consumavano la legna. 

Tra le ombre della notte scorse le sagome dei compagni: vestiti di pelle, con indosso teschi di animali sbiancati al sole, sembravano spiriti maligni partoriti dalla terra stessa. 

Confortato da quella vista, Xewn proseguì, poggiando una mano sulla porta della capanna della druida.

Stranvan doveva sentirsi molto sicura dal momento che la porta era aperta e che nessuno presidiava l’ingresso. Xewn strinse i denti. La druida si riteneva invincibile, intoccabile, rideva in faccia alla morte.

Entrò, il sangue che ribolliva doloroso nelle vene. 

La capanna era rivestita di pelli di animali per tenerla al caldo nelle lunghe notti invernali, dal soffitto pendevano fasci d’erbe aromatiche per la fumigazione e teste di coniglio essiccate. Nel camino, grande quanto bastava per riscaldare l’ambiente circolare, lambiva un fuoco. Le sue lingue rosse parlavano con scintille e scoppiettii, ma ormai i tronchi di cui si stavano cibando erano ridotti a cenere: presto sarebbe morto di fame. 

Xewn cercò con lo sguardo tutto intorno, il respiro calmo, il cuore quasi fermo. Solo il modo in cui stringeva e rilasciava la presa sui pugnali tradiva la sua agitazione.

« Giunse infine l’impavido guerriero. » quella voce lo fece sobbalzare. Menò un fendente di piatto nella semioscurità da cui l’aveva sentita provenire, ma gli riuscì di tagliare solo aria.

La testa cominciava a girargli, il fumo e le erbe rendevano l’aria carica di cattivi presagi.

« Stravan! » urlò. Non riusciva ancora a vedere dove si trovava la druida. Che si fosse resa invisibile con uno dei suoi incantesimi? Indietreggiò affinché la schiena toccasse la porta da cui era entrato: un punto in meno da proteggere dall’attacco del nemico. « Mostrati! In nome di Gorkil pretendo vendetta! » 

« Non sai cosa succede, Xewn figlio di Bitene, quando si alza una lama verso un druido? » 

La voce sembrava provenire da ogni luogo. Solo in quel momento Xewn si rese conto della foschia spessa che avvolgeva la capanna. Starvan aveva gettato un ramo di erbe dentro al camino, ravvivandolo e spargendo fumo tutto intorno allo stesso tempo. Seppe immediatamente che quel luogo non apparteneva più al mondo terreno, e che la druida l’aveva portato con sé altrove, dove nessuno dei suoi compagni avrebbe potuto aiutarlo. Sarebbe uscito di lì solo se l’avesse uccisa, o se fosse morto. 

« Egli sanguina, come tutti gli uomini! » rispose, con un ringhio, sputando per terra.

Stranvan rise di gusto. La sua voce era come l’acciottolarsi di sassi nell’acqua, cristallina eppure volubile: nessuno sapeva se il torrente si sarebbe trasformato in un fiume in tumulto.

« Vieni con la boria di un uomo, ma sei solo un ragazzo. Cos’è che cerchi se non la morte? » 

« Vendetta! » urlò Xewn « Vendetta per il mio popolo! » 

Allora si gettò in avanti, nel fumo. Barbigli di nebbia odorosa lo avvolsero braccia e gambe mentre i fendenti tagliavano l’aria. Avvertì la presenza della donna come si avverte uno spirito: vicina, eppure irraggiungibile. 

Lo stomaco si contorse per la paura ma la sua mano rimase ferma. Stranvan era solo una donna, una mortale, i suoi trucchi non avrebbero funzionato su di lui, niente gli avrebbe impedito di ucciderla.

Urlò ancora, per darsi coraggio, fino a scorticarsi la gola e sentire sangue riempirgli la bocca. Desiderò che quel sangue fosse di lei, pregò gli Dèi perché realizzassero quel suo unico, folle desiderio. 

« Non puoi uccidermi, Xewn. Non stanotte, non in questo mondo. » 

Prima che potesse ribattere, il ragazzo sentì una stilettata di dolore al fianco.

Sorpreso, abbassò lo sguardo. La punta di una spada corta gli perforava la carne, insinuatasi nello spazio indifeso dalla pettorina.

Scorreva già veloce la vita attraverso quella ferita, ma non si arrese. 

Si volse per colpire Stranvan che gli stava alle spalle, un attacco cieco e disperato. Non voleva morire senza portare con sé un pezzo di lei. 

La spada colpì ancora, resa invisibile dal fumo o forse dalla magia della druida, e lui crollò a terra. 

