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Autore: _Lightning_    04/04/2020    4 recensioni
«James Rupert Rhodes. Va bene, Anthony Edward Stark?»
«Va bene, Rhodes. E
Tony va benissimo.»
«Anche
James va benissimo.»
«Nah. Posso inventarmi di meglio.»

Tony e Rhodey sono amici sin dai tempi del MIT. Ma cos'è successo esattamente, al MIT?
È quello che questa minilong cercherà di raccontare, tra primi incontri burrascosi, incidenti accademici, equivoci e stravaganze targate Stark e controfirmate Rhodes, nel corso dei quattro anni d'università che hanno forgiato l'amicizia che conosciamo.
[young!Tony&young!Rhodey // Missing Moment (College) // Tony PoV // Commedia/Introspettivo // Capitoli: 1/6]
Genere: Commedia, Introspettivo, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: James ’Rhodey’ Rhodes/War Machine, Tony Stark/Iron Man
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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You HAD to make it weird
Grafica: ©_Lightning_


1. Nice to meet you, sour patch



 
Armadio numero uno: gli arriva a malapena alla clavicola, che da sola è probabilmente più spessa del suo braccio. Armadio numero due: è più alto di solo mezza testa, ma il tentare di circumnavigarlo gli porterebbe via mezza giornata. Praticamente Stanlio e Ollio, se Stanlio e Ollio avessero fatto uso di steroidi.
 
Sbuffa, e i cespugli che Armadio numero uno si ritrova per sopracciglia si fanno foresta nell'aggrottarsi, mentre Armadio numero due fa slittare la mandibola in mogano massiccio. Non è che Tony non abbia paura del dolore. Anzi, c'è una parte piuttosto consistente del suo stomaco che si sta liquefacendo al pensiero delle nocche – castagne – bitorzolute di Armadio numero due che impattano sul suo volto. Ci tiene, alla sua faccia: dopotutto è la sua prima linea di difesa.
 
Solo che quella paura sordida non trova sbocco: gli rimane piantata nei talloni che lo inchiodano sul posto, con le spalle contro l'armadietto e la via di fuga tagliata da una collezione di mobili IKEA. La solita espressione serafica che porta stampata in volto regge, per ora – fa parte del pacchetto
spina dorsale d'acciaio, almeno crede. Se la sente scolpita nei lineamenti, a camuffare il fermento neuronale in corso là dietro, perché risolvere situazioni del genere è molto diverso dal risolvere calcoli complessi, e gli si sono inceppate le sinapsi. In fondo, nessun calcolo sbagliato gli ha mai rimediato un occhio nero. Deglutisce, e la sua saliva è acida.
 
«Se abbiamo finito di giocare a "un due tre stella", io avrei una lezione da saltare,» soffia via infine, con la lingua che si aziona prima del cervello – in quel momento perso a calcolare la media di quanti brufoli per centimetro quadro abbia in faccia Armadio numero uno.
 
In sincrono con quelle parole muove un passo in avanti, a svicolare tra i due. Viene respinto indietro da una secca manata, che lo fa cozzare contro l'armadietto con uno sbatacchiare metallico. Sente un piccolo schianto all'interno e stringe i denti: addio prototipo di robotica.
 
«Non dobbiamo prima parlare di qualcosa, Junior?» ringhia Armadio numero due.
 
Tony serra la mascella, indispettito al nomignolo che quel coglione gli ha appiccicato addosso come il peggior chewing-gum sin dal primo giorno, per poi propagandarlo con la goliardica petulanza di un macaco a tutto il MIT. La tentazione di rispondergli per le rime gli riscivola in gola con una bolla d'esitazione, che scoppia poi nello stomaco causandogli un fremito. È allora che la prospettiva del pugno si concretizza: quando si rende conto che tutto il sarcasmo del mondo – e lui ne detiene un buon 90% – non potrebbe comunque bloccarlo. Né potrebbero farlo molti Franklin verdi e sorridenti [1] – o meglio, potrebbero bloccare pugni futuri agendo come deterrente legale per chi osa sfiorare il rampollo Stark, ma questo pugno no. Questo è destinato a cambiargli i connotati e a dare un'altra buona scusa a Senior per disconoscerlo.
 
Ed è allora che fa la sua comparsa Armadio numero tre.
 
«Siete consapevoli che spaccargli la faccia vi ridurrà in povertà, vero?»
 
I due pezzi d'arredamento si voltano schiudendosi come un sipario davanti ai suoi occhi, dilatati per la tensione da animale braccato che lo pervade. Il nuovo arrivato è alto, scuro e con capelli afro a spazzola, vestito in tuta da ginnastica e con un volto che sembra assai poco incline a seguire l'andamento delle sue emozioni, optando per una staticità eterna. E fissa i due da, rispettivamente, una e due spanne di vantaggio. Tony sente qualche atomo d'ossigeno in più nei polmoni: la traiettoria del pugno sembra inclinarsi di qualche millimetro, deviata dall'interferenza di quel terzo corpo non preventivato.
 
