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Autore: Luana89    17/04/2020    0 recensioni
Nessuno può dire cosa succede in quel sottile processo di cambiamento tra la persona che eri e la persona che diventi. Nessuno, oltre te, può tracciare la linea immaginaria dell'inferno. Nessuna mappa. Nessuna via indicativa. Sei semplicemente uscito dall'altra parte, e non ti resta che camminare e sperare. In molti provano a scombinarmi i pensieri, a capire cosa ci sia dentro quel lerciume coperto da strati di capelli e ossa. Fottuti idioti. Nessuno entrerà mai nel mio castello. Nessuno ne varcherà mai nemmeno i cancelli. O forse si, forse tu?
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lemon | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
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‘’E tu cosa proteggi, te o lui?’’, continuavo a rimuginare su quelle parole mentre percorrevo i corridoi dell’ospedale con sguardo assente. Di recente la mia mente non sembrava volermi dare tregua, pensavo la mia condanna più grande fosse da sempre quella coscienza autonoma che mi soffocava da tutta una vita. Secondo Jay la mia onestà d’animo invece era il mio più grande pregio, era ciò che mi aveva condotto lì dove stavo adesso. Una barella sfrecciò accanto a me, venni richiamata a gran voce correndo dietro l’equipe medica che ormai era diventata la mia seconda famiglia.
«Cosa succede?» Alexander mi guardò distrattamente.
«Donna bianca, incidente stradale, possibile emorragia interna.» Fissai il corpo insanguinato e trasfigurato dalle ferite, non riuscivo neppure a distinguerne i lineamenti. Tempo prima James mi aveva chiesto come riuscissi a restare lucida di fronte a quelle tragedie che ogni giorno mi si paravano davanti, in quel frangente mi ero limitata a sorridergli criptica. Non gli avevo detto quanto quelle mostruosità mi lineassero dentro ogni giorno di più, empatizzavo il dolore altrui sentendomi spesso e volentieri impotente eppure dovendo pensare a una vita intera senza quel tipo di contatto umano mi sentivo totalmente persa. Avevo bisogno di quel lavoro, avevo bisogno delle mani che si aggrappavano a me, della loro sofferenza che tentavo di curare in ogni modo possibile.
Due ore dopo gettai i guanti e la mascherina uscendo dalla sala operatoria, la donna era salva e il marito in sala d’attesa scoppiò a piangere farfugliando ringraziamenti, accarezzai il suo braccio lasciandolo solo con il proprio sollievo tornando a perdermi dentro me stessa. Il pensiero di Jay non riusciva ad allontanarsi da me, il mio sesto senso continuava a far scattare campanelli d’allarme che mi rendevano irrequieta. Come potevo affrontarlo? Piazzarmi di fronte a lui e chiedergli se fosse ricaduto nelle vecchie e letali abitudini? Come avrebbe reagito? Ricordavo anni prima la sua aggressività, i suoi occhi iniettati di sangue, le labbra secche e tremanti. Mi accasciai al muro coprendo il viso con le mani, non volevo vedere né sentire nulla. Come potevo pensare di essere sincera sapendo di distruggere anche l’ultimo brandello sano che gli fosse rimasto? BUGIARDA. La voce di Peter mi schiaffeggiò con violenza. ‘’Non vuoi dire la verità per egoismo, hai paura di perdere l’ultimo brandello sano che rimane di voi, non di lui’’, strinsi i denti cercando di non piangere mentre quella voce lenta si spegneva lasciando solo echi e mormorii. Qualcuno tirò il mio camice con insistenza, abbassai lo sguardo fissando la bambina bionda che mi sorrideva, la mia espressione cambiò mentre mi accucciavo di fianco a lei.
«Qualcuno qui ha perso un altro dente, per caso?» Aveva i capelli morbidi e setosi, il suo odore mi ricordava il mio da bambina. Faith era il suo nome, la madre era stata ricoverata ormai settimane prima a causa del cancro, e il marito si divideva tra lavoro e figlia in maniera stoica.
«Sei triste?» I bambini capivano sempre tutto, non era questo ad aver trasformato Jay? Ancora lui, sempre lui. Scossi il capo arricciando il naso in un’espressione buffa e Faith sembrò illuminarsi. «Allora vieni con me da mamma?» Sospirai dandole la mano, era ormai un rito quello di tenerle compagnia mentre vegliava la madre, a volte avevo come l’impressione che lo facesse per il timore di vederla spirare davanti a lei. Il timore che succedesse quando nessuno le era vicino.
«Come sta la mia paziente preferita?» Entrai in camera notando la presenza del marito accanto a essa, sorrisi osservando il loro incrollabile amore, era bello da vedere. Mi dava speranza.
«Faith è venuta di nuovo a disturbarla?» Scoppiammo a ridere guardando la monella che tentava di nascondersi dietro il mio camice, i miei occhi senza volerlo incontrarono quelli dell’uomo e per la prima volta vi lessi tutta la sua fragilità e paura.
«Guarda cosa ho regalato a papà.» Mi riscossi a quelle parole fissando il punto da lei indicato, notando l’orologio al polso dell’uomo, dentro il quadrante dei buffi pupazzi colorati. Risi di cuore involontariamente mettendolo in imbarazzo, eppure la fierezza di portare quel dono era stampata sul suo viso.
«Mi dica la verità dottoressa, mia moglie ce la farà?» In corridoio nessuno faceva caso a noi due, mi poggiai a ridosso del muro incrociando le braccia al petto. Quella era sicuramente la domanda da un milione di dollari, e mi veniva posta mediamente due volte al giorno. Una era sempre la sua.
«Il dottor Cruz sta facendo il possibile, non lasceremo nulla di intentato posso assicurarglielo.» E la mia risposta puntualmente la stessa mentre lo guardavo stringere le spalle e divenire quasi più piccolo della sua stazza. Il cancro agiva in maniera aggressiva, e la donna rispondeva male alle terapie, ma senza quelle la possibilità di operarla diveniva sempre più lontana. Sarebbe sopravvissuta? «Il nome di sua figlia..» mi guardò come se non capisse e io sorrisi. «Ha chiamato sua figlia ‘’fede’’, è ciò che deve avere adesso.» I suoi occhi divennero lucidi mentre annuiva tirando su col naso. Guardai l’orologio al suo polso con un senso di malinconia prima che il cellulare non vibrasse nella mia tasca, guardai il numero sentendo le mie guance colorarsi e il cuore battere più veloce.
 