Non c’era dolore in quelle ferite, perché niente avrebbe potuto superare quello del fallimento, della delusione. 

Finalmente Stranvan si mostrò a lui. Pitture bianco latte sottolineavano i lineamenti altrimenti nascosti nel nero carbone della sua pelle, una pelle d’orso bruno le faceva da mantello mentre tra i capelli intrecciati spiccavano anelli e gioielli appartenute in vita agli spiriti che adesso la servivano. Per questo motivo Xewn non portava addosso nessun orpello, niente che la druida potesse prendere per incatenare a lei la sua anima.

Ebbe la forza di sputarle contro, un misto di saliva e sangue. 

La donna sollevò un sopracciglio scuro, il suo sorriso, sotto le labbra dipinte di bianco, brillava maligno. 

« Sei un guerriero valente ma avventato, il tuo destino e quello dei tuoi è di morire questa notte. » 

Xewn le sputò contro di nuovo, imprecando nel dialetto della sua tribù. Aveva più sangue adesso in bocca, gli arti cominciavano a formicolare. Sarebbe morto nell’odio, fissando negli occhi quella strega finché Athaldin non l’avesse accolto tra le sue braccia. 

La druida rise di gusto e gli volse le spalle. Ormai non era più un pericolo, ma quella mancanza di rispetto gli fece mandare un basso ringhio. Voltava le spalle al nemico sconfitto! Quella donna non conosceva l’onore e il rispetto che si tributa ai guerrieri.

La guardò mentre frugava tra le sue ampolle, ormai paralizzato dalla vita in giù. Avrebbe voluto alzarsi e tentare un ultimo affondo, ma le forze l’avevano abbandonato, e tutto ciò che poteva fare e guardarla con astio, aspettando il momento in cui avrebbe sferrato il colpo di grazia. 

« Uccidimi dunque! » strillò, anche se la voce era rauca e spaventata. Sotto il fango, il sangue, il teschio del cinghiale, sotto le cicatrici, c’era un ragazzo di sedici anni il cui spirito tremava per la paura. La morte non era una sconfitta, era solo l’inizio di un’altra battaglia, ma per quanto continuasse a ripetere gli insegnamenti degli Anziani adesso desiderava solo vivere. Sapeva che Athaldin, la Dea creatrice, avrebbe accolto la sua anima, l’avrebbe rivestito di nuova gloria e l’avrebbe mandato a combattere al fianco dei suoi compagni caduti, in un mondo dove non esisteva la sofferenza, dove avrebbe potuto gioire della foga della battaglia. Lo sapeva, ma il dubbio strisciava nel suo giovane cuore. E se non ci fosse stato null’altro che oblio? Se Athaldin non l’avesse accolto e l’avesse lasciato solo e sperduto nel buio? 

« Abbi pazienza, giovane guerriero. » canticchiò la druida. Staccò qualche foglia dai fasci appesi al soffitto e delle bacche che poi gettò nel pestello di legno. Trasferì il composto in una ciotola. Xewn ebbe l’impressione che fumasse, ma la vista era piena della nebbia delle erbe e non poteva esserne sicuro. « Sei venuto da me convinto di essere pronto per ciò che ti aspettava, invece soffri di ciò che soffrono i giovani: presunzione ed egoismo. Non vuoi vendetta per i tuoi, ma gloria per te. E questo, Xewn figlio di Bitene, è un grande affronto per tutto ciò che è sacro. » si inginocchiò di fianco a lui. La poltiglia che fumava nella ciotola aveva un odore rivoltante, come ti carne morta lasciata imputridire al sole. Stranvan infilò due dita nell’intruglio e cominciò a segnare il suo corpo. 

Xewn provò a ritrarsi, ma si ritrovò a gemere indifeso quando gli toccò le ferite, disegnando scuri ghirigori sulla pelle sbiancata dalla morte. 

« Ti maledico, Xewn figlio di Bitene. » sussurrò la druida. Il cuore del ragazzo perdette un battito, il respiro si fece singhiozzante.

“No, no, no!” ma le labbra sigillate non riuscivano a pronunciare una sola sillaba che fosse riconoscibile tra i lamenti di dolore.  

« Non conoscerai mai il riposo dell’Oltretomba, né la gloria di camminare in battaglia con gli spiriti dei grandi guerrieri. Ti maledico perché la tua anima torni ancora e ancora su questa terra dopo il tuo ultimo respiro. » 

Xewn schiuse le labbra e si lasciò andare ad un urlo quando Stranvan gli conficcò a forza uno dei suoi stessi pugnali nell’addome, squarciandolo da parte a parte.

