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Autore: Lamy_    23/03/2020    0 recensioni
Ivar e Hildr sono in fuga da mesi, senza certezze e senza una meta. Attraverso la Via della Seta giungono a Kiev, dove vengono accolti con entusiasmo dal principe Oleg. Ivar ha finalmente la possibilità di riconquistare Kattegat e la sua posizione da re. Questa nuova terra, però, sin da subito si presenta piena di insidie tra giochi pericolosi, cacce selvagge e amori proibiti. Il rapporto di Ivar e Hildr viene messo a dura prova dagli dèi che si vendicano per la tracotanza della giovane coppia.
Il destino quali piani ha in serbo per loro?
Fine 5B/inizio 6A; contiene spoiler (a vostro rischio e pericolo).
Genere: Azione, Guerra, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Ivar, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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1. SÓL E MÁNI

Tre mesi dopo.
Hildr osservava il cielo con la stessa meraviglia di quando era bambina. Si era sempre domandata come facessero le stelle ad essere così luminose e sua madre le diceva che era merito degli dèi. Crescendo e ascoltando zio Floki, si era convinta che gli astri brillassero per opera di Odino. Non poteva esserci altra spiegazione a tanta bellezza. Allungò una mano in acqua e lasciò che le dita danzassero insieme alle onde che spostavano l’imbarcazione. Oramai erano in viaggio da tre mesi, quella barca era diventata la loro casa e il mare era l’unica certezza che accompagnava le loro giornate. Si erano fermati solo quattro volte, ma le soste erano state brevi, l’urgenza di ripartire era imminente per quei mercanti. Hildr scendeva e recuperava ciò di cui avevano bisogno, poi ritornava in tempo per la partenza. Si trovavano su un’imbarcazione mercantile che si spostava in lungo e in largo, erano una decina di uomini e due donne che lavoravano come cuoche. Loro tre si era ritagliati un piccolo angolo per starsene tranquilli, in fondo erano soltanto giovani ragazzi che non avrebbero recato alcun disturbo.
“Hildr.”
Ivar si sedette accanto a lei e mise da parte la stampella per sistemarsi meglio. Le gambe gli dolevano, e l’umidità peggiorava solo le cose. Desiderava fermarsi e riposare in un vero letto, ma era ancora una remota possibilità.
“Isobel dorme?”
“Sì, era molto stanca. Tu che ci fai qui da sola?”
Era notte, tutti dormivano – eccetto il timoniere – e lei aveva ritenuto fosse il momento giusto per restare da sola a riflettere.
“Pensavo.”
“A cosa?”
“Che ci siamo cacciati in un brutto guaio. Sarà dura, Ivar.”
Ivar le prese la mano e strinse forte per mostrarle la sua vicinanza.
“Non importa. Ce la caveremo anche questa volta. Devi mantenere il morale alto.”
“Questa tua positività mi dà il voltastomaco.” Disse la ragazza.
“Lo so, per questo sono positivo. Infastidirti è lo scopo della mia vita.”
Scoppiarono a ridere, e almeno le risate tra di loro non erano mai finite. Hildr guardò l’anello che portava all’anulare e guardò la collana che Ivar portava al collo, e sorrise. Si erano sposati tre mesi prima senza nessun testimone, senza cerimonia, perciò non era un vero matrimonio. Eppure a loro andava bene così.
“Dobbiamo fermarci da qualche parte. Non possiamo navigare ancora. E dobbiamo anche trovare una soluzione per Isobel.”
“Una soluzione di che tipo?” chiese Ivar, le sopracciglia aggrottate.
“Tra poco partorirà e non potremo trascinare il bambino di qua e di là. Entrambi hanno bisogno di una casa. Non siamo in grado di badare ad un neonato.”
“Scommetto che tu hai già un’idea.”
Hildr annuì, aveva rimuginato sull’ipotesi giorno dopo giorno senza trovare altre vie d’uscita.
“Isobel e il bambino devono tornare in Wessex. E’ l’unico modo che hanno per sopravvivere. Lei ha una zia in vita che può aiutarli.”
“Ancora Alfred.” Disse Ivar con voce nervosa.
Sembrava che Hildr riuscisse a tirare fuori Alfred anche nei momenti meno inopportuni.