 
 

(          JAY      )
 

 
Guardai il cellulare adesso muto con un senso di impotenza e colpa. Nel caos che era la mia vita lei era l’unica costante a tenermi ancorato a quel mondo in maniera violenta e vincolante. Sentii il braccio pulsare dolorosamente, arrotolai la manica trattenendo un urlo di dolore mentre fissavo il livido che lentamente stava suppurando. Avevo iniettato male quella merda, ed ecco il risultato. Eppure non smettevo, non ne avevo l’intenzione, o forse la forza. In fondo ero un debole, me lo ripetevo da una vita accettandolo solo nella solitudine della mia anima, il mio modo di reagire ai problemi e di affrontare le prove che la vita mi metteva davanti aveva del ridicolo. Ero cresciuto guardando mia madre sfondarsi di coca seduta al tavolo della cucina, e guarda che fine avevo fatto. Eppure i suoi occhi pieni di giudizio mi tormentavano ogni notte, quando mi ero presentato alla sua porta in quella notte fatta di lacrime e disperazione, quando il suo sguardo si era posato sulle mie braccia martoriate io avevo visto lo strappo creatosi tra noi. Ne avevo sentito il rumore dentro la mia anima, e non ero più riuscito a ricucirlo. La mia parte cinica aveva sempre pensato a lei come un’incoerente, una tossica che si scandalizza nel vedere il figlio seguire le sue orme, seguire gli unici passi a cui era stato abituato da che ne avesse memoria. Eppure adesso, dopo la sua morte, pensavo che mai come in quel momento fosse stata una madre.
Avevo dato appuntamento ad Alice nella nuova gelateria aperta dentro il centro commerciale al centro, avevo bisogno dei suoi occhi caldi su di me, delle sue mani morbide che afferravano le mie e mi davano l’illusione di trattenermi in quella vita. Eppure mentre mi dirigevo lì il destino cambiò le carte in tavola mischiandole a suo piacimento, la porta suonò seccamente una volta e quando aprii la mia vecchia vita si presentò con i suoi occhi grandi, la pelle una volta chiara adesso grigiastra e i capelli luminosi spenti e privi di vitalità: Shanti.
«Sembra tu abbia visto una morta..» mi sorrise tremula e io non riuscii a spiccicare parola, in effetti aveva messo a parole ciò che avevo semplicemente pensato e lo capì persino lei. «Non sono ancora morta Jay, ma lo sarò presto.»
 