«A te sicuramente sì, signor
borsa di studio,» sputa fuori la brutta copia di Stanlio, mettendo su una lampante faccia da rissa. «Quindi che ne dici di farti i cazzi tuoi?»
 
«Volevo dire che non ho voglia di anticipare l'allenamento di autodifesa,» ribatte l'altro, con uno schioppo temporalesco e un sottotono minaccioso di chi ha la sicurezza matematica di poter fare certe affermazioni senza doversene pentire.
 
Per un attimo, lo stallo che si viene a creare schiaccia Tony contro la superficie metallica dietro di lui, e sente premere sulla nuca la grata dell'armadietto. Per un attimo... poi il suo istinto ha il sopravvento:
 
«Si accettano scommesse? Perché io ho già un'idea di chi si aggiudica la mia puntata,» mezzo sogghigna sotto la patina di nervosismo non del tutto incrinata, e fa un cenno del mento verso quel terzo incomodo che in realtà gli fa molto comodo.
 
Quello, ci può giurare, trattiene uno scatto degli occhi verso il cielo, rimediandosi un moto di confusione da parte sua.
 
«Tu chiudi quella fogna,» lo zittisce malamente
Ollio, voltandosi verso di lui e rispedendolo a impattare contro quel dannato armadietto che gli si è ormai tatuato sulla schiena.
 
Il suo sorrisetto si eclissa in una smorfia di fastidio per il contraccolpo sulle scapole.
 
«Facciamo che ora andate a tormentare qualcuno che è almeno maggiorenne, mh?» il nuovo arrivato piazza una mano sulla spalla al suo aguzzino e lo trascina bruscamente all'indietro, facendogli quasi perdere l'equilibrio, poi spintona di lato il suo compagno con altrettanta rapidità.
 
Tony batte le palpebre stordito dalla veemenza dell'azione, che ai suoi occhi è quasi coreografata. Forse quel tizio non scherzava, sull'autodifesa. Evita il suo sguardo, sentendolo su di sé, e si concentra piuttosto su quei due beoti che ora sembrano un pelo meno inclini a volerlo far diventare parte integrante del pavimento a suon di pugni. Non coglie esattamente secondo quale dinamica – sembra quasi un regolamento di conti – ma tanto meglio per lui. Scoccano loro un'occhiata velenosa, con occhi troppo ottusi per potersi essere guadagnati il diritto di guardare il MIT, prima di scambiarsi un cenno d'intesa oltre l'intruso e optare infine per una ritirata strategica. Quello più alto si gira un'unica volta, puntandogli contro un indice eloquente che sembra molto una condanna: la prossima volta. Indica anche l'altro, che però non si scompone nemmeno e deflette la minaccia semplicemente ignorandola.
 
Tony replica invece con un sorriso beffardo che gli lascia seri gli occhi, e che sfuma non appena i due svoltano l'angolo nel rendersi conto di essere ora faccia a faccia con quello che, di fatto, gli ha appena salvato le chiappe. E che ora lo sta fissando quasi si aspettasse qualcosa. Giusto, pensa trattenendo l'istinto di roteare le pupille al cielo. Si rassetta la giacca del campus come fosse quella di un completo e porta poi le dita a ravviarsi i capelli sulla fronte, scuotendo appena la testa.
 
«Quanto vuoi?» spara, sentendosi subito scannerizzare spiacevolmente dai suoi occhi scuri, che si fanno curiosamente interrogativi smorzando la sua sicumera. «Per, uh, per tutto il, insomma...»
 
«Ma di che diavolo stai parlando?» lo interrompe, senza neanche un'intaccatura d'espressione a segnargli il volto mentre incrocia rigidamente le braccia.
 
Tony si inceppa per un istante, con la bocca ancora schiusa a metà della frase. Quella giornata si sta facendo sempre più assurda di minuto in minuto, e lui ha a malapena il tempo per stare appresso a quelle normali. Si schiarisce rapido la voce e raddrizza le spalle, sistemandosi meglio lo zaino per poi evadere attivamente lo sguardo dell'altro, adesso fattosi sospettoso.
 
«Di... di niente,» bofonchia allora, mentre l'eloquenza gli viene meno per un istante, ma l'altro lo incalza, inclinando le sopracciglia in una piega dura:
 
«Cos'è, pensi che ti abbia salvato il culo solo per chiederti dei soldi?»
 
, gli balena in testa, ma per una volta si trattiene dal dar forma a quel pensiero istintivo, semplicemente perché contiene in sé un'ammissione che non è disposto a concedere.
 
«Il massimo che mi aspetto è un
grazie, semmai. Sarebbe il minimo,» aggiunge, e stavolta i suoi occhi si fanno più aguzzi, a sollecitarlo.
 
Tony scrolla le spalle, espirando una mezza risata troncata sul nascere. Gli sibila tra i denti, sbagliata.
 
«E per cosa? Per aver recitato bene la parte del buon samaritano in una commedia scolastica cliché?» commenta, stringendosi nelle spalle e reclinando lateralmente il capo.
 
