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Autore: Bethan__    11/04/2020    1 recensioni
Che domanda stupida gli aveva rivolto. Era giusto così, era naturale che fosse così: i morti si piangono e poi restano dove devono stare, tra i morti. La vita richiede, esige l’essere presenti.
“Non ti incolpo di niente”, scandì attentamente, con chirurgica precisione.
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Era strano ritrovarsi in quella camera dopo tanti anni. Ricordava con chiarezza impressionante tutto quello che era successo dal mattino fino a quel momento, quando si era seduta sul copriletto ricoperto di fantasie geometriche: forse perché per tutta la durata del viaggio aveva ripercorso gli avvenimenti della giornata nella speranza di pensare ad altro e dedicare decisamente meno attenzione a dove fosse diretta. 
La sveglia si era rivelata inutile, non aveva chiuso occhio per tutta la notte: si era sentita percorsa da una sensazione di nervosismo a cui non era più abituata poiché non provava qualcosa di simile ormai da molto tempo. Si era obbligata a fare colazione con un caffè e un toast ricoperto da una generosa quantità di marmellata di albicocche. La doccia era stata breve, così come la scelta degli abiti. Non poteva essere altrimenti visto che aveva scelto cosa indossare più o meno due giorni prima. Aveva controllato con diligenza di aver chiuso il gas, spento la televisione (non si perdeva mai l’edizione mattutina del telegiornale) e aver lasciato la giusta quantità di acqua e cibo al suo gatto. Infine si era pettinata i capelli una seconda volta, aveva indossato gli occhiali da sole e un impermeabile verde scuro, salutato Aramis con un’affettuosa grattata d’orecchie ed era uscita dal suo appartamento di Via Merulana tirandosi dietro il suo fedele trolley giallo limone. 
Il treno era partito dalla stazione di Termini con mezz’ora di ritardo, alle dieci passate, ed era arrivato alla stazione di Milano Centrale poco dopo le due del pomeriggio. Lui aveva insistito molto perché gli permettesse di andare a prenderla ma lei aveva rifiutato, adducendo come scusa il volersi concedere un giro d’esplorazione nella città in cui aveva vissuto per buona parte della sua vita. Quel tempo da sola, in realtà, le era servito solo per costringersi a mangiare qualcosa e fingere di dover cercare di capire il modo migliore per raggiungere casa sua. Era un bluff, naturalmente. Si ricordava tutto: dal numero dell’autobus a quali fossero le strade solitamente più trafficate, dalla via corretta al numero civico. 
L’autobus che avrebbe dovuto portarla in via Sannio era relativamente vuoto e anche se fu costretta a sedersi in direzione contraria al movimento del mezzo, riuscì a ritagliarsi un posto accanto al finestrino. Per continuare a tenersi impegnata, cominciò a guardarsi intorno e a studiare le persone che per puro caso erano lì a condividere quel piccolo spazio con lei. Prese a fantasticare sulla vita di ognuno di loro, un’abitudine che aveva preso da quando aveva iniziato a scrivere. Come sempre, il pensiero che ciascun individuo possedesse una storia, dei ricordi, paure e speranze, le diede conforto ma al tempo stesso la intristì. Guardateci, avrebbe voluto dire, siamo tutti nello stesso posto per puro caso e forse non ci rivedremo mai più. Parliamoci, raccontiamoci la nostra infanzia, rendiamo rilevante la circostanza che ci ha permesso di essere qui, insieme. Che importa se non ci conosciamo, se non ci rivedremo? Iniziamo a dare un significato ai casi della vita. Smettiamola di subire passivamente situazioni e coincidenze. Ma più che ogni altra cosa avrebbe voluto dire guardatemi, vi prego, guardatemi. Vedetemi. Qualcuno mi veda. Sono qui.
Distolse lo sguardo da un signore di mezza età intento a leggere il giornale quando si accorse della giovane coppia che era rimasta in piedi proprio di fronte a lei. Erano studenti, forse poco più che liceali. Lui aveva in spalla due zaini dall’aria pesante, lei gli sorrideva mentre si accordavano sul condividere un pomeriggio di studio. C’era qualcosa, in loro, che le procurò una strana sensazione di malinconia. Era il modo in cui lui si sporgeva leggermente verso la ragazza, tenendo il braccio poggiato al sostegno dietro la sua schiena. Era un gesto delicatamente protettivo, di cui lei forse non si era neanche accorta. C’era stato un tempo in cui anche a lei erano state riservate piccole attenzioni del genere, un tempo in cui era stato facile essere amata. 