AIDS. Quella semplice parola risuonò nella cucina adesso troppo stretta forse a causa della sua presenza, il che era ironico visto quanto piccola e magra sembrava essere diventata. Le sue mani tremavano appena mentre afferrava il bicchiere d’acqua bevendolo come un’assetata. Ci fissammo in silenzio per un tempo che mi parve interminabile.
«Non fare quella faccia, sapevamo sarebbe successo prima o poi.. non puoi pensare di vivere una vita come la nostra senza pagare lo scotto finale.» Si riferiva alla prostituzione? All’eroina? Forse a entrambe le cose, e io non ebbi il coraggio di chiederle quale delle due cose le avesse lasciato quel regalo. Quando avrei pagato il mio di scotto finale?
«Come mi hai trovato?» Forse le mie parole suonarono rudi, eppure la mia era genuina curiosità o forse ero ancora scioccato nell’averla lì davanti.
«Amici di amici..» si mostrò vaga guardandomi furbamente, mi tornarono in mente i giorni passati insieme, l’eco delle nostre risate che giorno dopo giorno divenivano sempre più rare fino a sparire del tutto. «Non mi chiedi perché sono qui?»
«Perché sei qui..» mi sentivo un automa, era lei a suggerirmi le battute di quella commedia grottesca. Respirò profondamente e vidi finalmente tutta la sua paura e fragilità.
«Ho avuto un bambino, ha 4 anni ed è bellissimo..» cercai di mantenere un’espressione neutra ma probabilmente non mi riuscì bene visto come mi fissò. «Non mi rimane molto da vivere, i servizi sociali me lo toglieranno presto.. e in mezzo a tutto quel caos io ho pensato a te. Sei stato l’unico uomo che penso d’aver amato davvero, nonostante il torto che ti feci consapevolmente..» entrambi ricordammo quella fatidica notte, quando portò da me ciò che sarebbe divenuta la mia condanna più grande.
«Non posso darti ciò che vuoi, la mia vita adesso è cambiata..» inarcò un sopracciglio abbozzando un sorriso, mi sentii come se avesse appena ridotto in coriandoli le mie certezze. Come se volesse dirmi ‘’è cambiata sul serio?’’.
«Non puoi darmi pochi mesi della tua vita?» Non so perché mi ritrovai a fissare l’orologio, era tardissimo Alice mi stava aspettando.
«Non posso.» La sedia strisciò sul pavimento provocando uno stridio fastidioso, mi alzai serrando i denti e le labbra formarono una linea dritta e dura. La vidi imitarmi mettendosi nuovamente in piedi, afferrando la borsa, notai i suoi vestiti leggeri e appena consumati eppure le braccia pulite mi lasciavano pensare non si bucasse più.
«Sai cosa mi domando?» Si bloccò davanti la porta soppesandomi mentre io riuscivo a malapena a respirare, facevo a pugni con la mia coscienza restando senza fiato. «Come puoi non concedermi pochi mesi della tua vita, ma darla per intero a quella merda che tieni in corpo; forse valgo meno di quanto mi aspettassi.»  Il magone ostruì la mia gola mentre lei giudice severo mi spogliava della mia dignità, delle mie bugie. Lei che forse mi conosceva come nessuno avrebbe fatto mai. Chiusi gli occhi restando in silenzio sentendo solo il rumore della porta che veniva chiusa. Tra le mie mani il suo numero di telefono, rattrappii le dita accartocciandolo. Non ebbi il coraggio di buttarlo.
 