L’ultima cosa che i suoi occhi videro fu il sorriso bianco della druida e la nuba scura della sua maledizione. 

 

*

 

Xavier sobbalzò, gli occhi sbarrati, il respiro grosso, il respiro rapido e soffocato. 

Il buio gli riempiva il petto di panico, tanto che aveva l’impressione di essere sul punto di annegare. 

“Aria, aria!” 

Scalciò, urlò, soffocato da viticci morbidi ma non gentili. Poi cadde, picchiò il sedere sul pavimento. Il dolore lo fece tornare lucido.

Con rabbia si liberò del bozzolo delle lenzuola umide di sudore e a tentoni nel buio fece scattare l’interruttore della lampada sul comodino.

I contorni dei mobili, resi caldi dalla luce gialla della lampada, emersero dal buio, innocui e uguali a come li aveva lasciati la sera prima quando era andato a dormire. C’erano ancora i poster degli Starset alle pareti, la libreria disordinata, il computer in standby che lampeggiava pian piano. 

La stessa stanza di sempre, la stessa comoda monotonia.

Però...però qualcosa non andava. La testa gli girava, vampate di calore salivano e scendevano lungo la sua schiena facendogli sentire un immenso caldo e poi un freddo annichilente.  

Si alzò, tremante. Brandelli di immagini si inseguivano nella sua mente. Teschi, ossa, pelli di animali, erbe aromatiche. Confusamente raggiunse il bagno, le dita trovarono l’interruttore della luce.

Allo specchio per un attimo vide l’ombra di corna ritorte verso l’alto e orbite vuote, bianche, che lo fissavano dal buio. Ma fu solo per un attimo.

Respirò a fondo, le mani aggrappate al bordo del lavandino. 

Sollevò la maglietta del pigiama per controllare l’addome: bianco, liscio.

Solo un sogno, solo un maledetto, vivido sogno. 

Si gettò in faccia acqua gelida.

Lentamente le immagini del sogno si allontanarono, divennero opache, si mischiarono nel calderone ribollente di idee, pensieri, sensazioni, fino a scomparire oltre la linea dell’orizzonte.

Xavier si guardò un’ultima volta allo specchio e nessun’altra immagine si sovrappose alla sua. 

 

Con suo sommo disappunto il sogno l’aveva svegliato un quarto d’ora prima della sveglia. Per colpa dell’ansia non era riuscito a chiudere occhio prima delle quattro, e adesso cominciava a risentirne.

Non provò neanche, però, a rimettersi a letto. Già che era in piedi rivide i piani per la giornata.

Erano le sette meno un quarto, le lezioni sarebbero cominciate alle nove. Era il suo primo giorno come studente universitario. Per raggiungere il campus avrebbe dovuto prendere un bus, un tragitto di venticinque minuti, e non voleva rischiare di arrivare in ritardo. 

Una nuova, emozionante avventura cominciava adesso per lui. Aveva lasciato casa per trasferirsi il più vicino possibile alla facoltà, aveva trovato un lavoretto nel weekend per pagarsi le spese: non era più un bambino.

Controllò per l’ultima volta che tutto fosse a posto, che la camicia con lo stemma dell’università fosse ben stirata, che Guardian non avesse sparso i suoi peli sulla giacca, che nello zaino ci fosse tutto il necessario, poi andò in cucina a preparare la colazione.

Il gattone nero miagolò e gli zampettò tra le gambe quando lo vide uscire. Di solito lo lasciava dormire con lui, ma quella notte era stato costretto a chiuderlo fuori perché non aveva voglia di assecondare il suo desiderio di gioco notturno. Non era servito a molto, dato che non aveva comunque riposato, ma almeno il gatto non sembrava risentito. 

Gli rivolse una carezza e sbadigliando accese la macchinetta del caffé.

Il piccolo appartamento dava su un vicoletto così stretto che poteva vedere il palazzo di fronte, e l’uomo villoso che dietro le tende sottili si spogliava per espletare i suoi bisogni. Xavier aveva imparato a suo discapito quanto potesse essere scioccante il culo di un cinquantenne sovrappeso piegato a novanta al mattino prima di colazione, per questo le tende delle finestra della cucina erano spesse e gettavano un’ombra scura che lo costringeva a tenere perennemente la luce accesa nella stanza. Un piccolo compromesso per non impazzire di vergogna. 

Guardian miagolò di nuovo, Xavier gli aprì una scatoletta che versò nella sua ciotola, dopo di che pensò anche a cosa preparare per sé. 

