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Autore: f_dreamer96    15/04/2020    0 recensioni
La casa di Jonathan e quella di Francesca si trovavano una di fianco all'altra e, per i loro primi dieci anni, i due ebbero un'ordinaria vita in una piccola provincia californiana, perennemente insieme, tra gelati rubati e gite in bicicletta. L'improvviso trasferimento della famiglia di lei a Milano li tenne divisi per anni, finché Francesca, ormai studentessa di Giurisprudenza con un posto fisso nel cast del Rocky Horror Show del venerdì sera, non ricevette una lettera spedita da una prigione di Los Angeles.
Una storia di amicizia, amore e famiglia capace di sfidare il tempo e lo spazio.
Genere: Drammatico, Malinconico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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-Adesso faranno sicuramente partire il conto alla rovescia-affermò Rachele, ravvivandosi i suoi lunghi capelli biondi e stringendosi nel suo pellicciotto bianco per il freddo.

-Dovranno, le persone qui continuano ad aumentare-notai io.

Cittadini e turisti erano ammassati nella sfarzosa e dorata Galleria Vittorio Emanuele II di Milano, tutti con sacchetti alle mani e macchine fotografiche al collo, pronti a testimoniare l'evento più elegante della stagione natalizia: l'accensione del grande albero di Natale. Davanti al Duomo si era optato per uno più moderno interamente costituito da luci e display, perciò il tradizionale abete della Galleria rappresentava l'unico conforto per chi, come me, preferiva gli aghi verdi e le ghirlande rosse ed argento.

Il conto alla rovescia finalmente partì, intonato con mille accenti diversi, e l'albero si accese tra gli applausi della folla.

-Bello come ogni anno-ammirai.

-Ogni anno è più bello, semmai-mi corresse Rachele.

A braccetto ci facemmo strada tra la calca fino ad arrivare alle scale che conducevano alla metropolitana. Erano le cinque e mezza di un pomeriggio di fine novembre ed il cielo era già buio.

-Sei sicura che non vuoi cenare a casa mia stasera?-le domandai per l'ennesima volta.

-No, tranquilla, mi sa che Etienne vuole guardarsi un film.

Etienne, il suo ragazzo da quando aveva quindici anni. Erano la coppia ideale: lei italiana, bionda con gli occhi azzurri e la pelle chiara; lui nato a Cannes ma con origini africane, mulatto e con un leggero accento francese. Ero sempre stata a favore della multiculturalità.

-Allora ci vediamo in questi giorni-le dissi, scambiandoci i consueti e rapidi baci sulle guance gelide.

-Certo, ti scrivo!-ricambiò lei.

 

La metropolitana era affollata come al solito, non riuscì a trovare posto a sedere in nessuna delle due linee che dovevo prendere per arrivare a casa. Una volta uscita, camminai a passo veloce stringendomi nel mio cappotto nero finché non arrivai al pesante cancello in ferro del condominio in cui vivevo. Alzai gli occhi al cielo, ma in città non si vedevano le stelle. Almeno quel giorno non c'era la nebbia. Mi toccò togliere le mani dalla tasca calda in cui le avevo tenute tutto il tempo per cercare le chiavi nello zaino, missione più difficile del previsto dal momento che erano state sotterrate dal mio portatile, dal codice penale e dal pesante manuale che mi ero portata nell'evenienza in cui fossi riuscita ad andare a studiare in biblioteca. Finalmente aprì il cancello e quasi corsi fino ad aprire la porta di vetro che mi avrebbe messa definitivamente a riparo dal freddo.

-Buonasera, signorina De Stefano-mi salutò il portiere da dietro la sua finestra di vetro.

-Buonasera-risposi formalmente-C'è posta?

Da una fessura mi passò le buste bianche che avevamo ricevuto quel giorno. I miei genitori erano probabilmente ancora a lavoro e mio fratello da scuola si recava direttamente agli allenamenti di calcio, io ero con grande possibilità la prima della famiglia a rincasare.

Il condominio era storico, con le pareti in marmo rosso antico e la cabina dell'ascensore in ferro battuto. Appeso in un angolo, proprio sopra una grande pianta verde in un vaso oro, il lungo regolamento condominiale. Quando, undici anni prima, ci eravamo trasferiti lì, non riuscivo a capacitarmi di tanta eleganza. Entrai nell'ascensore, premetti il pulsante corrispondente al sesto piano e mi misi a guardare velocemente le buste ricevute. Aspettavo una cartolina da un mio amico in Danimarca, conosciuto l'anno prima durante l'Erasmus a Copenhagen, ma non fu quello che trovai tra la posta quel giorno. Una lettera indirizzata a me dal Metropolitan Detention Center di Los Angeles. Una prigione a Los Angeles. Lessi il nome del mittente ed il mio cuore si fermò.