Scese alla fermata giusta poco tempo dopo, rendendosi improvvisamente conto di aver dimenticato di portare con sé un ombrello. Sperò che le previsioni meteo fossero dalla sua parte, almeno per una volta. Non che contasse di fermarsi a lungo, comunque. Arrivò al numero 24 in poco tempo, infastidita dal rumore che le rotelle del trolley emettevano a contatto con le mattonelle del marciapiede. Il familiare edificio giallo pallido e grigio chiaro era esattamente come lo ricordava, forse appena meno imponente. I minuscoli balconi spogli le davano ancora la stessa sensazione di claustrofobia di allora, non era mai riuscita a capirne lo scopo. 
Non si aspettava che per aprirle lui scendesse quattro piani a piedi: l’ascensore era rotto. Le disse che immaginava avrebbe avuto un bagaglio con sé, quindi non gli sembrò educato farla faticare tanto appena arrivata. Lo seguì in silenzio, prendendo nota del fatto che l’avesse a malapena guardata negli occhi e anche di come trascinasse appena la gamba destra. 
Quando si chiusero la porta di casa alle spalle lui iniziò quasi meccanicamente a descriverle l’ambiente, indicando questo o quell’oggetto e spiegandole perché fosse posizionato proprio in quel punto della stanza. La casa era spaziosa come una volta, ma c’erano ben poche cose familiari. Il parquet scuro era stato rinnovato e il salone, una volta minuscolo e separato dalla cucina da una porta grigio scuro, era stato trasformato in un open space dall’aria confortevole. Le grandi finestre ad arco lasciavano entrare una luce piacevole e le due piccole poltrone azzurre si accordavano curiosamente bene con il copridivano e i cuscini marroni. La cucina era posizionata in fondo alla stanza e contava un frigo color panna, graziose mensole in legno, un piano cottura spazioso e un tavolo con quattro sedie. Il soffitto era alto e le pareti bianco latte qua e là avevano a ridosso quadri e mobili stipati di libri e riviste. Per un attimo le sembrò di trovarsi in un appartamento di Parigi, tanto che immaginò di affacciarsi alla finestra e scorgere il V arrondissement, con la Sorbona stagliata in lontananza.
Si voltò a guardarlo e si accorse che le stava ancora parlando, elencandole i vantaggi dell’abitare ancora in quella che una volta era stata la casa dei genitori: era vicino alla fermata degli autobus e a una distanza accettabile dalla metro, all’angolo c’era un supermercato ben fornito e di sera la via era poco trafficata, si poteva stare tranquilli. I vicini erano silenziosi, i muri spessi, le finestre della camera da letto davano su un parco. A un certo punto si sentì sopraffatta da tutte quelle chiacchiere e capì che quel giorno il ruolo di chi avrebbe dovuto provare a rendere le cose normali, o almeno poco strane, sarebbe toccato a lei. Questo la tranquillizzò: era sempre stata brava a mantenere il controllo e l’idea di avere una funzione attiva durante quell’incontro servì a confortarla.
“Riccardo”, lo interruppe con voce mite. Lui tacque all’istante, distogliendo lo sguardo dalla piccola libreria accanto al tavolo della cucina e concentrandolo su di lei, che gli rivolse un sorriso incoraggiante. 
“Ciao”.
Lui prese un respiro.
“Ciao”, rispose, annuendo appena con un piccolo gesto della testa.

Le fece un caffè e la invitò ad accomodarsi. Parlarono molto, della carriera di entrambi, danzando in punta di piedi intorno all’argomento che nessuno dei due osava sfiorare. Lui era un ingegnere, lei pubblicava romanzi. Gli chiese come mai avesse deciso di restare a Milano perché ricordava le numerose volte in cui aveva ripetuto di voler lasciare la città, magari anche l’Italia, per trasferirsi in Olanda o in Germania. Milano non era mai piaciuta a nessuno dei due, per motivi diametralmente opposti. Le disse che dopo la malattia di sua madre semplicemente non se l’era sentita di abbandonare suo padre, inoltre a un certo punto aveva smesso di credere di poter essere una persona in grado di ricominciare in un posto diverso da quello a cui è sempre stato abituato. Si era reso conto di non avere le energie necessarie per ricominciare altrove, perciò si era arreso alla consapevolezza di preferire luoghi e visi familiari a una realtà sconosciuta, sebbene questa avrebbe potuto offrirgli molto di più.