Qualcosa che asciugasse l’ansia liquida nel suo stomaco, che riempisse gli spazi tra angoscia ed emozione, solido abbastanza da non fare una brutta fine mentre era sull’autobus.

In verità non aveva voglia di mangiare niente, ma non poteva affrontare quella giornata senza mettere qualcosa sotto i denti. Per cui si fece un toast con marmellata e burro, pregando che il panico non avesse la meglio. 

 

Alla fermata dell’autobus Xavier agitava le gambe, mordicchiandosi il labbro inferiore. Era in anticipo di qualche minuto eppure, per ragioni note solo a chi l’aveva creato con più ansia che buon senso, temeva di averlo perso.

Per l’ennesima volta controllò l’orario sia sul telefono sia sulla tabella plastificata attaccata al palo della fermata. 

Sì, era in orario, il bus sarebbe passato a momenti.

In tutto quel turbinare di emozioni e pensieri le immagini del sogno si mostrarono nuovamente a lui. 

Si erano incollate a lui come carta moschicida, e per quanto si ribellasse, per quanto si agitasse, finiva per esserne ancora più invischiato.  

Le sensazioni erano la cosa più spaventosa. Il caldo, la paura, l’odore delle erbe aromatiche: sentiva tutto sulla pelle come se l’avesse vissuto.

Per quanto si sforzasse non riusciva a ricordare di aver mai fatto un sogno così vivido, così reale

« È libero questo posto? » 

Quasi schizzò in piedi a quella domanda.

Una signora di colore, sulla quarantina, vestita con un tailleur blu scuro, gli sorrideva gentile.

« Sì. » si ritrovò a bofonchiare. Il cuore in gola era cresciuto di dimensioni a tal punto da non lasciar passare l’aria, aveva l’impressione di soffocare ad ogni respiro. « Prego, si sieda pure. » 

La donna gli rivolse un cenno del capo e sedette di fianco a lui. 

Portava con sé una borsa da lavoro rettangolare, qualcosa che aveva l’aria di essere molto costosa e molto importante. Forse era un avvocato, o un’imprenditrice, i capelli tagliati corti erano neri e lucidi come petrolio appena spillato. 

Xavier avvertì il tiepido profumo di fiori provenire da lei, dolce sul fondo della lingua. 

« Sembri un fascio di nervi, giovanotto. » gli disse lei all’improvviso, dopo che Xavier ebbe controllato per l’ennesima volta la tabella degli orari e il suo cellulare. 

« M-mi scusi. » imbarazzato, infilò in tasca il cellulare e intrecciò le dita una all’altra, forte, tanto da farsi sbiancare le nocche. « Ho dormito male stanotte, ho fatto un sogno assurdo. È il primo giorno di università. » rendendosi conto del modo divertito in cui la donna lo guardava divenne rosso fin sotto le orecchie. « Dio, mi scusi, non so cosa mi prenda oggi. » 

« Oh ragazzo, non preoccuparti. » il sorriso della donna aveva un che di familiare. Era bianco latte, con denti perfetti e allineati come tanti piccoli soldati, le labbra carnose con un gloss rosso ciliegia sembravano brillare. Era una bella donna, troppo per avere bisogno di stare seduta ad aspettare l’autobus, da una cosa si aspettava che avesse un autista personale e una macchina di lusso ad aspettarla sotto casa per portarla a lavoro. « Non c’è niente di cui essere imbarazzati. Il primo giorno è stato così per tutti. » mandò una risata, scuotendo la testa. Xavier avvertì il vago tintinnio di gioielli e gemme tra i capelli, anche se non ve n’era alcuna traccia. « Io ho vomitato sulle scarpe del mio professore! »

A quel punto Xavier si lasciò andare ad una risatina. « ...v-vomitato? » ripeté. Cercò di vedere in quella donna distinta, in carriera, la ragazzina che vomitava sulle scarpe del professore.

« Sì. » annuì lei, con enfasi, per sottolinearlo. « Credevo che la mia vita fosse finita lì, in quel momento! » 

Risero insieme come vecchi amici, Xavier fino alle lacrime mentre la donna raccontava altri aneddoti della sua vita universitaria. E pian piano, mentre parlava, la sentì vicina. Forse gli mancava sua madre, forse affrontare quel percorso da solo era più duro di quanto fosse disposto ad ammettere, forse credeva che l’umanità non fosse più in grado di dare conforto, quando nel conforto si trovava il significato stesso di essere umani. 

