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Autore: Lela_88    25/04/2020    1 recensioni
Quando la privazione di sonno ti porta a non riuscire più a distinguere la realtà dal mondo onirico.
Pov Watson.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Sherlock Holmes
Note: Movieverse | Avvertimenti: nessuno
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The end?
 
 
Le imposte della finestra, sebbene chiuse, non riescono ad isolare completamente i rumori provenienti dall’esterno e se mi concentro potrei riconoscere il modello delle carrozze, dire quanti cavalli le trainano e quanti viaggiatori ci sono in esse, tutto questo basandomi solo sulla velocità e sul rumore prodotto dalle ruote e dagli zoccoli che battono la strada.
Mi ritrovo a sorridere e a pensare che Holmes sarebbe stato fiero di me, nel sentirmi formulare tale ragionamento, mi esortava spesso, gli piaceva giocare con la mia mente per farmi arrivare a logiche conclusioni che per pigrizia non vedevo, quindi sì, sarebbe stato fiero anche se penso che non lo avrebbe mai confessato e si sarebbe limitato a sorridere autocompiacendosi per il buon risultato del suo insegnamento.
Per quanto possibile, il sorriso mi si allarga di più e prima che il ricordo si trasformi in nostalgia, colui che spero sia il mio ultimo paziente della giornata, interrompe il mio flusso di pensieri: «sì dottore, è un aneddoto davvero divertente, come sa ne ho tanti da raccontare» dice ridendo, convinto che l’espressione sul mio viso sia dovuta alle sue parole.
Vorrei, forse dovrei scusarmi e confessargli che non stavo prestando attenzione, ma mi limito ad annuire e a completare la visita.
Il colonnello Millestone è un caro e abituale paziente del mio studio, un vecchio signore, ex militare, in pensione da tanto tempo, viene qui solo per avere un po’ di compagnia, che non gli nego e i suoi racconti, così come le mie cure e raccomandazioni, sono sempre gli stessi.
 
 
Sto per congedarlo, quando lui torna a parlare: «è da tanto che non la vedo con in mano il suo taccuino, ricordo mi disse che era solito prendere appunti per poter scrivere racconti. Ha smesso? So che il suo amico è morto, ma se non ha più storie su di lui, può prendere nota dei miei racconti».
Rimango impietrito per qualche istante e in un primo momento vorrei solo potergli urlare che quelli non sono affari suoi, vorrei mandarlo via in malomodo, ma per rispetto alla mia posizione e al passato militare, fingo di sorridere al povero malcapitato ignaro dei miei sentimenti.
«Ci penserò – mento – lei riposi e non si affatichi troppo».
Ricambia il sorriso e mentre lo guardo uscire, lancio un’occhiata veloce alla sala d’aspetto e mi rassereno nel vederla vuota. Rilasso il viso, mi concedo un sospiro di sollievo e rientro nel mio ufficio, ma prima di cambiarmi e lasciare anche io lo studio, chiudo la porta, spengo tutte le luci e, con la stanza illuminata solo dai lampioni esterni, vado a sedermi alla mia scrivania; mi accomodo allineando perfettamente la schiena e poggio le palme delle mani sulla superficie davanti a me; chiudo gli occhi, prendo un bel respiro e trattengo il fiato.
Non sento più alcun rumore se non quello del mio cuore che poco fa, quando il colonnello ha fatto riferimento a Holmes, sembrava volesse uscirmi dal petto. Adesso va meglio, sta riacquistando il suo ritmo regolare.
Rilascio l’aria e riapro gli occhi giusto in tempo per sentire i rintocchi delle campane. Li conto, sono le otto: è arrivato anche per me il momento di rientrare a casa.
 
 
Tolgo il camice e, rimasto in camicia e panciotto, lo sguardo mi cade sulla fascia nera che ho stretta intoro al braccio, dimentico sempre di averla, ormai metterla è diventato un gesto abituale, ha quasi perso di significato.
La tocco e la penso: Mary. Quella fascia è per Mary e io ho bisogno di doverla vedere per ricordare la mia defunta moglie.
 