“Che c’entra Alfred? Io parlo di Isobel. Un bambino non può vagare come un vagabondo. Quello è nostro nipote e quindi dobbiamo fare il possibile per lui, o per lei.”
Ivar sbuffò per l’irruenza di Hildr, era la persona più testarda che avesse mai conosciuto.
“Come faranno a tornare in Wessex?”
“Il timoniere mi ha detto che fra due settimane la barca di un suo amico farà un carico destinato al Wessex. Isobel e il bambino potrebbero andare con loro. Ovviamente chiederò ad una delle cuoche di andare con lei per non lasciarla da sola.”
“La cuoca vorrà di sicuro qualcosa in cambio. Non abbiamo monete di scambio, Hildr.”
“Una cosa ci sarebbe.”
Hildr si slacciò la collana con la punta di freccia che Ivar le aveva regalato, del resto era un gioiello che avrebbe abbandonato pur di aiutare Isobel.
“E tu saresti disposta a dare via questa collana? Incredibile.” Chiosò Ivar, infastidito.
“Se noi dovessimo morire, il figlio di Isobel sarebbe l’unico erede di Kattegat. Stiamo preservando il trono nel caso tutto andasse in malora. Quel bambino è l’unica speranza di sopravvivenza.”
Ivar detestava quando Hildr aveva ragione, lei riusciva a ragionare in modo più lucido di lui e alla fine era in grado di convincerlo.
“D’accordo. Faremo come dici tu. E’ solo una stupida collana, anche se è un mio regalo.”
“Grazie.”
Hildr sorrise e lo abbracciò. Ivar ricambiò l’abbraccio perché non c’erano parole o azioni che potessero minare la fiducia che riponeva in lei.
 
Una settimana dopo.
Ivar non riusciva a dormire, tormentato dai pensieri che gli arrovellavano il cervello. Un’onda sollevò l’imbarcazione prima di tornare a spostarsi in maniera regolare. In quei mesi di viaggio aveva imparato a odiare il mare. Sin da bambino il mare gli era piaciuto, aveva sognato di solcare le acque del mondo insieme a suo padre e alla sua più cara amica, si era immaginato al comando di una barca degna di un re. Invece la realtà era ben diversa da come aveva sperato. Ogni giorno ripensava all’ultima battaglia contro Bjorn. Certo, il fratello dapprima si era ritirato, ma poi le circostanze lo avevano reso il vincitore. Ivar si sentiva un codardo per essere scappato, per aver lasciato Kattegat senza contrattaccare, però Hildr era rimasta ferita e senza di lei non era concepibile andare avanti.
“Ivar!”
Il flusso di pensieri fu interrotto dalla voce incrinata di Isobel. La ragazza emerse dal buio con il vestito bagnato e le mani sulla pancia rigonfia. Ivar si mosse con cautela per non svegliare Hildr che dormiva accanto a lui.
“Che succede?”
“Il bambino … Ah! Credo stia … per … oh! Nascere!”
Ivar allungò la mano tremante verso Hildr per scuoterla, lei era l’unica che poteva sostenere Isobel in quel momento.
“Hildr! Hildr! Svegliati!”
La ragazza sobbalzò, l’espressione assonnata, i capelli sciolti sulle spalle.
“Mmh, che c’è? Ci stanno attaccando?”
Isobel si lamentò di nuovo e si accasciò contro la parete della barca, i capelli biondi erano appiccicati alla fronte dal sudore.
“Sta per partorire.” Disse Ivar.
Hildr si mise in piedi e indossò gli stivali in pochi secondi, dopodiché corse fuori a chiamare le cuoche. Le due donne erano madri, sapevano come gestire un parto e sapevano cosa fare una volta avuto il neonato tra le braccia.
“Hildr mi ha detto che mi rispedite in Wessex. E’ vero?” chiese Isobel.
Ivar intanto si era alzato a fatica con l’aiuto della stampella e si era seduto su un barile contenente chissà cosa. Erano stati confinati assieme alle merci, perlomeno era un luogo piuttosto caldo e asciutto.
“E’ vero. Tu e il bambino avete bisogno di un posto sicuro. Sei la madre di un papabile sovrano di Kattegat. Hai una grande responsabilità.”