Grazie. Non gli esce fuori. Non vuole, gli pizzica la lingua solo a pensare di pronunciarlo, come se lo potesse privare di un frammento di quella durezza interiore che si sta impegnando a costruire, ma che non entra mai del tutto in pressione. Carbone grezzo, ecco cosa ha dentro la spina dorsale. Niente diamanti o tanto meno acciaio, per lui, quindi a questo punto è meglio non trasformarlo in grafite.
 
L'altro – e non sa nemmeno come etichettarlo: è un'incognita vagante che si è intromessa nella sua vita già abbastanza scombinata – strabuzza appena gli occhi, e per un istante crede che quel pugno evitato per un soffio sia in dirittura d'arrivo proprio adesso. A conti fatti gli sarebbe andata meglio con gli armadi di prima, visto che lui ha almeno due ante in più di loro e sembra molto meno propenso a perdersi in convenevoli. Non c'entra la stazza: quel pugno farebbe più male a prescindere.
 
«Sai, ora che ci penso... cento dollari mi farebbero comodo,» dice poi l'altro, pacatamente, ma con un riverbero metallico.

Di nuovo, lo coglie alla sprovvista quando tende eloquentemente un palmo verso di lui. Tony inarca un sopracciglio a quel subitaneo cambio d'intenti, che però gli rende tutta quella situazione più gestibile. Trova le trattative d'affari più comprensibili dei rapporti umani. Sono equazioni, dopotutto, con un risultato preciso e senza troppe variabili. Do ut des. Facile.
 
«Uh, non ho soldi,» si riscuote, per poi alzare gli occhi al cielo nel vedere il suo cipiglio a quell'affermazione assurda, se detta da lui. «Non qui, dico. Ma se vuoi riscuotere un compenso...»
 
«Voglio, decisamente,» lo tronca lui, secco, e contrae le falangi un paio di volte a sollecitarlo, prima di lasciar ricadere la mano.
 
Tony sfrega le converse contro il pavimento in linoleum senza nemmeno pensare, per poi umettarsi le labbra con un groppo d'indefinibile amarezza che gli si incastra nel petto – di un'occasione perduta su cui ha sputato per principio. Annuisce, tirando poi la bocca con indifferenza.
 
«Bene, allora fatti trovare qui in pausa pranzo,» conclude, con un cenno al proprio armadietto, ben riconoscibile per via delle "decorazioni" che vi hanno apportato nel corso di appena una settimana – sarebbe quasi un punto d'orgoglio, se la maggior parte degli insulti non riguardasse suo padre.
 
L'altro sposta in automatico lo sguardo sulla superficie vandalizzata, accigliandosi, e Tony gli volta svelto le spalle prima che possa esternare qualsiasi commento – e per non vederlo aggiungere i suoi probabili contributi.
 
Si incammina svogliato nella direzione generica della lezione a cui non ha alcuna intenzione di andare, per poi deviare verso l'esterno, dove lo portano i piedi. Finisce per arenarsi nel Killian Court, il vasto prato antistante la Cupola del MIT, con una sigaretta spenta che gli pende tra le labbra e un paio di Ray-Ban tartarugati a schermargli gli occhi. Fissa quella costruzione squadrata, gli alberi ben tenuti, i capannelli di giovani vocianti sparpagliati nell'area verde, infine il colonnato bianco che ostenta magnificenza da tutti i pori e sorregge illusioni, speranze e aspettative di migliaia di studenti.
 
Rilascia un respiro roco, intaccando il bordo della sigaretta coi denti. Dio, odia questo posto.


 

§ 



Tony passa per l'ennesima volta la lingua sulla fenditura che gli intacca il labbro, e assaggia di nuovo il gusto ferrigno del sangue. Non che quel tic possa in qualche modo richiuderla, né che quel sapore gli piaccia particolarmente – anzi, gli dà un senso di nausea – ma ripete in automatico il gesto, seguendo l'istinto ancestrale di animale malconcio che si lecca le ferite. Sbuffa appena, e l'aria gli punge il taglio a punirlo per quell'associazione mentale affatto adatta a uno Stark. Affonda incupito le mani nella giacchetta del MIT ancora parzialmente umida, e si sfrega poi le ciocche bagnate sulla nuca, con gli occhi che si infossano sempre più nelle orbite. Avrebbe preferito una decorazione facciale viola a mo' di monocolo, poco ma sicuro.
 
Stringe il centone che ha in tasca tra le dita, accartocciandolo, e pensa che potrebbe anche stracciarlo, per quanto gliene frega dei soldi, ma ha ancora un debito da saldare e un creditore ritardatario. Si poggia contro il davanzale delle ampie finestre che danno sul corridoio, aperte sugli spazi verdi che circondano il MIT, e incassa la testa tra le spalle con la frangia che va a nascondergli la fronte facendo da sipario al suo armadietto, direttamente di fronte a lui. Le legge uguale, quelle frasi; le sa a memoria:
 
"Ostaggi di Carter, Contras di Reagan"
"Stay the Stark curse"
"Viet-boy"
"Let's make Starks rich again!"
"Hail Howard II!"
 