“Che codardo, eh?”, scherzò con una lieve inflessione amara nella voce.    
“Ci vuole coraggio anche per rinunciare”.
“No, non è vero. È una bugia che ci raccontiamo per dormire meglio la notte”.
“Tu non hai solo rinunciato, lo hai fatto per restare. Restare richiede coraggio”.
Lui si lasciò andare a una piccola risata.
“Sei proprio una scrittrice”.
Le chiese della sua vita a Roma, dei suoi viaggi. Erano discorsi di circostanza ed entrambi ne erano pienamente consapevoli. Erano ben altre le cose che avrebbero voluto domandare l’una all’altro. Per tutto il tempo che passarono in quel soggiorno, lei non poté fare a meno di chiedersi perché avesse voluto vederla. Perché chiamarla, chiederle se avesse in programma di passare da Milano poiché era tanto, troppo tempo che non si vedevano. E soprattutto, avrebbe voluto chiedere a se stessa perché avesse mentito, rispondendo di avere un biglietto prenotato per la settimana successiva. 
Mentre le parlava, si accorse che non era cambiato per niente dall’ultima volta. Era ancora eccessivamente gentile quando era in imbarazzo, attento alla scelta delle parole, qualche ruga gli si era depositata agli angoli degli occhi e i capelli non erano più dello stesso nero corvino dei tempi del liceo, ma era ancora lui. Uno degli aspetti della condizione umana che più l’avevano ferita negli anni era proprio quello di perdersi. Com’era possibile, si chiedeva, conoscersi, parlarsi, condividere pensieri e paure, per poi semplicemente lasciare che il tempo o le circostanze cancellassero le persone dalla vita delle altre. A volte i distacchi erano dolorosi, altre volte ce ne si accorgeva appena. Molto più spesso, però, era possibile sentire qualcosa spezzarsi, spegnersi. Certo, il loro era un caso particolare, ma era stata lei a scegliere di non vederlo più. Il dolore, lo spavento, l’avevano portata a decidere di non volerlo più nella sua vita. Fece la scelta che i suoi genitori si aspettarono che facesse, la scelta che lei stessa si aspettò di preferire.
“Alice?”.
“Sì”, rispose lei con fare automatico, come quando la professoressa di algebra del liceo la chiamava alla lavagna.
“Hai smesso di ascoltarmi più o meno tre frasi fa”.
“Scusa, mi sono distratta”.
Lui la scrutò per qualche secondo, poi si alzò dal divano su cui erano seduti da un lasso di tempo che le parve infinito e brevissimo al tempo stesso. 
“Vieni con me”, le disse con gentilezza.
Perciò lo seguì in camera sua con una pesantezza strana nelle gambe, le sembrò di faticare immensamente solo per mettere un piede davanti all’altro. La stanza era la stessa di quando era un ragazzo ma l’arredamento era quasi totalmente cambiato nella speranza di dare all’ambiente un’aria più adulta. Essere nuovamente lì era talmente strano e impegnativo che si lasciò andare sul letto senza neanche chiedere il permesso, temendo che da un momento all’altro le gambe potessero cederle.
“So che ti stai chiedendo perché ti ho telefonato dopo tutti questi anni, così, all’improvviso. La ragione è talmente banale che quasi mi vergogno a mostrartela”, scandì le parole con lentezza, evitando il suo sguardo. 
“Mostramela”, rispose lei, fingendo un’intraprendenza che non possedeva.
Lui si voltò verso la libreria e ne estrasse un volume azzurro cielo dalla copertina rigida sulla quale il titolo figurava in un’incisione dorata. Glielo porse e quando lei lo prese, si accorse di un lieve tremito alle mani.
“L’ho ritrovato qualche settimana fa e da allora non ho smesso di pensarci. È passato così tanto tempo che te ne sarai dimenticata ma pensavo che forse lo avresti voluto”.