Isobel lo sapeva che suo figlio non sarebbe stato un bambino normale, era il figlio di Hvitserk e il nipote di Ragnar, pertanto era già un prodigio per questo. Se i figli di Ragnar fossero morti nell’arco di pochi anni, il bambino sarebbe stato l’unico erede del regno e lei sarebbe stata la reggente.
“Allora tu e Hildr cercate di sopravvivere perché non sopporto l’idea che mio figlio regni su Kattegat. Sarebbe come condannarlo a morte certa.”
Ivar rimase stupito dalle parole di Isobel poiché era una ragazza silenziosa e timida, che seguiva Hildr come un cane fedele, ma ora era una madre che doveva difendere il proprio figlio.
“Sopravvivremo.”
Hildr tornò insieme alle cuoche, munite di bacinelle e panni puliti, e si posizionò alle spalle di Isobel.
“Io resto qui con te.”
Isobel fu grata all’amica e le strinse la mano per darsi coraggio. Ivar, dal canto suo, decise che era meglio svignarsela prima che iniziassero le urla e i lamenti. Sgusciò via senza che nessuno se ne accorgesse dato che le tre donne erano focalizzate sull’imminente parto.
 
Era l’alba quando l’imbarcazione si fece di nuovo silenziosa. Il parto era stato lungo e doloroso, la notte era trascorsa lentamente e ricca di strilli. Alle prime luci la calma era tornata a far da padrone. Ivar sbarrò gli occhi quando vide Hildr camminare con un fagotto tra le braccia. Si inginocchiò di fronte a lui e gli mostrò un visino tondo ancora stremato dalla nascita.
“Ivar, ti presento tua nipote Aila.”
Per un attimo Ivar fu deluso dal fatto che fosse una femmina, poi ricordò a se stesso che la sua vita era segnata da donne straordinarie che si erano rivelate migliori degli uomini. Prese la piccola in braccio e le accarezzò la guancia con delicatezza.
“Aila vuol dire ‘benedetta’, è una scelta azzeccata.”
Hildr era stanca, sudata anche lei e con la mano dolorante a causa della stretta di Isobel, ma aveva un sorriso radioso che fece sorridere anche Ivar.
“E’ la bambina più bella del mondo.”
“Come sei sentimentale, Hildr. Non è da te.” scherzò lui.
“Idiota. – replicò Hildr – E’ solo che Aila è la prima cosa bella che è capita negli ultimi tempi e siamo costretti a lasciarla andare.”
“E’ per il suo bene. Questa bambina un giorno potrebbe essere tutto ciò che resta della nostra eredità.”
Hildr baciò la testa di Aila e si prese qualche istante per imprimere nella memoria quel dolce viso che forse non avrebbe rivisto mai più.
“Lo facciamo per te, bambina mia.”
 
Due mesi dopo.
“Terra!” gridò il timoniere.
Hildr finì di allacciarsi la giacca e si legò i capelli in una treccia semplice, poi indossò la pelliccia.
“Ivar, svegliati.” Disse, tirando un colpetto al fianco del ragazzo.
“Perché sei vestita?”
Ivar si mise seduto e si stropicciò gli occhi per scacciare il sonno. Dormire su un sacco di iuta e sulle assi di legno umide era diventato un incubo. Aveva i muscoli delle braccia intorpiditi e aveva anche torcicollo.
“Perché a momenti attracchiamo. Le tue gambe sono peggiorate e hai bisogno della gramigna. Forse al mercato ricavo qualcosa.”
La notte precedente un osso delle gambe si era spezzato procurandogli un dolore lancinante. La pelle era rossa e gonfia. Ivar aveva passato la notte a farsi cullare da Hildr per non pensare alla sofferenza.
“Stai attenta, ti prego.”
Hildr prese l’ascia e l’appese alla cintola, recuperò anche l’arco e le poche frecce che erano rimaste nella faretra.
“Ci vediamo dopo.”
Ivar la vide lasciare l’imbarcazione con una terribile sensazione di sciagura. Da quando Isobel e Aila erano partite per il Wessex, Hildr era taciturna e spesso si isolava. Quel vagabondare stava mettendo a dura prova il loro rapporto, sia l’amicizia sia l’amore, e Ivar temeva che un giorno la ragazza sarebbe scesa a terra senza fare mai più ritorno.