« Grazie. » le disse quindi, abbozzando un sorrisetto. « Lei...lei non sa quanto mi abbia fatto sentire meglio. Avevo proprio bisogno di una risata. » 

La donna agitò la mano come a dire che non c’era bisogno di ringraziarla. Poi si fece seria, il suo sguardo di mogano si poggiò su di lui con un’intensità tale da non potergli sfuggire. Erano l’occhio di un ciclone devastante che avrebbe lasciato solo distruzione al suo passaggio. 

« Vedo che la tua presunzione è migliorata, Xewn. »

Xavier avvertì nettamente la lama del pugnale conficcarsi nell’addome, le interiora ribollire indignate per quella violenza riversarsi fuori, come per sfuggire al freddo dell’acciaio. 

Saltò in piedi, instabile sulle gambe.

La donna sorrideva ma non c’era più niente di gentile in quel sorriso.

« Stranvan! »

Non era un sogno. 

La realtà gli cadde addosso come una secchiata d’acqua gelida. All’improvviso le macchine, gli edifici, le strade, tutto si accartocciava su di lui per soffocarlo. C’era troppo rumore, gli strilli di donne moribonde, e il sangue gli scorreva tra le dita.

Aveva vissuto in un inganno, la sua felicità era stata costruita con piccoli mattoni di menzogne e nefandezza da lei, dalla druida, da Stranvan. 

« Ti ricordi di me adesso, giovane guerriero? » mormorò lei. All’immagine della donna distinta si sovrappose quello della druida, vestita con la pelliccia d’orso, con i piedi nudi e le rune intagliate nella carne d’ebano. « Ricordi la maledizione? » 

« Non mi avrai. » ringhiò Xavier, Xewn. 

L’autobus delle 08:05 arrivò un po’ più veloce del solito, perché l’autista, distratto da un mal di testa feroce e dallo spettro del divorzio aveva il piede piantato sull’acceleratore. 

Non poté fare nulla per fermare le tredici e più tonnellate del mezzo in corsa, né per evitare il corpo del giovane che si buttò tra le sue ruote.

Sul parabrezza si aprì a ventaglio uno spruzzo di sangue rosato mentre i passeggeri urlavano. L’autista avvertì lo scricchiolio distinto di tutte le 206 ossa del ragazzo mentre diventavano polvere, una dopo l’altra, come quando si mischiano farina e uova in una ciotola per preparare una torta. 

 

*

 

Il suono del guzheng riempiva il cortile interno di note vibranti, tenui, color pesca come l’alba; il vento leggero del primo pomeriggio le sollevava nell’aria; il canto di uccelli nascosti tra gli alberi agitava le cime più sottili degli alberi fuori dalla residenza. 

Xu Xue aprì gli occhi. Ad un certo punto, durante la meditazione, doveva essersi addormentato. 

Il cuore perse un battito ma il corpo non si mosse, solo gli occhi percorsero il cortile. Qualcuno si era accorto di lui? Cosa avrebbe detto il Maestro se l’avesse scoperto? 

Era Xu Mei a suonare, il piccolo guzheng sulle ginocchia. Xu Xue si perse a guardare il suo viso, un ovale bianco latte, i suoi occhi, scuri come semi di papavero, e le sue dita, agili sulle corde. 

Era stata la sua musica a riscuoterlo o solo le ombre di un cattivo sogno? 

Scosse la testa, si sentiva come intorpidito, gli arti formicolavano, i muscoli del collo contratti. 

Dal colore del cielo capì di aver dormito per due imbarazzanti ore, così, con le gambe incrociate, di fianco al laghetto delle orchidee. Che figura doveva aver fatto con quelli che, dal parapetto del basso ponte, potevano vederlo! 

Si alzò in piedi quasi a fatica ignorando il pungere doloroso del sangue che tornava a circolare, e raggiunse Xu Mei. 

Le dita sulle corde non si arrestarono né lei alzò lo sguardo, ma la vibrazione si fece soave e lui seppe di avere tutta la sua attenzione.

Si sedette al suo fianco sollevando i bordi dell’hanfu in modo da non stropicciarlo. Quello di lei era verde giada, pallido e delicato, con cicogne in volo dipinte sulla parte inferiore; il suo invece, di un verde più scuro, ondeggiava tra nuvole dai colori proibiti, frutto di un volo nella fantasia del sarto. Visti vicini sembrava che le cicogne sull’hanfu di lei si alzassero nel cielo verde mare di lui. 