Si chiede quando mai lui abbia stretto la mano a Reagan, o combattuto in Vietnam, o mandato a puttane missioni di pace. [2] Vorrebbe un insulto tutto per lui, là sopra, uno scialbo
stronzo messo nero su bianco – o meglio, nero su rosso. Il massimo dell'identità che gli è concessa è una forma fallica ben ricalcata che abbraccia l'intero armadietto. Potrebbe venderlo come un pezzo d'arte avanguardista, dopo la laurea.
 
Si morde inavvertitamente il labbro malmesso, e trattiene una smorfia nel percepire la stilettata che gli risale i nervi sensibili e un fiotto caldo che gli macchia il mento. Porta il dorso della mano a tamponarlo, scrutando con sguardo schivo il corridoio ancora deserto. Dove diavolo si è cacciato, quell'idiota? Quell'idiota che ha concesso qualche ora d'integrità in più al suo muso ora comunque spaccato, si corregge malvolentieri, sospirando sonoramente dal naso e stropicciandosi la fronte fino a dislocarsi le sopracciglia. Lancia un'occhiata stizzita al Pilot che ha al polso, realizzando solo allora che il quadrante si è scheggiato, ma intravede ancora la lancetta funzionante e l'ora oltre le crepe, concludendo che un'attesa di venti minuti sia tutto ciò che è disposto a concedergli. Tanto peggio per lui. Tanto peggio per lui. Non sa neanche dire perché si senta così amareggiato da quel bidone, quando ha appena evitato di mandare in fumo cento dollari. Di cui non gliene frega niente, ma sa che ogni nichelino conta, in realtà. Non per lui, ma conta.
 
Si scolla dal davanzale, facendosi ricadere di peso lo zaino mezzo vuoto dalle spalle, e si avvia verso l'uscita più vicina strascicando i piedi e cacciandosi una sigaretta in bocca. Non la accende, come al solito, ma la lascia a penzolare dalle labbra tumefatte anche se gliele irrita col filtro. Esce nell'aria settembrina già macchiata dall'incedere dell'autunno, e mentre inforca gli occhiali da sole ha la tentazione di tornare alla sua piazzola di prato già ben delimitata quella mattina per saltare anche la lezione di Segnali e Sistemi, così da godersi quelle ultime giornate tiepide. Passerebbe quell'esame da bendato, senza nemmeno aprire libro, ma una rapida valutazione lo convince a lasciarsi la maggior parte delle assenze di quel semestre per il periodo più buio dell'inverno, quando avrà a malapena voglia di alzarsi dal letto. Così potrà dedicarsi ai suoi progetti collaterali in santa pace. Su una cosa, il suo vecchio ha ragione: la pianificazione è tutto.
 
Attraversa quindi svelto il Killian Court, intersecato da un viavai frettoloso di studenti che si dirigono alle loro lezioni o ai dormitori, e per una volta si inserisce nel flusso di quelli diligentemente diretti verso l'ala di Elettronica. Riconosce qualche volto qua e là, ma con loro ha scambiato a malapena qualche sguardo e non ha alcuna intenzione di passare alle parole. Di contro, sente le loro pupille che gli si appuntano addosso in modo più insistente del solito, complice lo sbaffo rossastro che gli decora la bocca. Li ignora. Non gliene frega un cazzo, delle loro opinioni: guardassero pure. Anzi, sfoggia a ripicca un mezzo sogghigno tronfio che gli fa dolere le labbra, come se ci fosse qualcosa di divertente, dietro quel marchio, qualcosa di cui solo lui è a conoscenza e che loro non potrebbero mai nemmeno comprendere o immaginare. Si appunta quello spacco sul volto come una medaglia al valore e scherma gli occhi con le lenti fumé, senza intersecare quelli di nessuno.
 
I suoi gagliardi propositi di studente modello si infrangono dopo pochi passi dinoccolati, quando sta per entrare all'ombra del colonnato e inchioda sul posto all'ultimo gradino, rischiando di creare un tamponamento a catena. Si becca un paio di spintoni involontari nella calca, e uno troppo ben assestato per esserlo, e riesce poi a svicolare dalla fiumana. Raddrizza la schiena, impettendosi e alzando un poco il mento, gli occhi annuvolati.
 
«Ehi!» chiama, incurante delle teste che si voltano verso di lui, ma il suo creditore, ben riconoscibile, continua a parlare indifferente con un paio di altri ragazzi, sordo per scelta o per caso. «Ehi, Godot! Dico a te!»
 
