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Autore: Shiki Ryougi    19/04/2020    1 recensioni
Spostò lo sguardo dalla finestra che dava sul cielo plumbeo a quei cilindri di plastica semitrasparente.
Sembravano chiamarlo. Aveva già preso la dose giornaliera di medicine che il medico gli aveva prescritto, ma sentiva la testa formicolare. I pensieri si soprapponevano l’uno sull'altro, come centinaia di ragni su di una tela. Una rete che gli avvinghiava le meningi, provocando stanchezza e dolore, ma l’incapacità di dormire.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Introspezione egocentrica'
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Un plumbeo cielo stellato
 
 
Il dolore gli scosse la schiena, percorrendo la spina dorsale.
Girato sul fianco destro, il suo corpo nudo ed esile era coperto parzialmente da un pesante piumone dalle tonalità grigie, dense come le nuvole che oscuravano il cielo di quel tardo pomeriggio.
Non dormiva da almeno ventiquattrore e niente gli permetteva di prendere sonno. Giaceva sul letto, rannicchiato in posizione fetale, con gli occhi sbarrati, a fissare il comodino accanto.
Sul ripiano in legno erano appoggiati diversi oggetti, disposti in un preciso ordine maniacale; i libri impilati secondo la grandezza e la gradazione dei colori, la bottiglia di plastica con l’acqua ben incastrata tra la lampada e il margine sinistro, quello che dava sul letto, e infine le pasticche. Erano raccolte dentro delle scatoline cilindriche di plastica, etichettate a dovere, messe in fila indiana sull’altro margine.
Spostò lo sguardo dalla finestra che dava sul cielo plumbeo a quei cilindri di plastica semitrasparente.
Sembravano chiamarlo. Aveva già preso la dose giornaliera di medicine che il medico gli aveva prescritto, ma sentiva la testa formicolare. I pensieri si soprapponevano l’uno sull’altro, come centinaia di ragni su di una tela. Una rete che gli avvinghiava le meningi, provocando stanchezza e dolore, ma l’incapacità di dormire.
Aveva abusato spesso di quelle pasticche. Alte dosi gli permetteva di non pensare, di non cadere in quei pensieri ossessivi che lo conducevano a compiere in continuo delle compulsioni sciocche e stancanti. Avere tutto sotto controllo, era quella la sua spina nel fianco, la fonte del suo tormento. Ogni oggetto che si trovava nella sua minuscola casa doveva essere privo di polvere, che non faceva altro che depositarsi. Per fortuna ora viveva solo, odiava che qualcuno toccasse e spossasse le sue cose: lui le metteva in un preciso ordine che spesso controllava e tale doveva rimanere. Ogni tanto variava, in cerca di qualcosa di migliore, una combinazione che rasentasse la perfezione. Ma poi eccola, la cosa che si stagliava nel suo quadro, quel qualcosa in più, quel qualcosa fuori posto. Quindi la testa non smetteva mai di cercare qualcosa di migliore, una disposizione esente di imperfezioni. Ma ovviamente era ben consapevole di star ricercando l’impossibile, perciò si riempiva di pasticche e cadeva nel letto, sotto le coperte, senza vestiti, perché gli prudevano, e dormiva. Finalmente senza pensieri, senza preoccupazioni, senza ossessioni, senza compulsioni.
Ma durò poco.
Eh sì, le cose belle durano sempre così poco, maledettamente troppo poco.
Un giorno il medico gli disse che se avesse continuato ad abusare di quelle medicine sarebbe morto nel sonno. Continuò, assumendo che doveva imparare a convivere con il suo disturbo e non affidarsi solo ai farmaci. Avrebbe dovuto trovare un metodo alternativo.
Cosa mai andava blaterando?
Era forse pazzo?
Non c’era alcune possibilità che imparasse a convivere con quel problema. Era fuori discussione. Una gran cazzata.
Lo avrebbe ucciso. I suoi stessi pensieri si sarebbero impadroniti della mente e lo avrebbero fatto marcire nelle compulsioni insensate che lo rendevano prigioniero.
Si mise a sedere lentamente, mentre i dolori alla schiena non cessavano. Per quanto tempo era rimasto steso a letto, senza neanche mangiare? Di sicuro erano passate almeno ventiquattrore. Un tempo lungo in cui lui non era riuscito né ad alzarsi né a dormire. Se si fosse alzato, avrebbe ceduto alle compulsioni, se fosse rimasto a letto sarebbe anche potuto morire di fame e sete, ma non avrebbe chiuso occhio.
I pensieri erano come diapositive che scorrevano avanti e indietro. Avanti e indietro, un film in continuo loop sulle scene più emozionanti. Una tortura senza precedenti.
Quindi per questo decise di sedersi, svuotare sul letto tutte le scatole di plastica piene di pasticche e di ammirarle per un po’. I colori si mischiavano: tre tipi di medicinali diversi per il suo male. Ognuno più inutile dell’altro.
“Conviverci… ma stiamo scherzando? Preferisco lasciare questo mondo”.
Così scese dal letto, completamente nudo mentre un brivido di freddo lo scuoteva.
Aprì completamente le tende della finestra per ammirare ancora meglio il cielo pesante e denso: amava quella visione, sembrava rappresentarlo.
Dopo una quantità di tempo indefinita, mentre osservava le nuvole muoversi lentamente, si voltò e si avvicinò allo stereo. Mise un album dei Nightwish e si lasciò cullare dalla voce magnifica della cantante. Le note gli rimbalzavano nella testa. Era magnifico.
Tornò sul letto, dopo aver danzato un po’, come se abbracciasse la donna che l’aveva ormai abbandonato da tempo, ma che lui non aveva mai smesso di amare.
“Un’altra cosa con cui convivere. Ma andate al diavolo!”.
Osservò quella moltitudine di stelle: le pasticche dai molti colori, in contrasto con il grigio della coperta, sembravano rappresentare uno scenario apocalittico. Il suo plumbeo cielo della morte.
Ridendo, prese la bottiglia d’acqua e si cacciò in bocca una manciata di stelle.
Poi ancora.
Poi ancora.
Fino a quando il cielo non si spense.
“Fanculo”.
   
 
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