È sbagliato, è quasi ingiusto che il dolore per la morte di Holmes prenda sempre il sopravvento su quello che provo per Mary, è sbagliato, ma è qualcosa che va ben oltre il mio controllo. Provo a dare mille spiegazioni a tutto questo, ma la realtà è una: nessuno mi ha mai dato e nessuno mi darà mai quello che lui mi ha dato e non importa in quanti ancora mi porgano le loro condoglianze per mia moglie, per me saranno sempre per Holmes.
Prendo un altro bel respiro, indosso la giacca, il cappotto, afferro il bastone e mi affretto ad uscire.
 
 
*
 
 
Come tutti i giorni percorro la strada che mi porta a casa e come tutti i giorni mi fermo all’inizio di Baker Street. Potrei attraversarla, sono anni che non lo faccio, sono anni che la povera signora Hudson mi invita a prendere un tea, ma non posso. Se non riesco a passare per quella strada, a quali forze misteriose dovrei far fede per poter tornare nel vecchio appartamento?
Non posso, non con coscienza almeno, conosco un solo modo per rivivere quei posti e lo faccio da anni, tutte le notti a modo mio.
Per l’ennesima volta mi costringo a riprendere il controllo, con fatica distolgo lo sguardo da Baker Street e mi allontano.
 
 
Arrivo a casa e, aperta la porta, subito un’altra questione irrisolta mi accoglie. È una domanda che sembra arrivare da ogni meandro buio e silenzioso del mio appartamento: perché riesci a tornare qui dopo la morte di Mary, ma non riesci nemmeno a pensare di rimettere piede al 221b? e la risposta che non lascerà mai le mie labbra è che nessun ricordo, nessuna vaga nostalgia è così prepotente da impedirmi di vivere in questo appartamento.
Come se seguissi un copione scritto, sistemo il bastone e il soprabito, tolgo anche la fascia nera, accendo il camino e poi vado in camera da letto per indossare abiti più comodi; finito vado in cucina e controllo cosa mi ha preparato oggi la gentile signora che si occupa della casa da quando sono solo: zuppa di carne e verdure. Ne prendo quel tanto che basta per sostenermi e mi accomodo nella sala da pranzo, non prima di essermi versato un cordiale.
Mangio e bevo nel più completo silenzio, fissando un punto fisso sopra il camino, dove, proprio accanto alla foto di mia moglie, c’è la vecchia pipa del mio amico insieme all’astuccio di marocchino in cui era solito tenere la siringa.
 
Sospiro colpevole, ho portato il suo ricordo anche in questa casa e poi mi chiedo perché non c’è spazio per mia moglie.
Rassegnato finisco quello che ho nel piatto, svuoto il bicchiere in un sorso e riporto in cucina le stoviglie sporche, poi, con calma torno sulla mia poltrona, mi rimetto comodo e accendo una sigaretta, questa volta fissando l’orologio per contare i minuti che mi separano dal momento in cui finalmente andrò a dormire.
Tutto sembra andare più lentamente e una parte di me vuole che tutto vada più piano per sperare che il dopo duri di più, perché il mio inconscio sa bene cosa accadrà non appena chiuderò gli occhi e non è stato facile, mi ci è voluto del tempo, ma alla fine sono riuscito a controllare i miei sogni e da due anni sogno sempre la stessa cosa e non voglio che niente cambi.
 
Aspetto che gli ultimi tizzoni si spengano e che il fumo della sigaretta si disperda prima di smorzare tutte le luci e andare in camera da letto con il primo sorriso sincero della giornata. Mi stendo e chiudo gli occhi in attesa di scivolare nel sonno.
 
“Eccomi, completamente vestito, di nuovo all’angolo di Baker Street la scruto per bene e poi inizio a camminare. C’è la solita nebbia fitta che mi fa percepire, ma non vedere completamente le altre persone intorno a me, sembrano quasi ombre che si muovono silenziosamente nella notte e anche le luci dei lampioni sembrano eteree, ma è tutto così familiare, è tutto così stranamente chiaro che niente mi preoccupa o spaventa.
Più mi avvicino al 221b, più la melodia di un violino che riempie l’aria, si fa intensa. So bene chi sta suonando, anche se non è la mia preferita, non è quella che – senza dire niente – suonava quando sapeva che avevo bisogno di essere rinfrancato, ma è comunque perfetta.
 