A quel punto il ragazzo si volta perplesso verso di lui, e dalla confusione che aleggia nei suoi occhi Tony comprende che il suo nomignolo sarcastico sia appena andato sprecato. [3] Si pianta quindi a qualche passo da lui con le mani di nuovo sprofondate nelle tasche, e lo fissa nel modo più truce che gli riesce, scrollandosi di dosso il commento che coglie da uno dei compagni –
non è il figlio di Stark, quello?. Solleva gli occhiali da sole e se li pianta sulla testa, a respingere indietro la frangia scomposta e bagnata così da guardarlo senza filtri, e vede l'altro prendere un profondo, silenzioso respiro prima di congedarsi seccato dagli amici e capire infine l'antifona, volgendo a lui la propria attenzione e avvicinandosi. Nota solo adesso che, sotto la giacca della tuta sformata, porta una maglietta grigia con lo stemma dell'Aeronautica, così come tutta la sua cricca. [4]
 
«Che vuoi?» esordisce senza giri di parole, troncandogli in bocca la sua frase di saluto disincantata.
 
Incrocia le braccia nel fermarsi di fronte a lui, quasi a ribadire maggiormente i suoi quindici centimetri di altitudine in più, e sente distintamente i suoi occhi neri che si soffermano sul labbro ferito, irritandolo.
 
«Che vuoi tu,» lo rimbecca, adeguandosi alla voce bassa dell'altro a dispetto della propria ancora in equilibrio sulla soglia della profondità. «Non volevi il tuo compenso?» continua poi, sfilando con un gesto teatrale la banconota di tasca e sventolandola appena tra due dita a un palmo dal suo volto. «Mi hai lasciato lì a fare la muffa, mi pare avessimo un accordo.»
 
Vede le sue narici fremere appena, gonfiandosi di quella che sembra esasperazione. Tony si acciglia confuso, aspettandosi che gli strappi i soldi di mano e se ne vada a farsi benedire, ma quelle del ragazzo rimangono ben piantate sui bicipiti, strette in una morsa.
 
«Non li voglio, quei soldi,» dichiara poi, e a dispetto di tutto c'è una nota troppo poco dura nella sua voce per risultare minaccioso.
 
Tony lascia ricadere il braccio, col centone che svolazza appena nella brezza autunnale, e non molla la presa né su quello, né sul proprio cipiglio confuso. Vede i propri calcoli precisi sfaldarsi in un mucchio di cifre prive di significato, lasciandolo con lo sbuffo dell'incoerenza davanti al naso.
 
«Cos'è? Uno scherzo?» sbotta, stringendo di riflesso la sigaretta tra i denti.
 
«No. Mi sono solo ricordato di avere una dignità.»
 
Tony batte più volte le palpebre, tirando appena indietro la testa a prendere qualche centimetro di distanza come a inquadrarlo meglio, e stringe la presa sulla sigaretta.
 
«Ti sto pagando, non ti sto comprando,» specifica, e scorge un lampo temporalesco attraversagli il volto a quella pessima scelta di parole – Cristo, ci manca che lo prenda per razzista. «Si chiama
remunerare un servizio, ed è più o meno il concetto fondante su cui si basa il sogno americano, nel caso non –»
 
«Okay, okay, ragazzino, che ne dici di toglierti i paroloni di bocca? E pure questa, già che ci siamo,» lo tronca lui, e a sorpresa gli strappa via la sigaretta con un gesto troppo repentino per sottrarsi, gettandola poi per terra senza tante cerimonie.
 
Tony sbarra gli occhi, fissando prima lui, poi la cicca per terra, poi di nuovo lui, e non può evitare che gli cada un poco la mandibola, faticando a mettere insieme i fotogrammi di ciò che è appena successo. Qualcuno sghignazza in sottofondo, e quella risata gli rimbalza sulla nuca e gli crea un contraccolpo alle guance, che sente improvvisamente roventi, con una vampa d'umiliazione che gli incendia gli occhi e gli stringe le tempie.
 
«Ma che cazzo ti prende?» inveisce, indicando col palmo teso la sigaretta che rotola via per i gradoni del porticato; sfiora una nota stridula con la voce e si maledice internamente, mentre l'altro rimane impassibile, tornando a incrociare le braccia.
 
«Mi prende che tu hai, quanto? Quattordici anni? E te ne vai in giro a far finta di fumare, a vantarti di aver fatto a botte quando le hai solo prese e a parlarmi di
remunerazioni come se fossi un tuo dipendente,» lo rimbecca lui, puntandogli contro un indice a scandire le frasi e arrivando a spintonarlo con un secco colpetto che lo fa retrocedere sui talloni. «Non voglio i tuoi soldi. Non lavoro per le Stark Industries, stronzetto, e tanto meno per te
 
Tony barcolla sul posto, rintronato da quel fiume di parole che gli si abbatte addosso e lo fa sentire a corto d'aria per qualche istante. E più lucido, anche, come se quei flutti l'avessero schiaffeggiato in pieno viso assieme al rosso che ancora lo tinge. Ora distingue chiaramente il risentimento orgoglioso sul volto di quel ragazzo ben piazzato, con gli occhi che lo inchiodano sul posto e una stabile pacatezza nella voce anche nell'infervorarsi. Non capisce esattamente dove abbia mosso un passo falso, ma sente l'innaturale istinto di correggerlo. Forse perché l'altro sembra quasi aspettarselo, e anche questo è innaturale. Sbaglia raramente, lui, e quando lo fa non gli è concesso di correggersi – o non se lo permette. Quindi stringe la banconota in mano e non lo fa. Non del tutto.
 