 

(          ALICE      )

 
 
Ero in tremendo ritardo e come se non bastasse il mio cellulare aveva pensato bene di scaricarsi proprio in quel momento. Vidi l’autobus arrivare, i miei piedi si mossero veloci nel disperato tentativo di prenderlo e quando ci riuscii sorrisi vittoriosa sedendomi  tra gli ultimi posti godendomi la visione di New York nel fulgore di quello splendido pomeriggio. Feci forza aprendo il finestrino impolverato sporgendo appena il viso affinché l’aria fresca mitigasse il senso di calore e sforzo che sentivo attaccato alla pelle dopo quella corsa. Un cellulare suonò e poi un altro, e poi un altro ancora, improvvisamente dentro il veicolo scoppiò il caos, sentii le persone urlare concitatamente senza capire il motivo. Mi alzai sentendo le gambe improvvisamente pesanti avvicinandomi alla ressa, una ragazza sui diciotto anni teneva in mano il cellulare mentre il telegiornale passava in edizione straordinata annunciando il crollo del Manhattan Mall, il centro commerciale nella quale ero diretta, nella quale Jay mi aspettava, nella quale una moltitudine di persone ignare erano andate a passare un pomeriggio diverso. Sentii la testa girare mentre mi aggrappavo al sedile con le unghie, ne sentii una spezzarsi mentre come un automa premevo il campanello della fermata urlando al conducente di fermarsi. Scesi giù iniziando a correre, attorno a me la gente sembrava impazzita mentre guardavo in lontananza il fumo e le macerie del palazzo. Il semaforo rosso, un clacson che suonava impazzito, le strisce pedonali che si muovevano sotto i miei occhi e lì di fronte c’era lui. Mi guardava scioccato a sconvolto, i nostri cuori ero sicura avessero ripreso a battere insieme in quel preciso istante. Mi slanciai nella sua direzione arrivandogli dritta tra le braccia, rendendomi conto di stare piangendo.
«Pensavo fossi lì dentro.» Battei il pugno chiuso contro il suo petto, ero in pieno crollo nervoso. Mi abbraccio accarezzandomi i capelli.
«Sono qui.. ho fatto tardi.» Quel ritardo aveva salvato la sua vita e la mia di riflesso. Non riuscivo a smettere di piangere mentre il mio cercapersone suonava come impazzito a intervalli di due minuti. Lo afferrai con dita tremanti osservando il numero dell’ospedale, fissando Jay come smarrita.
«Hanno bisogno di te..» è vero, lui era ancora vivo ma moltissima gente era rimasta vittima di quel crollo. Mi afferrò il polso scrollandomi vigorosamente, portandomi verso l’auto. «Faremo prima con questa.» Notai come non possedesse più quella jeep, fu un pensiero stupido nel mare di preoccupazioni che frullavano nel mio capo.
Quando arrivai in ospedale v’era il delirio di ambulanze e barelle, ripresi immediatamente il controllo di me stessa correndo verso la sala del pronto soccorso notando in quel momento i miei colleghi. Kristin mi fece cenno di avvicinarmi, la gamba della donna in quella barella era quasi del tutto staccata dal corpo. La visione non mi ripugnò aiutandomi anzi ad acquistare fermezza mentre richiamavo l’attenzione di alcuni infermieri. Le ruote di un’altra barella cigolarono accanto a me, vidi i medici intenti a rianimare un uomo coperto di sangue, non so perché mi avvicinai come attratta da quella scena.
«LIBERA.» Il corpo ebbe un sussulto afflosciandosi nuovamente su se stesso, privo di vita. Ci guardammo negli occhi, nessuno aveva il coraggio di dichiararne il decesso e poi vidi il suo polso e quell’orologio buffo coi pupazzi colorati. Il quadrante spaccato e insanguinato. Sentii le lacrime pungere e dolere dentro ai miei occhi, e mi chiesi per un brevissimo istante come tenersi stretta la fede in un mondo che continuava a schiaffeggiarti senza pietà.
«Ora del decesso 19:00.» La mia voce uscì stentata mentre coprivo il su viso con il lenzuolo.
 

 

(          JAY      )

 
 