Lei aprì il libro con lentezza, quasi temesse che le si sbriciolasse tra le mani. La dedica era ancora lì, il tratto di penna era sbiadito talmente poco da sembrare ancora recente.

Alice mi ha aiutato a sceglierlo, perciò se non ti piace la responsabilità è sua.
A quanto pare ci sono un sacco di significati nascosti e tutta quell’altra roba di cui parlate ogni volta che disgraziatamente si nomina un libro. Vi amo entrambi ma, Dio, siete noiosi. 

Buon compleanno, con amore e squallore.

Ah, quanto le aveva sempre invidiato quella calligrafia perfetta, tutto il contrario degli scarabocchi disordinati con cui lei riempiva i suoi quaderni. Ricordava bene il pomeriggio speso a cercare l’edizione migliore di una delle sue raccolte preferite, Nove Racconti di Salinger. Ti prego Alice, ti prego, devi aiutarmi, le aveva detto. Voglio che sia un regalo speciale, voglio sorprenderlo. Lui pensa che io sia troppo stupida per capirci qualcosa di libri, pensa che non lo ascolti, che non mi interessi cosa gli piace.  Era sempre stata così, sfacciatamente sicura di sé all’apparenza ma con una disperata insicurezza che riusciva a mettere a nudo solo con lei. Si era vergognata per anni di aver goduto di quei dubbi, di quelle incertezze, del ruolo di guida che le era stato assegnato. Proprio lei, che di amore e relazioni non ne sapeva ancora niente. Lei che aveva baciato per la prima volta un ragazzo solo al secondo anno di università. Lei che come unica esperienza aveva avuto loro due, il loro rapporto. Aveva vissuto nella periferia della loro storia e se l’era fatto bastare, si era accontentata dei racconti di lei e aveva considerato un privilegio l’amicizia di lui.
Percorse quella dedica con la punta delle dita, sperando che scrivendola avesse calcato la mano abbastanza da lasciare almeno un solco sulla pagina. Invece le dita non incontrarono ostacoli, era come se quelle lettere in corsivo perfetto fossero state stampate dalla casa editrice insieme al frontespizio.
“Perché dovrei volerlo? È tuo”, parlò con voce roca, interrompendo un silenzio che non si era resa conto di aver fatto durare più del dovuto. 
Lui si sedette accanto a lei quasi con delicatezza, pesando ogni minimo movimento. Si era immaginato quel momento tante volte nelle ultime settimane e in nessuno scenario era riuscito a decidere quale sarebbe stata la cosa giusta da dire.
“È anche un po’ tuo”, ammise, rivolgendole un sorriso gentile.
Lei richiuse il libro e lo guardò negli occhi, porgendoglielo.
“Molto tempo fa, forse. Non l’ho mai più riletto”.
“Non credo di essere mai riuscito a dirle che mi fosse piaciuto. Né credo di aver ringraziato te”.
Ma perché, perché stiamo avendo questa conversazione, si chiese lei. Non voglio parlarne, non voglio ascoltarlo, lui se n’è andato, lui l’ha lasciata, lui ci ha rovinato la vita. No, non è vero, non è andata così. Non deve essere andata così.
“Alice, credo di doverlo dire almeno una volta ad alta voce. Mi dispiace”.
“Mi hai fatta venire fin qui per questo? È finita? Ora posso andare?”.
“Ti ho fatta venire qui perché volevo vederti”.
Lei non riuscì a risparmiargli una risata di scherno.
“Volevi vedermi per chiedermi scusa. Non voglio le tue scuse, Riccardo”.
“Volevo vederti e basta. Non mi sto scusando, sto dicendo che mi dispiace. Volevo solo che lo sentissi, almeno una volta”.
“L’ho sentito e, indovina un po’, non è cambiato niente”.