«Io però voglio darteli, questi,» insiste cautamente, alzando il pugno che custodisce quel foglietto verde sbiadito. «Appunto perché non lavori per me, ma... hai fatto comunque qualcosa. Ed è giusto così, punto e basta,» conclude secco, accompagnato da una scrollata di spalle che simula indifferenza mentre glieli porge di nuovo, con un cenno del mento a incoraggiarlo.
 
Niente debiti insoluti, sul suo registro. È la regola numero uno per evitare di dovere qualcosa a qualcuno. Di rimando, l'altro sospira pesantemente, e sembra di nuovo sul punto di andare in escandescenze. Poi prende con uno strappo la banconota – e Tony rilascia il fiato trattenuto... per poi tornare a incamerarlo quando gli si avvicina e gliela infila di nuovo nel taschino della giacca, appaiandoci una lieve pacca a sottolineare che è quello, il loro posto definitivo.
 
«Accetto il ringraziamento,» dice poi, cogliendolo nuovamente di sorpresa quando intravede quella che pare un'espressione divertita, o forse solo soddisfatta. «E siamo a posto.»
 
Tony si trova ad annuire senza quasi rendersene conto, poi storce le labbra e ha un sussulto per la fitta che quel movimento gli assesta. Lui suggella quello scambio con un ulteriore cenno affermativo, quasi solenne. Si sta già allontanando, realizza Tony, e si affretta ad alzare la voce prima che arrivi fuori portata, assecondando l'istinto che, per una volta, gli smussa le parole:
 
«Comunque ne ho quindici, di anni!»
 
L'altro si volta a considerarlo per una frazione di secondo, e Tony sa di sembrare patetico, lì impalato nel portico deserto con lo zaino che gli cala da una spalla, i piedi puntati verso un'ora di noia e gli occhi che invece continuano a seguire quella variabile imprevista che gli sta capovolgendo la giornata. Ma non gli importa. Non lo capisce, quel tizio. Non lo capisce, e quando non capisce qualcosa ci si scervella sopra, incapace di accettare la propria ottusità o di avere incognite davanti a sé. Sente l'altro sospirare energicamente, per poi fargli un cenno svogliato a raggiungerlo, che lui però non accoglie. Rimane invece radicato sul posto, sul chi vive, mentre lascia che sia l'altro a tornare sui suoi passi fino a lasciarne solo un paio tra loro.
 
«Dov'è che hai lezione, adesso?» gli chiede, facendogli assottigliare le palpebre sospettoso.
 
Scuote con disincanto la testa, facendosi ricadere un paio di ciocche sulla fronte mentre azzarda un mezzo sorrisetto di scherno.
 
«Guarda che ce l'ho già, una guardia del corpo. Ma se vuoi candidarti ti do il numero di riferimento.»
 
«Beh, allora te la saresti dovuta portare appresso anche qui, che dici?» lo rimbecca lui, additando il suo volto malridotto senza una sola increspatura a solcargli i lineamenti, di nuovo indecifrabili.
 
«Non mi serve,» stabilisce duro, allungando una falcata verso il percorso che conduce verso l'ala di Elettronica e vedendo che l'altro lo affianca senza una parola, scombinandogli ulteriormente i calcoli, che prevedevano un dietrofront o uno stallo. «Me la cavo.»
 

Oggi il lavandino, domani il cesso, Junior!

Serra le labbra, rannuvolandosi.
 
«Lo vedo,» bofonchia lui, sollevando le sopracciglia con fare eloquente, e Tony fa ricadere gli occhiali sul naso con uno scatto secco e consumato del capo, ponendoli a muraglia tra loro. «Che diavolo gli hai fatto, a quei due Neanderthal?»
 
Tony a quel punto si esibisce in un sorrisetto compiaciuto che emerge spontaneo, a dispetto delle fitte.
 
«Ho fatto loro capire che l'ammissione al MIT non si compra. O meglio, puoi comprarla, ma poi qualcuno te la fa scontare,» enuncia sibillino, e si ringalluzzisce quando vede una scintilla d'interesse nello sguardo dell'altro, cosa che lo spinge a continuare il racconto con più brio: «Avevano qualche problemino con Circuiti 3. Ce l'hanno ancora, in realtà, ma non è questo il punto.»
 
«Gli hai scritto il compito?» si rabbuia la sua guardia del corpo improvvisata, e c'è una stilla d'indignazione e rimprovero a macchiare indelebilmente quella frase, così si affretta a rettificare: [5]
 
«Uh, più o meno. Cioè, ho detto che gli avrei scritto il compito, e l'ho fatto... ma non hanno apprezzato il mio estro creativo.»
 
«Cioè, l'hai fatto andare male?»
 
