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Autore: Calis_NB_Carpenter    27/04/2020    0 recensioni
Nel lontano Giappone, l'epoca Sengoku si è conclusa col ritorno degli Yokai, rimasti assopiti fino a quel momento e attratti dalle anime dei morti durante quel periodo sanguinario. Ora, nel 1605, l'umanità vive in un Giappone completamente diverso, dove Tokugawa Ieyasu ha riunito tutti i Clan per contrastare gli Yokai.
In questo mondo vive Genji Masamune, un discendente del famoso fabbro Okazaki Masamune, il quale ha giurato di combattere gli Yokai fino alla morte per proteggere i deboli e gli indifesi
Genere: Fantasy, Guerra, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: Raccolta | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
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«Yōkai!», gridava la gente.
   Tutti erano in preda al terrore, fuggendo disperatamente, sbraitando e urlando come dei pazzi, per allontanarsi il più possibile da quel luogo che, un tempo, era stata la loro casa.
   Era un villaggio minuscolo, con una trentina di abitanti, la maggior parte bambini, tutti contadini e allevatori. Vivevano lontano da qualunque città o luogo affollato, tanto da sembrare un villaggio nascosto. Raramente arrivavano dei viaggiatori da quelle parti e ancora meno gli stessi abitanti ad andare fuori dai confini. Lì avevano tutto quello che poteva servire: cibo, acqua, dottori, medicine, fabbri, carpentieri… tutto quello che poteva servire per ridurre al minimo l’uscita dal villaggio. Si trovava celato da un boschetto, vicino a un burrone dove, secondo la tradizione, si andava lì per pregare gli Dei. Eppure, nonostante le preghiere, gli Dei sembravano averli abbandonati.
   Quella notte, il villaggio era stato invaso, non dai briganti, ma dagli Yōkai. Questi esseri malvagi erano una piaga per questo mondo: mostri di varie forme e dimensioni che si nutrivano di carne umana e non erano mai sazi. Un tempo, tali creature erano solo parte delle leggende e molti neanche credevano alla loro esistenza, ma le cose erano ormai cambiate.
   Gli Yōkai che erano apparsi quella notte erano Oni, più precisamente Aka-Oni, mostri dalla corporatura umana, ma grandi il doppio e muscolosi, dalla pelle rossa, gli occhi dorati, i capelli bianchi o neri, zanne da belva che spuntavano fuori dalle bocche e un paio di corna sulle fronti. Molti erano armati di grosse mazze, impossibili da sollevare per un Umano, ma altri avevano delle katana o delle wakizashi o anche delle asce e alcuni indossavano armature, mentre altri stavano con un semplice gonnellino e a petto nudo.
   Il villaggio aveva dei Ronin, Samurai senza padrone, a difesa dei pericoli del mondo, ma persino loro non poterono nulla contro gli Oni. In breve tempo, erano stati massacrati e divorati vivi da quelle bestie di pura malvagità, insieme ad alcuni abitanti del villaggio. Alcuni erano riusciti a fuggire nel bosco, anche se degli Oni erano corsi al loro inseguimento, ma la maggior parte non aveva potuto fare altro che andare verso il burrone, dove avevano costruito un piccolo santuario per pregare gli Dei. La loro unica speranza era di invocare l’aiuto degli Dei per scacciare quelle creature o, per lo meno, di proteggerli dalla loro furia.
   Tuttavia, fu inutile. Nessun potere divino intervenne e gli Oni iniziarono a divorarli uno a uno. Con le donne, prima di divorarle, si divertirono a stuprarle e a strappare loro gli arti mentre erano ancora vive. In breve tempo, quel luogo sacro grondò sangue.
   A un certo punto, quando rimanevano ancora una decina di persone in vita, il vento soffiò in modo anomalo. L’aria era fresca quella notte e un venticello era stato sempre presente durante tutto il massacro, trasportando l’odore del sangue, ma quello che mosse le foglie degli alberi in quel momento… non sembrava naturale. Gli Oni percepirono quest’anomalia nel vento: come tutti gli Yōkai, avevano sensi più sviluppati degli Umani e potevano percepire l’arrivo di un temporale prima di qualunque essere vivente. Quello però non era il segno dell’arrivo di un temporale; ciò che arrivò… fu un colpo di vento che amputò il braccio di un Oni che stringeva saldamente una donna mentre la stuprava.
   L’Oni gridò per il dolore, mentre la donna si levava di dosso l’arto amputato. Lo Yōkai non perdeva sangue, ma anime. Loro divoravano gli Umani per assorbire anche le loro anime che ne riempivano il corpo, privandole del riposo eterno. Se uno Yōkai veniva ferito, erano le anime a uscire, non sangue, e queste potevano finalmente raggiungere l’aldilà.