« A-Xue ha dormito bene vicino alle orchidee? » 

Xu Xue incassò la testa tra le spalle, imbarazzato, volgendo altrove lo sguardo mentre la sorella, divertita, continuava a suonare. Il modo in cui le sue dita pizzicavano le corde era magico, creava immagini, colori, riempiva il cortile di calore. Non si poteva fare a meno di fermarsi un istante a sentirla suonare, le attendenti della residenza alzavano la testa dai loro cesti di biancheria, dai calderoni fumanti, solo per cogliere nell’aria le note del suo guzheng. 

« Non mi sono neanche accorto di essermi addormentato. » borbottò lui, un mezzo broncio infantile sulle labbra.

« Non sta bene che un giovane della tua età si comporti come un bambino. » ma lo stava prendendo in giro tanto che la sua risata scampanellò tra le corde del guzheng, diventando un’improvvisa fioritura di pesco tra le note che stava suonando.

« Ho dovuto studiare stanotte, ma non credevo di essere così stanco. » 

« Forse A-Xue sarebbe stato meno stanco se avesse studiato di giorno invece di bighellonare lungo il fiume? » insinuò la ragazza.

Xu Xue aprì bocca per dire qualcosa, poi la richiuse, colmo di imbarazzo fino all’orlo. 

Lei continuò a suonare, all’apparenza imperturbabile.

Xu Mei era bella e impalpabile come la nebbia del mattino, al fianco di Wang Ning sarebbe stata un’apparizione, come le vele bianche di una nave che entra in porto dopo una tempesta.

Xu Xue non credeva ancora che il matrimonio della sorella fosse già quella settimana. Gli era sembrato così lontano che non vi aveva dato peso. La sua sorellona sarebbe rimasta nel cortile a suonare il guzheng ancora per lungo tempo, le giornate sarebbero state immerse nella sua musica mentre il sole disegnava un arco nel cielo.

Invece adesso diventava consapevole che i tempi della fanciullezza erano finiti. Anche lui nel giro di un paio d’anni avrebbe sposato una donna scelta dai genitori. 

La vita poteva cambiare in un battito di ciglia, in un respiro, eppure si provava disperatamente a prolungare ogni singolo attimo. 

Quando Xu Mei finì di suonare nel cortile scese il silenzio. Persino gli usignoli smisero di cantare e il vento di soffiare, in attesa che la dolce musica del suo guzheng tornasse a risuonare. 

« Tra poco giungerà Wang Ning. » sospirò lei, sognante. Lui invece arricciò il naso in una smorfia. Wang Ning non gli piaceva, ma la sorella, nonostante quello fosse un matrimonio d’interesse, era innamorata di lui. Non poteva permettersi interferire con la sua felicità, non ne aveva alcun diritto. « A-Xue farà il bravo? » 

Si rivolgeva a lui come quando era bambino, con lo stesso nomignolo e il tono accondiscendente di chi prova un grande affetto e una grande paura insieme. 

Xu Xue sorrise. Le prese una mano e intrecciò le dita alle sue. Era delicata e bianca, i boccioli delle orchidee non erano niente in confronto, eppure quando suonava il guzheng era capace di grande forza. 

« Farò tutto quello che A-Mei desidera. » le rispose, con lo stesso identico tono. 

Lei si lasciò andare in una risata che prese anche lui. 

 

Quando il sole si trovava in discesa verso l’orizzonte, Wang Ning giunse alla residenza. 

Scortato da uno sciame di attendenti, colorati come insetti dal carapace iridescente, l’uomo camminava impettito nel suo hanfu colore crema dai bordi dorati. Ricamati con filo d’oro nella trama del tessuto spiccavano fiori di glicine e ad ogni passo il gioiello tra i suoi capelli mandava bagliori tutto intorno. 

Sembrava un diamante in grado di muoversi, catturava la luce e ne faceva un orpello. 

Xu Xue era di fianco al padre, in piedi sulla soglia del damen. L’incedere del futuro marito della sorella aveva attirato l’attenzione di tutta la corte. Le cameriere sbirciavano tra le colonne, i cuochi avevano lasciato le cucine per osservare quello spettacolo di opulenza, e benché fosse scortese che i servi si intravedessero tra tende e colonne i padroni di casa erano troppo impegnati ad accogliere gli ospiti. 

Xu Zhen, il capofamiglia, accolse Wang Ning a braccia aperte, ma Xu Xue tratteneva a stento le smorfie di insofferenza: quell’uomo era un pallone gonfiato e per quanto oro e olio profumato si gettasse addosso appariva rozzo e sbozzato come una statua mai completata. Eppure Xu Mei brillava di gioia. Per lui aveva indossato l’hanfu con i fiori di viola, il più delizioso e leggero, che disegnava volute soffici intorno al suo corpo. 