«Cioè, ho sostituito tutte le risposte a e b con 0 e 1 scrivendo in codice binario "fuck you",» sogghigna apertamente lui, e nell'alzare lo sguardo s'impettisce nel vedere un'ombra del divertimento sfiorare anche quel volto imperturbabile. «Dubito che l'abbiano decifrato, ma è bastato il voto a, uh, rendermeli ostili,» conclude più tetro, passandosi una mano sulla nuca ancora bagnata per l'incontro ravvicinato col lavello.
 
Entrano nello spiazzo mattonato antistante Elettronica, e rallentano un poco il passo, quasi in sincrono.
 
«Beh, ti avrei picchiato anch'io,» sbuffa in risposta il più grande dopo qualche secondo, facendogli storcere la bocca con disappunto. «Ma hai fatto bene,» conclude, sbrigativo, mutando la sua smorfia in uno sguardo dubbioso. «Che avevi chiesto in cambio?»
 
Quella domanda posta così a bruciapelo lo spiazza, e lo porta a formare sillabe a vuoto cercando una risposta credibile, che sembra però evanescente.
 
«Uh... nulla, in realtà,» cede infine, spingendosi più a fondo gli occhiali sul naso. «Non mi serve nulla,» conclude, con un'energica alzata di spalle che sballottola qua e là lo zaino.
 
L'altro incrocia le braccia in quel suo modo granitico che un po' inizia a inquadrare, suo malgrado, e prenannuncia dichiarazioni stentoree.
 
«A parte una guardia del corpo,» ribatte infatti, con studiata lentezza, facendolo quasi sobbalzare.
 
«Che? No, direi proprio di no,» ribatte in automatico, prima di poter sigillare la bocca, e arriccia poi le sopracciglia incontrando lo sguardo severo dell'altro, che sospira silenziosamente.
 
«Fammeli guadagnare, quei cento dollari, no?» butta lì, e sembra una frase che gli è scappata per sbaglio, non un qualcosa di premeditato... il che rende tutto più complesso.
 
«Pensavo non volessi lavorare per me.»
 
«Infatti. Sto compiendo un atto di volontariato con paga simbolica. Se continui così, non arrivi a fine semestre,» ribatte asciutto, accennando col capo verso di lui e strappandogli un verso seccato che lo tradisce.


«Che ci guadagni, a farmi da Bruce Lee personale?» sbotta, scrutandolo storto oltre le ciglia e le lenti, cercando un qualsiasi segnale che possa tradire cattive intenzioni.

Non è bravo a leggere le persone, però, e quel tizio è ancora più imperscrutabile nel suo sembrare più affine a una delle colonne del portico, che a una persona in carne ed ossa.


«Cento dollari, no?» ribatte pronto lui, alzando le spalle con ovvietà.

Tony arriccia le labbra e sposta il peso sui piedi, odiandosi per trovare ragionevole quella proposta. È ragionevole non volersi far spaccare la faccia, giusto? È ragionevole che quella sia una trattativa d'affari. Una ragionevole trattativa d'affari, conclude, suonando poco convincente anche a se stesso. Una... com'è che si chiamano? Partnership? Qualcosa l'ha imparato, a forza di riunioni imposte e noiose.
 
«Assunto. A giorni alterni. Part-time. Con ferie,» snocciola infine, stilando un segmento alla volta quel contratto, e lo vede annuire con un guizzo divertito, ma qualcosa, un'intuizione che lo tocca raramente, gli dice che non si sta prendendo gioco di lui. «Com'è che ti chiami?» chiede poi, precipitoso, prima che quelle parole facciano retromarcia lungo la gola.
 
«James.»
 
«Per la firma ci vuole nome e cognome,» ritratta Tony, raddrizzando le spalle a creare una barriera più solida, e quello sospira.
 
«James Rupert Rhodes. Va bene, Anthony Edward Stark?» lo canzona, sbuffando una mezza risata che lui imita poco convinto, con un sorrisetto stinto di fronte alla destabilizzante conferma che tutti sappiano sempre esattamente chi sia.
 
«Va bene, Rhodes. E Tony va benissimo.»
 
«Anche James va benissimo,» quasi ringhia lui, col volto che si incupisce dandogli l'aspetto di un orso scorbutico... e Tony quasi sente la lampadina che gli sfrigola in testa.
 
«Nah,
» storce il naso in risposta. «Posso inventarmi di meglio, Yoghi[6] conclude lasciandolo basito, per poi rifilargli una smorfia strafottente mentre si allontana svelto, senza niente più che un cenno del capo a mo' di saluto.
 
Si sente scrutato alle spalle, ma non si volta anche se ha lo scudo delle lenti e della spavalderia dalla sua. È esposto, si rende conto, ed è una sensazione spiacevole che prova di rado. Non proprio spiacevole, in realtà – solo... nuova. E proprio per quello, un po' lo attira; stuzzica la sua curiosità spingendolo ad assecondare la bizzarra impressione di essersi tolto un pesante cappotto di dosso. Un mantello soffocante, appuntato a sua insaputa sulle sue spalle.
 