Arrivo alla porta che trovo come sempre aperta ed entro nell’ingresso. È buio, ma non ho bisogno di alcuna luce, conosco la strada a memoria; salgo le scale e la musica è sempre più forte, così come il battito del mio cuore, ma non corro, non affretto il passo, conosco bene ogni cosa che sta per accadere e voglio godere di ogni momento.
Arrivo all’appartamento, giro la maniglia ed entro, lui è lì che guarda fuori dalla finestra e mi dà le spalle; smette di suonare e fa scendere le braccia lungo il corpo, ma si gira solo quando chiudo la porta.
Restiamo a fissarci a lungo e in silenzio fino a che io non sussurro il suo nome: «Holmes».
Lui non risponde e non si muove, è sempre così, sono sempre io ad agire e muovermi verso di lui. Lo raggiungo, lo chiamo ancora e lui continua a ricambiare il mio sguardo in silenzio, ma si lascia toccare: prima le spalle, poi il viso e infine faccio scivolare le mani sul suo petto.
Posso sentire il suo calore e il battito del suo cuore uguale al mio, sembra così vivo e reale, ma c’è una cosa che devo sempre controllare prima di fare altro e non so perché: gli sposto la camicia quel tanto che basta per scoprire la spalla destra e cerco la cicatrice, quella lasciata dalla ferita che Moriarty gli ha inferto tre anni fa, ma niente, sembra che non ci sia mai stata, come se tutto quello che abbiamo passato in quel periodo non fosse mai esistito ed così che comprendo che tutto questo non è reale, anche se è un’esperienza sensoriale unica.
Affranto, lo guardo e lo trovo molto più vicino di quanto ricordassi. Ha lasciato cadere il violino e l’archetto e adesso le sue mani sono sui miei fianchi. Questo è un contatto che posso vivere solo in un sogno. Non voglio lasciarlo andare, ma so che presto succederà.
Sento il suo respiro caldo sulla mia guancia, non so cosa stia per accadere, non l’ho mai scoperto, ma lo desidero con ogni parte del mio corpo. Prova a sussurrare qualcosa e non appena le sue labbra si schiudono, tutto finisce.”
 
Mi sveglio di soprassalto e per poco più di un secondo dimentico dove sono so solo che fuori è ancora buio e che non ho dormito più di due ore, è sempre così, da tanto ormai.
Rimango immobile a fissare il soffitto in attesa che il respiro torni regolare. So che non dormirò ancora, non posso perché non saprei capace di rivivere il sogno precedente e non voglio rischiare di sognare altro e dimenticare queste sensazioni, preferisco passare il resto della notte a riviverle, fino all’alba, fino all’inizio di una nuova giornata che passerò in attesa della prossima notte.
 
Non è sano quello che sto facendo, lo so, sono un medico e a chiunque altro stesse conducendo un tenore di vita tale, consiglierei cure specifiche, ma io non voglio fermarmi è solo così che riesco a sentirmi ancora vivo.
 
 
 
*
 
 
 
È di nuovo sera, un’altra giornata è passata senza che io me ne sia reso conto, anche adesso no so che ora sono, ho smesso di guardare l’orologio dopo la pausa pranzo.
Oggi mi sento estremamente esausto e con il ritmo che sto tenendo capita che ci siano giornate peggiori di altre. Questa è sicuramente una di quelle. Se potessi mi addormenterei sul lettino delle visite, ma temo che con la stanchezza che ho, potrei perdere il controllo sul mio stato onirico e non posso permetterlo, poi ci sarebbero i pazienti da avvisare e non so quanta gente ci sia in sala d’aspetto, di sicuro non posso resistere a lungo, ho bisogno di uscire e respirare aria fresca.
Vado a controllare e trovo ad attendere tre persone, mi faccio coraggio e annuncio che per oggi lo studio ha finito le visite.
Le proteste che prevedevo non tardano ad arrivare, ma nonostante tutto nessuno di loro insiste o azzarda pretese e la sala si svuota in pochi secondi.
Ritorno nel mio ufficio sollevato e un po’ mi dispiace, ma ho davvero bisogno di andare via, devo fare qualcosa che mi aiuti a stare sveglio ancora per un po’; indosso il cappotto, il cappello e non appena mi abbasso per prendere il bastone, un lieve giramento di testa mi costringe ad appoggiarmi al lettino, sul quale poi mi stendo.
Non posso dormire, non adesso, devo trovare un modo per uscire, non dovrebbe essere difficile, basta alzarmi in piedi e camminare.
Ripeto queste frasi come se solo pensandole potessero avere effetto e in un certo senso credo sia così, perché senza capire come, mi ritrovo fuori, sulle scale davanti la porta dello studio.
 