 
# Ivar intagliava il legno mentre Hildr ne levigava la superficie. Floki li aveva chiamati poche ore prima perché i ragazzi lo aiutassero a lavorare alla nuova imbarcazione. Ragnar ne aveva ordinato la costruzione dal momento che doveva recarsi in Wessex per aiutare la regina di Mercia, pertanto era necessario lavorare bene e in fretta.
“Cosa sono quei musi lunghi, ragazzi?” chiese Floki controllando il sacchetto dei chiodi.
“Abbiamo fame.” Si lamentò Ivar.
“Sì. – confermò Hildr – Zio, hai intenzione di tenerci qui fino all’alba? Stasera la regina Aslaug ha organizzato una festa e noi vorremmo andarci.”
Floki lanciò un’occhiata divertita alla nipote e ridacchiò, era una bambina piuttosto autoritaria per avere solo dieci anni.
“L’alba è un dono degli dèi. Dalla città non si vede bene, ma da qui è uno spettacolo. Non vi piacerebbe vedere il sole sorgere?”
Ivar arricciò il naso, la prospettiva di dormire in spiaggia non lo allettava particolarmente. Al contrario, Hildr stava già annuendo.
“Sì, io voglio vederlo! Ivar, tu resti con me?”
“Lui resta.” Disse Floki.
“Ah, sì? Non ho mica risposto.” Ribatté Ivar, annoiato.
Hildr mise da parte il legno e scompigliò i capelli di Ivar per gioco.
“Dai, brontolone, resta con me.”
Ivar sbuffò, sebbene in cuor suo fosse felice che Hildr lo voleva con sé, e fece spallucce.
“Va bene, pidocchiosa.”
La bambina rise, del resto la sua amicizia con Ivar si basava su offese e schernimento. Floki si sedette su uno sgabello sgangherato e bevve un sorso d’acqua, i suoi occhi ammiravano il cielo che pian piano cedeva il posto all’oscurità.
“Conoscete il mito del sole e della luna?”
Ivar e Hildr si scambiarono uno sguardo confuso e scossero la testa all’unisono.
“Racconta.” Lo incitò la bambina.  
“Sól e Máni erano in origine fratello e sorella e avevano il compito di guidare rispettivamente il carro del sole e il carro della luna. I due carri dovevano essere guidati per metà del giorno mentre due lupi li inseguivano. La leggenda narra che i lupi alla fine siano riusciti a divorare Sól e Máni durante Ragnarok.”
“Io e Hildr siamo Sól e Máni?” domandò Ivar.
Floki guardò i due bambini, sempre uniti come il giorno e la notte, e si rese conto che involontariamente aveva parlato di loro.
“Sì, siete un po’ come loro. E voi sarete divorati dai lupi?” #
 
“Ivar!”
Il ragazzo avvertì un lieve dolore nel punto in cui Hildr gli aveva tirato un pugno.
“Era necessario colpirmi?”
“Ti eri imbambolato. Stai bene?”
“Stavo solo ricordando una delle storie di Floki.”
Hildr si tolse la pelliccia e si liberò delle armi, poi si sedette di fronte a lui e tirò fuori dalla tasca un fazzoletto.
“Ho trovato solo tre foglie di gramigna. Mi dispiace.”
“Non ti preoccupare. Va bene così, Hildr.”
Ivar si accorse dell’espressione triste della ragazza e gli venne voglia di consolarla, ma lei odiava essere confortata come fosse un cucciolo smarrito. Hildr odiava la propria fragilità, voleva sempre dimostrare di essere forte e di potersela cavare da sola.
“Dammi il tempo di pestare le foglie.”
“Ti ricordi quando aiutammo Floki con la barca che ha condotto mio padre in Wessex?”
Hildr premette le foglie tra le dita, le mise nella ciotola e le pestò con una pietra che aveva rubato da un banco del mercato.
“Quale delle tante barche per quale dei tanti viaggi in Wessex di tuo padre?”
“Una delle ultime che Floki ha costruito. Te la ricordi, dai. Era quella con la fiancata colorata di giallo.”
“E quindi? Sei nostalgico?”
Ivar non capiva perché Hildr fosse tanto distratta, pestava le foglie con una rabbia tale che avrebbe fracassato un cranio in un minuto.
“Pensavo alla storia che ci ha raccontato su Sól e Máni.”
“Solleva i calzoni. Comunque, è la storia del sole e della luna.”
“Allora te la ricordi.”