Le porte dell'ascensore si aprirono ed, entrata in casa, mi tolsi il cappotto e mi gettai sul divano con la lettera in mano. Jonathan Forrester, sbucato dal passato per riportarmi ad una vita precedente, quando ancora vivevo con la mia famiglia in California e la nostra casa si trovava proprio di fianco alla sua.

Nati nello stesso anno, lui a gennaio ed io a novembre, eravamo cresciuti insieme come fossimo gemelli, condividendo qualsiasi esperienza, bella o brutta, insieme. Le nostre esplorazioni in bicicletta, le lezioni di surf che suo padre ci dava nel weekend, i compiti che facevamo pazientemente seduti al tavolo di legno della mia cucina ed i film della Disney che lo costringevo a guardare la sera sul divano. Avevamo affrontato insieme la leucemia di sua madre che alla fine la portò alla morte. Ero seduta accanto a lui sul divano rosso del nostro vecchio salotto quando i miei genitori gli diedero la triste notizia. Tuttavia, compiuti i miei dieci anni, i miei decisero di tornare a vivere nella loro madrepatria, l'Italia, e così dovetti lasciare Wildomar, la tranquilla soleggiata cittadina in cui ero cresciuta, ad un'ora di macchina da Los Angeles, per la grande e fredda Milano. Ritornammo a far visita ai Forrester l'estate successiva per un'ultima volta. Da allora non avevo più visto né sentito Jonathan o la sua famiglia.

-Jon, non mi aspettavo che finissi in prigione-sussurrai tra me e me.

Con dita tremanti, aprì la busta e tirai fuori la lettera, scritta su un foglio completamente bianco piegato in quattro. La dispiegai e come prima cosa ammirai la sua calligrafia, ordinata ed elegante. In fondo Jonathan aveva sempre avuto una certa dote artistica, riusciva a produrre disegni bellissimi persino a cinque anni, quando tutti gli altri bambini disegnavano le persone con le gambe attaccate al collo ed il cielo come fosse una spessa riga blu al principio del foglio. Già le prime due parole furono sufficienti ad inondarmi gli occhi di lacrime: Dear silly. Era così che mi chiamava da bambini, quando Francesca gli sembrava troppo lungo e difficile da pronunciare e quando cantavo in continuazione la canzoncina Silly Sally. Che alla veneranda età di ventun anni mi chiamasse ancora così, mi emozionava e preoccupava allo stesso tempo.

Presi un respiro profondo ed iniziai a leggere:

 

Cara silly,

non so se posso ancora chiamarti così ma è l'unico modo in cui sono sempre stato abituato a chiamarti. Ho spedito la lettera a questo indirizzo senza nemmeno sapere se la tua famiglia vivesse ancora lì, ma non avevo alto modo per provare a raggiungerti. Spero davvero tu legga questa lettera prima dei tuoi genitori e spero che, se non vivi più con loro, almeno possano inoltrartela senza aprirla.

Probabilmente per te ricevere una lettera da un istituto penitenziario dev'essere una doccia fredda perciò premetto subito che non ci sono finito per omicidio, aggressione, stupro o qualsiasi altro orribile crimine possa immaginare. Mi sono cacciato in brutte situazioni, ma temo sia una storia troppo lunga per questa prima lettera.

Ci tenevo solo a dirti che mi dispiace. Quando avevo diciotto anni, a due settimane dalla mia cerimonia del diploma, ho finalmente scoperto perché tanti anni fa mi spedisti quella lettera in cui dicevi di non poter più continuare a scrivermi o ad essere amici a distanza. Ferito, ti risposi con parole orribili quando in realtà una ragione c'era ed era anche più che valida. Fu mio padre a confessarmelo in un delirio dettato dal troppo alcol che aveva trangugiato com'era solito a fare ogni pomeriggio. Avrei voluto contattarti immediatamente ma ho avuto paura di stravolgere la tua vita. Ero certo che, ovunque tu fossi quando avevi diciotto anni, saresti sicuramente stata una ragazza in gamba e con un promettente futuro davanti. Ero sicuro che tu fossi riuscita a trovare la forza per lasciarti il passato alle spalle e non spettava certo a me riaprire una porta così dolorosa.

E allora perché ti scrivo ora? Mio padre è morto settimana scorsa. Ha finito per annegarsi nell'alcol in cui si era rifugiato dalla morte di mia madre e che l'ha accompagnato per tutti questi anni. Probabilmente leggere questa lettera e rimetterti in contatto con me ti procurerà lo stesso del dolore, e di questo mi dispiace. Se decidessi di non volerti voltare indietro, lo capirei perfettamente.

Ci tenevo anche a dirti che mi dispiace di non averti protetta come avrei dovuto. Eravamo ragazzini, certo, ma non avrei mai dovuto lasciare che accadesse. E dopo, avrei dovuto interpretare meglio la tua tristezza. Pensavo fosse solo dovuta al fatto che, alla fine dell'estate, saresti dovuta ripartire per l'Italia e tornare in quella scuola che proprio non ti piaceva, non immaginavo ci fosse dell'altro. Siamo cresciuti insieme, avrei dovuto saperti leggere negli occhi. Scusa se ho fallito.