Xu Xue salutò con cortesia distaccata il futuro cognato e poi lasciò il resto ai genitori. 

Si portò educatamente di lato mentre gli attendenti di Wang Ning entravano in casa, carichi di bagagli. E dire che il loro padrone si sarebbe fermato solo un paio di giorni, aveva davvero bisogno di così tanti bagagli e servitori? 

Trattenne una risatina al pensiero di Wang Ning che si truccava e impomatava come una donna nelle sue stanza.

E poi la vita. 

La donna in coda alla processione di hanfu di tutte le sfumature dell’oro ne portava invece uno nero come la pece. Il nero doveva aver stinto e macchiato la pelle, perché essa era dello stesso insolito colore.

Xu Xue stava per chiedere chi fosse quella donna ma ormai tutti erano entrati: erano rimasti solo loro. 

« I miei saluti, giovane signore. » disse la donna. Una pennellata d’oro era finita anche sulle sue labbra che apparivano carnose come frutti pronti per essere raccolti. I capelli, intrecciati con maestria sulla testa, erano percorsi da perle e schegge d’oro, gioielli adeguati ad una nobildonna. Anche il suo hanfu, una volta che si fu avvicinata, appariva in tutto il suo splendore, con fili d’oro intrecciati a quelli neri nel tessuto. 

Xu Xue non poté fare a meno di chiedersi cosa ci facesse in coda all’impressionante numero di servi di Wang Ning, e soprattutto perché fosse vestita come una nobile. 

« Saluti a voi. » ricambiò però, cortese, il saluto, portandosi in avanti in un piccolo inchino. « Accompagnate il corteo di Wang Ning? »

Una strana inquietudine gli pungeva i nervi. La donna sorrideva ma non era rassicurante. Non aveva mai visto qualcuno con la pelle tanto scura se non nei racconti di demoni e spiriti maligni. 

Che fosse un cattivo presagio per il matrimonio di Xu Wei? 

« No, no, non sono qui per questo. » 

A sentire quella risposta Xu Xue sentì un pungolo d’angoscia prendergli il cuore. 

« Non vorrei essere scortese, madame. » cominciò il ragazzo. Gettava occhiate tutto intorno cercando di non farsi notare, ma c’era troppo silenzio: gli attendenti e la sua famiglia dovevano essere nel cortile interno della residenza, là fuori non c’era nessun altro. « Ho l’impressione di conoscervi, ci siamo forse già incontrati? » 

La donna annuì, lentamente. Teneva le mani dentro le ampie maniche dell’hanfu, con deferenza. « In un’altra vita, giovane signore. » 

Xu Xue batté le palpebre, improvvisamente pesanti e gonfie. 

La consapevolezza tornò tutta in una volta, indesiderata e indesiderabile, con lo stesso sapore che accompagna il veleno: amaro dolore. 

« Stranvan. » la chiamò con l’unico nome che conosceva, e lei annuì, pacata e gentile come sempre. « Sei qui per uccidermi, di nuovo? » 

« Se ti impegnerai a ricordare, giovane signore. » rispose lei, con la cortesia di una nobildonna ma il tono petulante di una serva. « Non ho mai alzato un dito contro di voi. » 

« Se non la prima volta, per maledirmi. » ringhiò lui. L’hanfu era pesante, troppo, e il suo corpo non abituato allo sforzo fisico. Era un nobile, tutto ciò che doveva saper fare era leggere, comporre poemi, suonare il guzheng, combattere non era richiesto. Di fronte a Stranvan si sentiva impotente. Lo era sempre

« Giovane signore, avete imparato le arti, il vostro cuore è più nobile delle vesti che indossate. » 

« E dunque? » 

Stranvan sorrise, il sorriso che lo perseguitava in ogni vita, in ogni ricordo, negli incubi che lo facevano svegliare urlando. 

Lei non rispose per non coprire le urla che venivano dall’interno della residenza e per non coprire il sibilo della freccia scoccata da uno degli arcieri di Wang Ning appostati nel bosco, che trafisse il cuore di Xu Xue, uccidendolo all’istante.

 

*

 

Il battito cardiaco sul monitor era debole, il respiratore sibilava ad ogni disperata, dolorosa boccata d’aria. 

Gli occhi, gli occhi erano vivi, intensi, aggrappati alle sue labbra come ad una benedizione.

« Sei tu, quindi. » disse, la voce resa ovattata dalla maschera dell’ossigeno. « Sei tu Stranvan! » 

La dottoressa Samay Dumont strinse appena i pugni, ma non perse il sorriso.