Il gusto acidulo della birra invase la mia bocca e la mia gola, aspirai una boccata dalla sigaretta fissando Peter e James intenti a bisticciare per motivi a me sconosciuti. Era da sempre così, come cane e gatto sin da piccoli, eppure non avevo mai visto nessuno dei due restare fermo quando l’altro chiedeva aiuto.
«Shanti sta morendo.» Non riconobbi la mia voce, e probabilmente non lo fecero nemmeno loro mentre il silenzio tornava a far da padrone in quel garage malmesso. A differenza di Alice loro sapevano bene chi fosse quella donna che mi aveva accompagnato per un anno della mia vita. James si poggiò al cofano dell’auto a cui stava lavorando in quei giorni.
«Come l’hai saputo?» Sorrisi senza gioia osservando la sigaretta consumarsi tra le mie dita, scottava come me in quel momento.
«Si è presentata a casa mia oggi pomeriggio… sapete perché molti eroinomani si bucano sempre in compagnia?» Quella domanda sembrò spiazzare entrambi che si fissarono mutuamente scuotendo infine il capo. «Perché temono la morte, ironico no? Hanno paura di morire soli come cani, e affidano la loro vita a qualcun altro.. non importa chi.» Diedi un altro tiro alla sigaretta, nemmeno Shanti faceva eccezione a quella regola e probabilmente il timore di morire sola superava quello della morte stessa. Quante altre persone avrei visto lasciare quel mondo mentre io restavo lì a marcire?
«Cosa pensi di fare?» Peter mi guardò con curiosità, la sua praticità a volte mi spaventava.
«Le ho negato il suo ultimo desiderio.» Scrollai le spalle fingendo un’indolenza che ero ben lontano dal provare, e forse loro lo capirono. Mi alzai dando un ultimo sorso alla birra ormai finita. «Ho ripreso a farmi.» Il silenzio della stanza non era pregno di sorpresa ma più di rassegnazione. La rassegnazione che provi quando ti viene sbattuta in faccia qualcosa che già sai.
«A cosa dobbiamo questa disarmante sincerità?»
«Perché stavolta temo di restarci sotto, stavolta morirò anch’io.» Avevo scampato il crollo del centro commerciale, era stata Shanti a salvarmi inconsapevolmente come se qualcuno da lassù mi volesse dare una seconda occasione per tenermi stretta quella vita e io la stavo semplicemente calpestando. E per questo sarei stato punito.
 
 
Safari gettò il sacchetto sul tavolino fissandomi con occhi spenti, a volte ero convinto avesse perso la sua umanità a furia di vedere noi reietti morire come foglie mature in autunno. Eppure non smetteva mai, spettatore silenzioso e consapevole, un cannibale che si nutriva della carne di noi anime perse.
«Da quanto ci conosciamo?» Mi spiazzò quella domanda, lo guardai aggrottando la fronte.
«Cos’è, sei nel tuo periodo sentimentale?» Mi sorrise mettendo in mostra quel dente scheggiato, regalo di una rissa, contando i soldi che gli avevo appena dato.
«Da quando eri più o meno alto così.» Rispose lui al posto mio indicandosi il fianco, la nostra differenza d’età adesso non sembrava più così ampia. «E non pensavo che un giorno avrei mangiato e sputato persino te.» Annuii stancamente, potevo comunque ribattere a quell’affermazione?
«Ti senti in colpa per questo?» Mi guardò scoppiando poi a ridere, riponendo i soldi nella tasca della felpa.
«Hai una ragazza mozzafiato, guidi le auto come un Dio, hai degli amici e scegli comunque di sfondarti e gettare nel cesso la tua vita.. perché dovrei sentirmi in colpa?» Vidi l’ingordigia e la cattiveria nei suoi occhi, sorrisi arcigno mentre fissavo la sua schiena allontanarsi e lasciarmi solo con me stesso e il mostro che mi guardava poggiato sul tavolino. Avvolto da un sacchetto.
 
Mi raggiunse nel cuore della notte, sentii i suoi passi leggeri e sorrisi nella penombra della stanza, quel suo preoccuparsi sempre di disturbarmi di ritorno dai suoi turni mi faceva perennemente sorridere.
«Hai fatto tardi oggi.» L’attirai contro di me, le sue mani artigliarono la mia schiena mentre il respiro caldo solleticava il mio collo.
«E’ stata una giornata pesante..» nel buio rividi il viso di Shanti, intromettersi dispettosa come solo lei sapeva essere. Strinsi Alice con forza respirando profondamente.
«Anche la mia..» non mi chiese spiegazioni, come se già sapesse tutto ciò che con sforzo provavo a celarle. Forse la mia maschera grottesca iniziava a spaccarsi in più punti, e lei silenziosamente ne raccoglieva i cocci costruendoci quel puzzle che temevo alla fine ci allontanasse. Quella notte non dormii mentre ad occhi sbarrati vedevo passarmi davanti ogni singolo dolore della mia esistenza. L’ultimo viso fu quello di Alice, perché?

 
  
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