Ivar digrignò i denti per il dolore quando tirò su la stoffa per mostrare due gambe rachitiche coperte di vesciche.
“Ivar, perché non mi hai detto quanto fosse grave? Guarda qui, la pelle è infiammata e sembra che si sia rotto un altro osso.”
Hildr incominciò a spalmare la sostanza verdastra sulla gamba destra, che a prima vista era quella messa peggio, facendo la minima pressione.
“Non sono un caso pietoso che devi sempre soccorrere.” Disse lui, infastidito.
“Però sei un bambino. Diamine, alle volte sei proprio infantile.”
Ivar trasalì quando Hildr massaggiò la parte in cui provava più pena. Conviveva da tutta la vita con quei dolori, eppure non riusciva ad abituarsi perché di volta in volta l’intensità aumentava.
“Tu non dovresti prenderti cura di me. A quest’ora tu dovresti essere la regina di Kattegat.”
“Non voglio essere la regina di Kattegat. Io voglio solo tornare a casa.”
Hildr terminò i massaggi dopo aver unto per bene la pelle arrossata, fasciò le gambe con dei panni puliti che aveva ottenuto scambiando una pagnotta di pane e risistemò i calzoni.
“Saresti una regina straordinaria. Saresti come il sole per Kattegat.” Disse Ivar sorridendo.
La ragazza ridacchiò e gli diede un pugno gioco sulla spalla, poi si sedette al suo fianco per mettersi al caldo sotto le coperte.
“Ti ricordo che Sól e Máni sono stati sbranati. Zio Floki ci raccomandò di stare attenti ai lupi.”
Ivar le circondò le spalle con il braccio e si sporse per baciarle la fronte.
“Ma noi siamo insieme. E quando io e te siamo insieme non ci spaventa niente e nessuno. Siamo come Sól e Máni, uniti nella buona e nella cattiva sorte.”
“Sì, Ivar. Insieme.”
 
Una settimana dopo
Hildr emise un sospiro di sollievo quando si sedette dopo una lunga e faticosa camminata. Due giorni prima lei e Ivar erano giunti in ‘Rus, un territorio ad Est che nessuno dei due aveva mai sentito nominare. I mercanti si erano fermati in una cittadella costiera, avevano distribuito il carico ed erano tornati dalle proprie famiglie. Il loro viaggio per mare era giunto al termine. Quella tappa era la loro ultima destinazione. Al porto avevano incontrato un gruppo di altri mercanti che stavano andando a Kiev, la capitale del regno, e Ivar aveva deciso che andare con loro era l’unica soluzione per cavarsela in un mondo nuovo.
“C’è qualcosa che non va.” Esordì Hildr.
Si erano fermati nella foresta per la sosta notturna, avrebbero ripreso il cammino l’indomani dopo un meritato riposo. Ivar era stremato, sebbene perlopiù avesse viaggiato a cavallo, per via delle gambe indolenzite.
“Qualcosa di che tipo?”
Hildr si guardò attorno ed ebbe un fremito, era come se il suo corpo le stesse inviando un segnale di pericolo.
“Non lo so ancora, so solo che non mi piace.”
“A te non piace niente, Hildr.” La incalzò Ivar.
Lei inarcò il sopracciglio e sbuffò, sin da bambina aveva la nomea di essere diffidente.
“Non è vero. Tu mi piaci.”
“Ah, sì?”
Ivar le afferrò il mento e la baciò dolcemente, sorridendo subito dopo. Hildr gli fece la linguaccia in risposta. Era bello che tra di loro le cose non fossero cambiate dopo il fidanzamento. Certo, erano una coppia – quasi sposati – ma prima di tutto erano migliori amici e cercavano di mantenere la loro relazione quanto più leggera possibile.
“Quell’anello deve valere parecchio.” Disse uno degli uomini che stava con loro.
Hildr sapeva che l’anello di Aslaug aveva un grande valore, era fatto di oro e pietre preziose, e agli occhi di un mercante doveva essere un grande affare.
“Se tu o i tuoi amici provate a rubare questo anello, giuro su Odino che vi squarto vivi.”
“E non scherza.”commentò Ivar, compiaciuto.
L’uomo le riservò uno sguardo disgustato, dopodiché si riunì agli altri per la notte.
“Dovremmo dormire anche noi, siamo entrambi stanchi.” Disse Hildr.