Il suo piccolo paziente intubato aveva dieci anni, e un tumore terminale che si era ormai cibato di ogni parte di lui.

I grandi occhioni scuri per la prima volta in settimane erano pieno di speranza e non di paura. 

I genitori avevano deciso: basta cure palliative, basta terapie del dolore, era arrivato il momento di staccare la spina.  

« Proprio così. » rispose la donna. Sotto il camice bianco indossava un maglione a collo alto e pantaloni comodi, e la stanchezza era il suo unico gioiello: rendeva tese le labbra carnose, opaca la pelle d’ebano, spenti e sfibrati i capelli che teneva legati in una crocchia.

Aveva la bocca secca, perché nelle ultime due ore non aveva fatto altro che raccontare storie, una dopo l’altra, lasciandole scivolare sulla lingua al posto dei farmaci.

Xander si stava spegnendo. Il battito del cuore era diventato un lento, faticoso susseguirsi di bip sullo schermo. Non aveva più la forza per lottare, non voleva più lottare. 

Chi non ne avrebbe? 

Se Samay avesse avuto il potere di strappare quel male da dentro di lui l’avrebbe già fatto, ma non poteva, tutte le armi che conosceva avevano fallito, niente di ciò che aveva usato aveva reso possibile la salvezza di quel piccolo guerriero coraggioso. 

L’ultima arma che le era rimasta era la stessa che usava con i suoi figli: raccontare favole.

Così aveva vestito per lui i panni della druida Stranvan, e aveva creato quel mondo intrecciato e complesso di vita, morte, rinascita. Speranza.

Xander tossì, strinse le manine butterate di lividi intorno alle lenzuola. Recuperò fiato a fatica, combatté per trovarlo. 

« Perché...perché mi hai maledetto? » chiese il bambino, con la vocetta resa sottile da una rabbia che non era sua, ma che le storie che lei aveva creato avevano reso tale. 

« Perché non avessi paura. » rispose lei, il sorriso bianco e smagliante a coprire le lacrime. « Volevo che imparassi da ogni vita che hai vissuto, volevo che diventassi migliore. E adesso lo sei. Adesso posso rompere la maledizione. »

 « Vuol dire… » rantolò il bambino, come se avesse ritrovato il vigore. « Vuol dire che...potrò...potrò…andare in paradiso? » 

“Sorridi.”

Una volta, quando Samay era ancora una studentessa tirocinante, aveva chiesto al suo superiore come faceva a superare i lutti, come faceva un pediatra oncologico a sopportare l’idea di perdere un paziente, un bambino, in quel modo orribile. Quello che cercavano di curare, di fermare, era un male senza perdono, che lasciava senza respiro, che strappava e rovinava la vita in ogni modo. 

Il suo superiore era un uomo sulla sessantina, la barba grigia, che aveva optato per rasare i capelli che ormai erano diventati troppo radi in testa, che aveva visto più bambini respirare per l’ultima volta di quanto gli piacesse ammettere. 

“Sorridi.” le aveva risposto “Sorridi sempre.” 

E Samay sorrise anche adesso, sincera e solare come una madre, pensando a Xander come ad uno dei suoi figli. Desiderava trattanerlo e rubarlo alla morte, ma il suo tempo in questo mondo era finito. 

« Sì. » disse, annuendo con grandi gesti. 

« Combatterò con i grandi guerrieri… » cominciò lui, le palpebre si stavano chiudendo. 

Samay avvertì la madre del bambino, da qualche parte alle sue spalle, esclusa con violenza dal suo campo visivo perché sarebbe stato troppo da sopportare, cominciare a singhiozzare in silenzio.  

« Sì, Xander. » continuò la dottoressa. Lasciò andare la sua manina, l’aveva tenuta stretta per tutto quel tempo. Il palpitare del suo cuore erano passi che si allontanavano sempre più da lei, da loro, dalla sofferenza degli ultimi sette mesi. « Sarai un eroe tra gli eroi. » 

Il bambino accennò un sorriso, l’ultimo, sulle labbra screpolate, sottili, finalmente libere di esprimere qualcosa di diverso dal dolore. 

« Grazie, Stranvan. » 

Xander sembrò trattenere l’ultimo respiro per assaporare l’aria, per raccogliere i pensieri, per attraversare l’oscura parete tra la vita e la morte, poi lo rilasciò, e l’anima lo lasciò finalmente libera. 

Dopo tutte quelle vite, dopo tutte quelle battaglie.

Finalmente libera.  

 
   
 
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