Deve aver piovuto, non so quando, ma le strade sono bagnate, quindi deve essere così; c’è poca gente in giro e una leggera nebbia avvolge tutto. Nessuno sembra notare la mia presenza e mentre mi guardo in torno, tutto si muove e mi ritrovo a guardare Baker Street dal solito angolo.
È tutto chiaro. Devo essermi addormentato nel mio ufficio, non può essere altri menti, di sicuro non ho resistito, ecco perché qualche sensazione è diversa e indosso gli stessi abiti di stamattina, non mi era mai capitato di addormentarmi altrove e la mia paura di non riuscire a gestire i sogni era infondata.
 
Rincuorato e senza perdermi in ulteriori indugi, inizio a camminare verso il mio vecchio appartamento e quando sono a metà del percorso, come di consueto, la musica del violino viene a farmi compagnia, anche se stavolta non è la solita melodia, ma è la mia, quella che suonava solo per me. Sta suonando per me. È come se mi stesse chiamando. Inizio a pensare che forse sto migliorando, da esausto riesco a gestire meglio il sogno, stavolta potrei avere di più.
Affretto ancora di più il passo e raggiungo il 221b, subito vado ad aprire la porta, ma la trovo chiusa e il panico prende possesso di me, non so come risolverla. È il mio inconscio, non dovrei trovare difficoltà insormontabili. Respiro profondamente e, aiutato dalle note dolci e come se fosse la cosa più naturale, metto una mano nella tasca interna del soprabito e tiro fuori la chiave che porto sempre con me.
La infilo nella serratura, giro la maniglia e in pochi secondi sono nel solito atrio buio, solo che stavolta gli odori e tutte le sensazioni sembrano più forti, mi avvolgono, mi fanno sentire protetto. Vorrei non dovermi svegliare più, vorrei potermi soffermare e vivere appieno ogni piccola cosa, ma lo so che i minuti sono contati e con passo accelerato vado alla scala; in pochi secondi raggiungo anche la porta dell’appartamento e la apro senza trovare altre difficoltà.
 
La luce è quella che ricordavo e lui è lì davanti alla finestra. Smette di suonare quasi immediatamente, senza dimenticare di lasciar sfumare l’ultima nota e resta immobile, solo quando chiudo il resto del mondo fuori, si gira e io lo stavo aspettando.
«Holmes» sussurro muovendo qualche passo.
«Watson» sussurra anche lui.
Rimango attonito dopo che un brivido mi attraversa la schiena. Non aveva mai parlato prima di adesso. Mai.
Non fermo la mia avanzata e ripeto il suo nome aspettando che mi risponda ancora e lo fa.
«Sono qui» dice azzardando un piccolo sorriso.
Mi libero del bastone, del cappotto e del cappello, devo avere un’aria folle perché mi guarda preoccupato, ma non importa, non ho molto tempo. Non abbiamo molto tempo.
 
Senza seguire nessun passaggio fatto nei sogni precedenti, lo raggiungo e non perdo nemmeno tempo a cercare qualcosa che so di non trovare, ho finalmente imparato che devo gestire meglio tutti momenti, non voglio più svegliarmi con il rimpianto per non aver osato di più.
«Non posso indugiare ancora, tutto questo potrebbe svanire da un momento all’altro, con il mio risveglio».
La preoccupazione nel suo sguardo aumenta e sta per dire qualcosa, ma lo fermo afferrandogli il viso e chiudendo le sue labbra con le mie.
È un contatto leggero, fino a quando non sento il classico tonfo e le sue mani, adesso libere, raggiungere i miei fianchi e stringere timidamente. Non rifiuta il bacio e me ne compiaccio, anche se sono io a dover fare la maggior parte del lavoro.
 