Non era arrabbiata con lui, se lo era ripetuto costantemente in quegli anni. Non si era mai riconosciuta nella furia dei suoi genitori, dei loro amici, di chiunque fosse venuto a conoscenza della “tragedia”. Così era stata definita, dall’inizio alla fine. La tragedia. Non l’incidente, non l’atto, non il gesto, non il suicidio. Semplicemente la disgrazia, qualcosa che era capitato a causa delle circostanze, a causa di qualcuno, nessuno l’aveva deciso, nessuno l’aveva previsto ma qualcuno, oh qualcuno era da incolpare perché dietro qualunque tragedia è necessario trovare un responsabile per scaricare la rabbia, l’angoscia, per vivere, per continuare a respirare. Qualcosa dentro di lei aveva morso e graffiato e urlato per anni ma mai, mai si era concessa di scaricare la responsabilità di quanto accaduto su qualcuno nella speranza di affievolire il dolore. I suoi genitori avevano fatto del rancore la loro ancora, erano riusciti a restare a galla aggrappandosi a sentimenti ignobili e accuse infondate.
“Scusami, Alice. Non avrei dovuto”, la voce bassa di lui interruppe l’inizio di un pericoloso tumulto interiore che quasi sicuramente si sarebbe concluso con un pianto imbarazzante e decisamente fuori luogo.
“Non avresti dovuto fare cosa, esattamente?”, si sforzò di chiedere, incontrando nuovamente uno sguardo familiare seppur velato di sincera preoccupazione.
“Telefonarti, mostrarti il libro. Parlarne”.
Si trovò in disaccordo con quelle parole. Dopo tutto le sembrò giusto, invece, parlarne. Nonostante fosse un argomento che aveva deliberatamente scelto di non toccare più, pensò che non avrebbe voluto farlo che con lui. 
“Pensi mai a lei?”, si ritrovò a chiedergli. 
“No”, rispose lui dopo una breve pausa, pesando accuratamente quella parola, rivestendola di tutta la delicatezza possibile. 
Certo che no, si disse lei. Che sciocchezza pensare, sperare che tutto e tutti abbiano lo stesso peso nella vita degli altri. Quello era un dolore vecchio, sepolto tra i libri e i compiti in classe del liceo. Che domanda stupida gli aveva rivolto. Era giusto così, era naturale che fosse così. I morti si piangono e poi restano dove devono stare, tra i morti. La vita richiede, esige l’essere presenti. Dopo un po’ non c’è più tempo, non c’è più voglia di stare a crogiolarsi nel dolore. Lei stessa non ricordava quale fosse l’ultima volta in cui avesse pianto.
“Non ti incolpo di niente”, scandì attentamente, con chirurgica precisione. 
Ci fu un silenzio breve prima che lui la sorprendesse prendendole una mano. Non ebbe il tempo di vergognarsi del suo palmo sudato, sicuramente imbarazzante e spiacevole. Riconobbe tanto in quella stretta. Riconobbe i pomeriggi passati al parco subito dopo scuola, le partite seguite dagli spalti, le gite in spiaggia a domeniche alterne, le visite in libreria. Riconobbe sua sorella e le passeggiate in centro, i gelati, le chiacchiere condivise nello stesso letto fino a notte fonda, la prima volta che le aveva confidato di aver conosciuto un ragazzo bello, gentile, appassionato di calcio e letteratura. Ricambiò la stretta con un riflesso che non pensava più di possedere e desiderò abbracciarlo, più di ogni altra cosa, desiderò stringerlo e ringraziarlo per averla chiamata, per averla voluta, per averla guardata e vista anche dopo tutti quegli anni.

Le chiese più volte di restare, le avrebbe ceduto il letto e avrebbe dormito in soggiorno. Lei rifiutò con cortese distacco, disse che aveva una montagna di lavoro da sbrigare e una scrivania colma di scadenze da rispettare. Non è forse quello che ci si inventa di solito, per andare avanti? Cose da fare, persone da vedere, email a cui rispondere, scrivere, leggere, occuparsi delle piante, dare da mangiare al gatto. La mano che gli tese prima di lasciare quell’appartamento non riuscì a impedirgli di baciarla sulla guancia. Le chiese di mantenere i contatti, disse che sperava si sarebbero rivisti, osservò che non era giusto perdersi di vista come avevano fatto. Lei adempì al suo ruolo come di consueto, gli sorrise, annuì, si dimostrò d’accordo. Sapevano entrambi che era finita, che quella era l’unica conclusione possibile, che era troppo tardi per tutto quello che era stato e anche per quello che sarebbe potuto essere. La sola cosa che ebbe la forza di ripromettersi, sul treno della sera diretto a Termini, fu di scrivere di lei.

  
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