In silenzio allestirono un giaciglio abbastanza comodo accanto al fuoco e si coricarono abbracciati in modo da scaldarsi meglio. Ivar accarezzava la schiena della ragazza perché sapeva che avrebbe impiegato un po’ di tempo a prendere sonno.
“Hildr.”
“Dimmi.”
“Hai paura?”
Hildr fu sorpresa da quella domanda. Non avevamo mai affrontato quella questione nonostante fossero in mare da mesi, sperduti, di paese in paese, senza una meta precisa.
“No. – rispose lei – E tu?”
“Ci sei tu, quindi va bene così.”
Hildr si accoccolò contro di lui e affondò la guancia contro il suo petto, al che Ivar la strinse di più.
“Ce la possiamo fare, Ivar.”
 
Hildr nel dormiveglia udì degli strani rumori. Sembravano spade che cozzavano, urla indistinte, neve smossa da passi concitati. Rotolò su un fianco e aprì gli occhi, subito feriti dalla luce intensa. Era ormai giorno. Impiegò diversi minuti per rendersi conto che erano sotto attacco. Più in là, verso la fitta boscaglia dove si erano appartati i mercanti per la notte, c’erano una decina di uomini armati che stavano facendo una strage uccidendo chiunque capitasse a tiro.
“Ivar! Muoviti! Dobbiamo andarcene!”
Mentre scrollava il ragazzo affinché si svegliasse, avvertì un debole fragore alle sue spalle. Con la coda dell’occhio scorse due scarponi neri che avanzavano. Afferrò l’ascia e si voltò puntandola contro il nemico.
“Non ti conviene fare un altro passo.”
L’uomo la guardò confuso, non capiva la sua lingua, ma quelle parole incomprensibili bastarono per metterlo sulla difensiva. Aveva una spada pesante e affilata, mentre lei stava brandendo un’ascia smunta e piccola. Hildr indietreggiava mentre lui si avvicinava con un sorriso disgustoso sulle labbra.
“Non così in fretta!” disse Ivar.
L’attimo dopo una freccia si conficcò nella gola dell’uomo, che cadde tra la neve col sangue che si allargava sotto di lui.
“Era ora che ti svegliassi!” lo rimproverò Hildr.
Ivar gettò l’arco a terra e si issò sulla stampella, le gambe gli facevano incredibilmente male.
“Scusami se stavo facendo una dormita decente dopo mesi.”
La ragazza si fissò l’arco sulla schiena e si allacciò l’ascia alla cintura, pronta per qualsiasi evenienza.
“Scusami se degli uomini armati hanno interrotto il tuo sonnellino di bellezza.”
“Hildr.” La richiamò Ivar con tono piatto.
Hildr stava per ribattere con una delle sue solite frasi, ma imprecò a bassa voce quando si vide accerchiata dagli uomini armati.
“Fantastico, adesso ci rapiscono pure!”
I minuti successivi furono caotici: Ivar e Hildr furono incappucciati, caricati su un carro e trasportati chissà dove.
 
La prima cosa di cui Ivar prese coscienza fu il peso di Hildr addosso. Il corpo della ragazza era appoggiato su di lui come se fosse stata buttata a mo’ di sacco. Si trovavano in una piccola stanza spoglia, solo una finestrella in alto permetteva alla luce di illuminare lo spazio. Facevano freddo, c’era umidità e loro erano sdraiati sul pavimento di legno marcio.
“Sono morta?” biascicò Hildr.
Le girava la testa e aveva la vista appannata, ma tutto sommato era illesa. Tastò qualcosa di morbido sotto la testa e spalancò gli occhi con il timore che si trattasse di qualcosa di brutto.
“Quello che tocchi è il mio braccio.” Disse Ivar.
Hildr scrutò l’ambiente estraneo, era strano non sentire le onde sotto la barca oppure la neve sotto gli stivali. Era da tempo che non stava più in una stanza sulla terra ferma.
“Dove ci troviamo?”
“Non lo so. Hildr, per favore, sposta il gomito.”
Il gomito della ragazza premeva sul cavallo dei pantaloni di Ivar, che non poteva sopportare ancora quel fastidio. Hildr si mise seduta e si passò una mano tra i capelli aggrovigliati e sporchi, non faceva un bagno decente da mesi.