Due anni di sforzi si racchiudono in questo momento, sono riuscito a non svegliarmi e a capire cosa desideravo tutte le altre volte. È una sensazione meravigliosa, una scena che sta per finire e che potrei non rivivere più.
 
A malincuore devo fermarmi per prendere aria, ma non mi allontano e continuo a tenere gli occhi chiusi, senza capire cosa sta succedendo.
«C’è qualcosa di sbagliato – sussurro – adesso avrei dovuto svegliarmi».
Holmes sposta la mano destra dal mio fianco per potermi toccare la fronte, forse pensa che i miei siano deliri febbricitanti. Forse ha ragione.
«Watson, sta bene?» chiede, anche lui con voce sommessa.
«Io… io non lo so più, non credo di capire quello che sta succedendo» rispondo riaprendo gli occhi e trovando i suoi a scrutarmi quasi spaventato; non riesco a reggere, a lungo, quello sguardo pieno di domande alle quali no so ancora dare risposta e abbasso la testa, così facendo mi ritrovo a guardare il suo petto e mi rendo conto che, con il braccio alzato, la camicia aperta mostra buona parte della spalla e la vedo.
«Holmes, la cicatrice. Ha la cicatrice».
Con un misto di agitazione e paura, sposto le mie mani e scanso le sue per potergli toccare la spalla. La scopro totalmente e inizio a passare le dita intorno a quei bordi irregolari.
«È sempre stata lì – dice meravigliato visto il brusco cambiamento – Watson, sono serio, lei mi preoccupa».
«No, lei non capisce, tutte le altre volte non c’era».
«Quali altre volte, di cosa sta parlando?» chiede alquanto irritato dal fatto che qualcosa possa essergli sfuggito, ma adesso non ho tempo di occuparmi di lui e del suo ego, devo capire prima io per potergli dare una spiegazione logica. Proco a concentrarmi e la consapevolezza non tarda ad arrivare.
«Lei è vivo. Questo non è un sogno» balbetto.
«Si sieda, la prego».
Lo ignoro: «io credevo di sognare».
Provo ad indietreggiare, ma mi tiene per un braccio, forse teme che io possa avere un mancamento e la cosa non è da escludere.
«Le verso qualcosa da bere, si rilassi, la sto pregando».
«Io l’ho appena baciata, Holmes!»
Il mio grido paralizza entrambi. Rimaniamo immobili, ci guardiamo, a malapena respiriamo e per la prima volta non riesco a leggere i suoi occhi. Non so cosa potrebbe dire.
«Sì, lo so e io non ho fatto niente per rifiutare, ma se vuole, se dimenticare le sarà d’aiuto, lo faremo. Le chiedo solo di sedersi e parlare con me, ha bisogno che io le spieghi».
 
Senza ribattere mi faccio guidare alla poltrona più vicina, mi accomodo e vedo lui fare lo stesso su quella di fianco, ma non gli permetto di dire altro. Ho capito le sue intenzioni, vuole raccontare, vuole farmi capire cosa sia successo alle cascate, vuole dirmi il perché non ha provato a mettersi in contatto con me prima e sono tutte cose che voglio sapere, ma non è adesso il momento.
Nel più completo silenzio e senza guardarlo, allungo una mano e afferro il suo polso: posso sentire la vena pulsare.
«Lei è vivo e non mi serve sapere altro per ora. Lei è vivo, è qui e io posso dormire».
La mia voce trema, per camuffare la commozione mi lascio andare ad una leggera risata isterica e posso distintamente sentire di nuovo i suoi occhi preoccupati su di me, ma non importa, perché io posso finalmente dormire, posso lasciarmi andare senza paura.
«Andiamo a riposare, mio caro Watson è stata una lunga notte».
Mi alzo continuando a stringergli il polso e mi imita senza chiedere niente, sa già, è sempre stato così con lui. Iniziamo a camminare in direzione della sua camera da letto come se fosse la cosa più naturale del mondo, come se non avessimo mai fatto diversamente.
 
Una lunga notte durata tre anni. Ho bisogno di chiudere gli occhi e voglio che sia il suo viso la prima cosa che vedrò al risveglio. Domani e per quel che resta della nostra vita.
   
 
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