La curiosità uccide il gatto, ne è consapevole... ma a volte no. E lui vive per quegli
a volte no.

 

 
 


 
Note dell'Autrice:

Oh-la-là! Non faccio in tempo a finire (o a pensare di finire) un progetto, che ne inizio un altro... sì, la quarantena mi lascia fin troppo tempo libero *sigh*

Sono circa tre anni che mi frulla in testa di scrivere qualcosa a questi due capoccioni incalliti, e finalmente ho trovato lo spunto e l'occasione per farlo. Di base, trovo che Rhodey riceva troppo poco apprezzamento sul fandom, quando gli va dato atto di aver mantenuto un'amicizia salda con una persona oggettivamente problematica come Tony per più di trent'anni, a riprova del un profondo affetto reciproco, che da qualche parte dovrà pur essere nato.
Molti eventi che citerò hanno già trovato spazio tra le righe in altri miei scritti, e verranno ampliati e contestualizzati. Il tutto è farina del mio sacco, ovvero headcanon poggiati sulla base del MCU canonico e del contesto storico.
Ah, il titolo è una ripresa della battuta tra Tony e Rhodey in Age of Ultron (R: "You think I can't hold my own?" T: "We get through this, I'll hold your own" R: "You had to make it weird..."). Poi dite perché adoro questi due cazzari :')

Sono più lunghe le note del capitolo, quindi chiudo in bellezza spronandovi a farmi sapere cosa ne pensate di quest'esperimento: ogni commento in merito è gradito <3 E grazie a
Miryel per avermi tempestivamente fatto da beta reader per l'occasione: te se vo' bbene, Guascosa <3
Grazie a chiunque abbia letto fin qui, e spero a presto,


-Light-


 


Note:
 
[1] Il "Franklin" è la banconoda da 100$, che reca appunto l'immagine di Benjamin Franklin.
[2] Parentesi 
a là Super Quark per le scritte qui riportate, che ho tentato di rendere realistiche e coerenti con l'epoca (autunno 1985):
-"Ostaggi di Carter, Contras di Reagan": riferimento alla "Crisi degli ostaggi americani" in Iran. Il Presidente Carter fu sfiduciato in seguito alla scarsa tempestività dell'operazione di soccorso volta a liberarli. Nel biennio 1985-87 scoppiò poi lo scandalo Irangate (o Iran-Contra), nel quale Ronald Reagan fu accusato di traffico d'armi con l'Iran, al fine di raccogliere fondi per finanziare i controrivoluzionari Contras in Nicaragua.
-"Stay the course": un noto slogan di Reagan (mantenete la rotta), storpiato dagli oppositori in "Stay the curse" (mantenete/sopportate la maledizione), qui con l'aggiunta di "Stark" – che aggiunge tra l'altro anche il significato di "severa/spietata maledizione".
-"Viet-boy" è un richiamo alla guerra in Vietnam, già finita nel 1975, ma che lascia profonde cicatrici generazionali nella società americana nei decenni successivi.
- "(Let's) make America great again": noto oggi per essere diventato il mantra di Trump, è in realtà stato coniato da Reagan. In inglese corretto sarebbe "the Starks", ma è volutamente sgrammaticato.
-Da quanto si vede nel MCU in svariate istanze, le Stark Industries sono sempre state allineate col governo, visti i loro accordi con l'esercito e il Dipartimento della Difesa. Di qui questi insulti e allusioni politiche sull'armadietto di Tony (tema che sarà ricorrente nella storia e per questo così in evidenza).
[3] Riferimento alla commedia dell'assurdo "Aspettando Godot" di Samuel Beckett, in cui il suddetto Godot non arriva mai.
[4]
 Al MIT è presente anche un corso ROTC (Reserve Officers' Training Corps), ovvero volto a formare gli ufficiali dell'esercito. Rhodey nel MCU è canonicamente laureato in Ingegneria Aerospaziale al MIT ed è pilota dell'Aeronautica Statunitense.
[5] Negli Stati Uniti copiare, soprattutto in ambito accademico, è considerata un'onta. Si incoraggiano anche gli studenti a denunciare qualunque episodio di raggiro nei confronti del sistema di valutazione, proprio per il fatto che le università, lì costosissime, seguono un rigido sistema meritocratico.
[6] Tony chiama Rhodey nei modi più strampalati, da "sourpatch" (una marca di caramelle acide americane), a "platypus" (ornitorinco), a "honey bear" (orso malese/del miele) e via dicendo. Come vedete in traduzione letterale sono bruttine, per questo troverete delle varianti che si rifanno comunque al concetto di "orso", "stranezza" o "acidità".

 


Disclaimer:
Non concedo, in nessuna circostanza, né l'autorizzazione a ripubblicare le mie storie altrove, anche se creditate e anche con link all'originale su EFP, né quella a rielaborarne passaggi, concetti o trarne ispirazione in qualsivoglia modo senza mio consenso esplicito.

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