“Perché sono spaparanzata su di te?”
“Non lo so. Vuoi chiedermi qualcos’altro che non so?”
Ivar era irritato, odiava perdere il controllo della situazione, e odiava anche non conoscere le intenzioni degli uomini che li avevano catturati.
“Stai calmo, Ivar. Siamo in questo guaio insieme.”
“Ti chiedo scusa. E’ solo che non conoscere il guaio in cui siamo finiti mi disturba. Vogliono tenerci in vita? Torturarci? Ucciderci?”
Hildr alzò gli occhi al cielo, sfinita dall’ennesima trappola in cui erano caduti.
“Perché la gente vuole sempre o torturarci o ucciderci?”
“Perché siamo uno storpio e una ragazza.”
“Chi è la ragazza e chi è lo storpio?”
Benché le circostanze fossero negative, Ivar rise per la stupida battuta di Hildr. Lei era sempre capace di farlo sorridere, anche nei momenti più brutti.
“Se morissimo stanotte, vorrei che tu sapessi che ti amo.”
“E io amo te, Ivar. Però non moriremo stanotte. Non ci sono lupi abbastanza forti per divorarci.”
La loro conversazione fu stroncata dall’arrivo di tre guardie armate. Due di loro costrinsero Ivar e Hildr ad alzarsi pungolandoli con la punta della spada. La terza guardia, un uomo dallo sguardo severo, fece un cenno col capo e il gruppo si mosse come un unico corpo.
“Stiamo andando a morire.” Bisbigliò Hildr, trucidando la guardia che la spintonava.
Ivar arrancava a fatica, le gambe gli facevano troppo male e non sapeva quanto ancora avrebbe retto. Difatti, cadde a terra battendo il mento sulla stampella. Hildr provò ad abbassarsi ma una delle guardie la pungolò di nuovo con la spada.
“Lasciate che io lo aiuti.”
I tre uomini non cambiarono espressione, non comprendevano quella lingua e lei non sapeva come altro farsi intendere. Tentò ancora di abbassarsi e fu prontamente afferrata per il braccio da una guardia. A quel punto, stanca di essere trattata come una bambola di pezza, tirò una gomitata in faccia all’uomo per destabilizzarlo.
“Ivar, stai bene?”
“Sì. – mentì lui – Sto bene. Aiutami.”
La guardia ferita agguantò Hildr per le spalle e la scaraventò sul pavimento, poi con la spada scombinò i capelli di Ivar per divertimento.
“Basta.” Tuonò una voce autoritaria alle loro spalle.
Dal fondo del corridoio era emerso un uomo sulla trentina, spalle larghe, capelli corti e neri, due magnetici occhi verdi spiccavano sul viso squadrato. Indossava la stessa divisa delle guardie – nera e grigia di pelle – ma sulla giacca recava una spilla d’oro. Il nuovo arrivato rimise Ivar in piedi e gli restituì la stampella, dopodiché allungò una mano verso Hildr per aiutarla. La ragazza, però, fece una smorfia schifata e si drizzò da sola. L’uomo tese il braccio in avanti per invitare i due ragazzi a seguirlo. Hildr strinse le mani intorno al braccio di Ivar per facilitare i suoi passi fiacchi.
“Sta tranquilla.” disse Ivar con un mezzo sorriso.
Lei rafforzò la presa sulla stoffa in modo da trarre conforto dalla loro vicinanza.
“Di solito queste sono le parole che precedono una decapitazione.”
 “Tu saresti una bellissima testa decapitata.”
Hildr fece una breve risata, almeno le loro stupide battute non avevano ancora ceduto dinanzi alla prospettiva di morire.
Furono condotti in una grande sala ornata da paramenti color oro e argento, tappeti preziosi, candelabri lavorati a mano, e con un grande trono si ergeva su una pedana. Su di esso stava seduto un uomo, capelli scuri e barba scura, abiti sgargianti, dita inanellate. Stava sorridendo come se accogliesse vecchi amici.
“Benvenuti a Kiev. Permettetemi di presentarmi: io sono il principe Oleg. Vi trovate nel mio regno e nel mio palazzo. E voi siete?”
Ivar e Hildr rimasero spiazzati dal fatto che Oleg parlasse la loro lingua, ma al tempo stesso c’era la possibilità di intavolare un dialogo civile.