Non so dove tu sia ora ma ti auguro la miglior vita possibile, te la meriti. Sono certo che farai grandi cose nella vita. D'altronde, cos'altro ci si può aspettare da colei che, a soli sette anni, era riuscita a far circolare per tutta la scuola una petizione per far inserire una rampa per sedia a rotelle nell'auditorium? Ti ricorderò per sempre con affetto, sarai sempre la mia silly.

Tuo,

Jon.

 

PS: Ti chiedo solo una cosa. Se i tuoi non hanno già letto o visto questa lettera, ti prego di non dirgli niente. Non voglio che mi sappiano dietro le sbarre.

 

Mi accorsi che stavo piangendo solo quando le mie lacrime bagnarono il foglio e da lì iniziai a singhiozzare. Jon aveva ragione, quella lettera aveva riaperto una porta che avevo chiuso tanti anni prima e che non volevo più riaprire.

Quell'estate in cui eravamo tornati a Wildomar per l'ultima volta, essendo la nostra vecchia casa già stata venduta ad una nuova famiglia, i Forrester furono così gentili da ospitarci per tre mesi a casa loro. Jon ed io non potevamo essere più felici, dopo un anno eravamo di nuovo sotto lo stesso tetto. Gran parte delle nostre giornate le passavamo in giro per Wildomar, esplorando la città come al solito o arrivando fino al lago Elsinore per farci una nuotata. Elias, il padre di Jon, dalla morte della sua amata Grace era finito in un'incurabile depressione che riusciva ad assopire solo con l'aiuto dell'alcol. Un pomeriggio di agosto, i miei genitori si stufarono di provare a convincerlo ad uscire con loro e portarono mio fratello Lorenzo, che all'epoca aveva sette anni, e Jim, il fratello di Jon di due anni più piccolo di noi, a prendere un gelato. Jon ed io eravamo rimasti a casa, addormentati in camera sua. Mi ero svegliata per prima e, non volendolo disturbare, decisi di scendere al piano di sotto per guardare la televisione o bere un bicchiere di limonata. Ma Elias era di nuovo ubriaco sul divano e, sentendomi entrare nella stanza, mi invitò ad avvicinarmi. I miei mi avevano avvertita di stare attenta quando si riduceva in quelle condizioni ma non potevo certo immaginare potesse davvero farmi del male, in fin dei conti, era sempre stato come un secondo papà per me. Mi aveva insegnato ad andare sul surf, si travestiva da Babbo Natale ogni anno e, prima di trasferirmi in Italia, mi aveva addirittura regalato una chitarra acustica. Ma quel pomeriggio il suo cervello era troppo annebbiato. Iniziò a toccarmi, raccomandandomi di non fare rumore per non svegliare Jon. Io mi sentivo a disagio ma, a soli undici anni, non ero pienamente consapevole di cosa stesse succedendo e mi fidavo troppo di lui per scappare via. Finché non mi tolse i pantaloncini, non mi abbassò le mutandine e provai un dolore lancinante, come se mi si fosse strappato qualcosa all'interno. Avevo abbassato lo sguardo ed avevo visto del sangue. D'istinto mi venne da urlare ma lui mi tranquillizzava, come aveva sempre fatto quando cadevo dalla bicicletta e mi sbucciavo un ginocchio, e così rimasi impietrita piangendo in silenzio. Quando ebbe finito, cominciò a scusarsi un'infinità di volte, scoppiò a piangere a sua volta e continuò a ripetermi che non avrebbe mai voluto farmi del male, che ero sempre il suo piccolo angelo e mi pregò di non dirlo a nessuno. E così feci, nessuno lo seppe.

Per molto tempo non riuscivo a spiegare cosa mi fosse successo perché non riuscivo bene a capirlo nemmeno io e, quando finalmente lo capì, la vergogna mi impedì di parlarne. Non lo dissi nemmeno ai miei genitori, ai miei migliori amici, al mio primo amore con cui, dopo parecchi mesi, trovai il coraggio di dormire insieme. Persino quando i miei mi avevano chiesto come mai avessi deciso di interrompere i rapporti con Jon, avevo risposto che avevamo discusso e che comunque un'amicizia a distanza avrebbe reso il mio ambientarmi in Italia solo più difficile. Inoltre, persino ad undici anni e mezzo ero capace di chiedermi cosa sarebbe successo se avessi confessato tutto. I miei avrebbero potuto denunciare il fatto e cosa ne sarebbe stato di Jon e Jim? Già avevano perso la madre, li avrebbero definitivamente strappato l'ultimo genitore rimasto? Sarebbero finiti in orfanotrofio?

Così tenni il segreto. Essendo Elias ormai morto, a meno che Jon non l'avesse detto a qualcun altro, noi due eravamo le uniche persone a saperlo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

  
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