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Autore: LadyVarana    31/03/2020    1 recensioni
Lettera di speranza per condannati dei campi di concentramento e sterminio
[...] Nell’inferno in cui erano finiti nessuno urlava o piangeva [...]
817 parole
Genere: Angst, Guerra, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Camminata lenta e cadenzata.

I piedi strisciavano con fatica nel fango.La pioggia mischiata a cenere sottilissima batteva sul corpo dei prigionieri.I loro occhi erano oscurati dal terrore di cui ormai erano protagonisti.

Nell’inferno in cui erano finiti nessuno urlava o piangeva. Non si sentivano altri rumori se non quelli dei passi dei fantasmi che vagavano per il campo in cerca di un posto sicuro. Nessuno gli aveva detto che non esistevano posti sicuri.

Là era tutto costruito per uccidere. Carne alla mercè della morte. Un mattatoio a cielo aperto. Il silenzio era così assordante che neanche un prigioniero era più sicuro di essere ancora vivo.

Erano vietate le emozioni.

Se ridevi eri fucilato.

Se piangevi eri fucilato.

Se ti lamentavi eri fucilato.

Se speravi eri fucilato.

Potevi solo temere i tuoi aguzzini e tentare di fare pietà tanto a lungo da poter respirare ancora una volta e risparmiati la fucilazione. Una silenziosa umiliazione per la sopravvivenza. Si rimaneva sempre così soli. Avvicinarsi a qualcuno era inutile. Sarebbe potuto morire il giorno dopo. Saresti potuto morire il giorno dopo. Ogni istante contava e rimaneva impresso a fuoco nella mente. Un segno indelebile che godevano a farti avere. Dovevano distruggerti, fisicamente e psicologicamente. Sorridevano quando imploravi, e dopo ti fucilavano.

Cancellavano la tua esistenza come se nulla fosse. Come se fossi inutile. Nessuno era utile. Eri un prigioniero e un reietto. Si divertivano a sottolineare sempre questa cosa. Eri una bestia. Non avevi un nome, ma un numero sul polso. Provavi ad aggrapparti al ricordo della tua persona, della tua vita fuori da quella recinzione, ma finivi in una spirale di catene e morte.

La tua vita era in quel posto. Ti sembrava di esserci sempre stato. Di non essere mai stato in nessun altro luogo al di fuori di quello. Non esisteva altro. La tua casa diventava quella catapecchia fatta di legno marcio che condividevi con altre cinquanta persone. Spettri come te. Condividevi il tuo giaciglio con altri per non morire di freddo. La paglia sporca e puzzolente ti pungeva la schiena. Nelle tue narici non c’era altro odore se non quello di pelle bruciata e di polvere da sparo.

Quando nevicava neve grigia avevi solo voglia di urlare, piangere, pregare, impazzire. Non ti era permesso però. Tu non lo facevi. Ci tenevi troppo a quei rimasugli di vita per farteli scivolare dalle mani per dei cadaveri.

Arrivavano nuove persone ogni giorno. Anche loro senza capelli, gli occhi velati e il corpo esile come una canna. Avevano fame, ma cibo non c’era. Alcuni mangiavano la terra. Altri bevevano la loro urina e si cibavano delle feci con avidità. Poi vomitavano. Poi mangiavano il loro vomito. Se morivi nei dormitori poteva accadere che il tuo corpo sparisse. Ritrovavano solo qualche osso sotto la paglia.

Era un tunnel dell’orrore infinito. Impazzivi. Ti chiedevi perché eri ancora vivo. Ti chiedevi perché eri arrivato in quel luogo. Espliavi i peccati. Chiedevi perdono anche per cose che non avevi commesso. Bilanciato tra la voglia di farla finita e lottare. Cadere dalla parte sbagliata era facile. Prima o poi qualcuno accanto a te cadeva.

Molti si ammalavano. Febbre così alta da creare allucinazioni. Tifo. Continuavi a lavorare. Lavori snervanti, pesanti, estenuanti. Se non lavoravi morivi, o diventavi una cavia per quei dottori dai lunghi camici bianchi. Sembravano sempre degli angeli. Angeli con la falce. Non avevi alcuna scelta. Ti volevano schiacciare, mettere i piedi in testa e vedere quanto tempo ci avresti messo per soccombere.

Però avevano fatto male i loro calcoli.

L'animo umano può spezzarsi, distruggersi, diventare polvere portata via dal vento, ma la speranza rimane sempre solida. Alcuni la chiamano fede, altri destino, altri ancora ragione, ma c'è sempre un motivo per cui lottare. Anche dopo aver superato la linea della follia, febbricitante o così magro da intravedere il cuore che pulsa, continui a sperare. La notte in mezzo a quella paglia ispida e maleodorante immagini di star mangiando ad un banchetto ben allestito insieme ai tuoi amici. Racconti a bassa voce al tuo compagno di branda i volti di chi ti sta aspettando a casa, fuori da quel girone infernale che giace sulla terra. Ritrovi i piccoli piaceri che avei lasciato intrappolati dei gessosi ingranaggi della società.

Riscopri che vuol dire solidarietà. Comprendi che non importa se domani potresti morire, o se potrebbe morire la persona accanto a te alla fila per l'appello mattutino, avete entrambi bisogno di appoggiarvi l'uno all'altro. Perché nel gelo dell'inverno, senza scarpe e con poco più di qualche straccio addosso, dovete farvi forza a vicenda, continuando a stare dritti e fermi mentre l'ufficiale elenca con esasperante lentezza o vostri codoci. Senza battere i denti. Atrofizzandovi i muscoli e sperando che non vadano in cancrena. Però resisti. Fissi davanti a te e non ti muovi.

Aspettando che accada il miracolo, aspettando che arrivi il 27 gennaio 1945.

   
 
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