“Io sono Ivar, figlio di Ragnar Lothbrok e sovrano spodestato di Kattegat. Lei è Hildr, il mio generale e la mia compagna.”
“Un generale donna? Scioccante.” Commentò Oleg ridacchiando.
Hildr non rise, anzi assunse l’espressione annoiata di chi ascolta per l’ennesima volta la stessa solfa. Tutti la sottovalutavano perché era una donna e perché era giovane.
“Hai finito di ridere o devo darti un pugno in faccia per farti smettere?”
Oleg smise subito di ridere, la sua attenzione si concentrò tutta su Hildr. Certo, era sporca e indossava abiti stracciati, ma la sua postura era quella di chi non perde mai un colpo.
“Lui è Vadim, mio cugino e generale dell’esercito.”
L’uomo che era andato in loro soccorso si fece avanti e si inchinò per presentarsi. Ora Hildr capiva la ragione della spilla sulla giacca.
“Perché siete qui?” indagò Vadim, e il suo timbro sembrava dettare ordini.
“Non siamo qui per invadervi, se è questo che pensate. Siamo in fuga.” Spiegò Ivar.
Oleg accarezzava i braccioli del trono mentre studiava la giovane coppia come avrebbe fatto un cacciatore con la preda.
“Un figlio del leggendario Ragnar Lothbrok giunge nel mio regno e io non devo sospettare un’invasione? E’ ridicolo, ne sarete consapevoli anche voi.”
“Per quanto possa sembrare ridicolo, questa è la verità. Io e Hildr siamo in viaggio da mesi dopo essere stati sconfitti dai miei fratelli, Bjorn La Corazza, Ubbe e Hvitserk.”
Vadim sgranò gli occhi a quei nomi, aveva udito molte storie sui figli di Ragnar e per anni gli erano parse solo leggende, mentre ora erano divenute realtà.
“Tu sei Ivar Senz’Ossa. E lei è Hildr La Valchiria. Le storie sull’impresa che avete portato a termine a York è arrivata anche in Rus.”
“Allora sai che ti posso conficcare una freccia nell’occhio.” Disse Hildr.
Ivar la fulminò con un’occhiataccia ma lei non si arrendeva all’idea di tacere. Oleg fece un sorriso, quasi si divertiva a conversare con loro.
“So che hai una mira infallibile, so che Ivar è una grande stratega, e so che insieme avete costruito delle difese intorno a Kattegat che hanno obbligato Bjorn alla ritirata. E proprio perché conosco queste cose che non posso lasciarvi liberi. Devo capire bene quali siano le vostre intenzioni.”
Ivar sapeva che un re doveva riflettere a lungo prima di accettare due estranei alla corte poiché il tradimento e la guerra erano sempre dietro l’angolo.
“Che vuoi fare con noi?”
“Vadim, accompagna i nostri ospiti nell’ala ovest del palazzo. Fate buona permanenza nelle nostre prigioni.”
Ivar e Hildr furono scortati in una cella fredda e buia, l’acqua scrosciava lungo le pareti bagnando le pareti. Vadim chiuse il cancello a chiave e li lasciò da soli con una sola fiaccola a illuminare lo spazio. Hildr si appoggiò alle sbarre di metallo e diede un calcio nella vana speranza di divellere i cardini.
“Sai una cosa, Ivar? Era meglio morire che finire tra le grinfie di questa gente.”
Ivar si fece scuro in viso, un’ombra vagava nei suoi occhi nascondendo l’azzurro delle iridi.
“Forse abbiamo trovato i nostri lupi.”
 

Salve a tutti! ^_^
Sono tornata purtroppo per voi! Scusate il ritardo ma tra l’università e altri impegni ho dovuto un po’ mettere da parte la storia.
Chiariamo un po’ di cose: 1) come sempre parto dalla trama della serie tv riscrivendo gli eventi in maniera diversa e con personaggi nuovi; 2) Vadim, appunto, è un personaggio di mia fantasia; 3) questo capitolo è solo di passaggio per collegare la prima parte con questa seconda, pertanto non è un granché; 4) sul viaggio sono andata molto di fretta perché la storia ha tante cose da raccontare e su qualcosa ho voluto/dovuto tagliare.
Fatemi sapere cosa ne pensate.
Alla prossima, un bacio.

 
  
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