   Vedendo il loro compagno privato del braccio, tutti gli Oni si voltarono e videro lui. Dietro l’Oni agonizzante, vi era un uomo alto, vestito con un kimono rosso scuro e con i bordi neri che s’infilava sotto l’hakama nero che a sua volta infilava sotto ai suneate che proteggevano le gambe e che si univano ai kōgake ai piedi e un obi rosso alla vita a cui erano fissate delle sacche e il fodero di una katana, mentre l’arma era stretta nelle sue mani; nel buio della notte, non si riusciva a vedere il volto.
   Presi dalla rabbia, gli Oni corsero verso l’uomo, ruggendo come le bestie quali erano, alzando le loro armi. L’uomo notò le aperture nel loro attacco e, con una rapidità quasi sovrumana, schivò ogni colpo che gli arrivò, facendo danzare la sua lama contro la carne degli Yōkai. A ogni fendente, la carne rossa degli Oni sgorgava anime e loro urlavano. Tuttavia, l’uomo non si fermò e continuò con i fendenti: taglio arti e teste e alcune volte tagliava di netto un intero corpo.
   A quel punto, un Oni che era rimasto nascosto dietro agli alberi, sbucò fuori a grande velocità, mentre l’uomo era impegnato a parare dei colpi. Allora, lui fece un gesto con le dita di una mano e sparì in una nuvola di fumo. Gli Oni si guardarono attorno, alla disperata ricerca di quell’uomo che, in breve tempo, aveva già eliminato più della metà di loro: ne restavano tre.
   Poco dopo, udirono un fruscio fra gli alberi. L’uomo si era nascosto lì ed era poi saltato sopra le loro teste, menando fendenti continui che tagliavano l’aria e anche le carni degli Oni. Gli ultimi tre rimasti, caddero a terra, fatti a pezzi dai fendenti della katana che era ricoperta da una sostanza bianca ed eterea: rimasugli delle anime che, poco dopo, si dissolsero.
   Con tutti gli Oni morti, una bambina, spaventata e in lacrime, d’istino corse verso l’uomo misterioso e si gettò fra le sue braccia, continuando a piangere e tremare.
   A quel punto, l’uomo prese la bambina in braccio e si avvicinò agli altri abitanti del villaggio. Appena si avvicinò al santuario, la luce delle candele mostrarono chiaramente i dettagli del suo volto. Aveva lunghi capelli neri che teneva legati in una coda di cavallo, una corta barba, gli occhi rossi e una cicatrice su quello destro che però ci vedeva benissimo. Aveva un’espressione seria, ma per qualche ragione mostrava un lato gentile. La bambina che sorreggeva con un braccio, mentre con l’altro teneva ancora la katana, aveva il volto appoggiato contro la sua spalla e continuava a piangere.
   Tutti i presenti lo guardavano, senza dire una parola. Non avevano mai visto nessuno riuscire a uccidere tutti quegli Oni da solo, non ci potevano credere, eppure avevano appena assistito a ciò.
   A quel punto, l’uomo si piegò sulle ginocchia, in modo da portarsi a livello dei sopravvissuti che erano ancora seduti a terra, paralizzati e poi parlò.
   «I suoi genitori sono morti?», chiese, riferendosi alla bambina.
   Nessuno parlò, ma una donna, quella che era stata stuprata dall’Oni che aveva perso il braccio per primo, indicò il corpo di una donna, o quello che ne rimaneva: restava solo la parte superiore del corpo, mentre il resto era stato divorato.
   «Ho capito», sussurrò l’uomo. Dopo di che rinfoderò la katana e portò la mano libera alla testa della bambina e le accarezzò i capelli, sorridendo.
   A quelle carezze, la piccola mostrò il volto all’uomo: aveva gli occhi verdi e lucidi per le lacrime, lunghi capelli castani che le scendevano per la schiena e un visino che, un tempo, doveva essere sempre sorridente e abbagliante.
   «Ora è tutto finito», disse l’uomo, sorridendo ancora e con uno sguardo compassionevole. «Puoi scendere ora.»
   A quelle parole, la bambina lo strinse ancora più forte. Non voleva proprio allontanarsi da lui. Si sentiva protetta fra le sue braccia e meno spaventata: temeva che gli Yōkai sarebbero tornati se lei si fosse staccata dal suo salvatore.
   L’uomo sospiro, capendo che non lo avrebbe lasciato tanto facilmente. «Va bene, puoi restare in braccio ancora un po’.» Poi si rivolse agli altri sopravvissuti. «Ora potete tornare al villaggio. Non ce ne sono più.»
   «Ne siete certo?», chiese uno degli uomini rimasti, ancora terrorizzato per l’accaduto.
   «Ho eliminato anche quelli corsi nella foresta.» La sua espressione mutò, mostrando dispiacere. «Non… non sono riuscito a salvare gli altri… mi spiace.»
   «No! Hai… hai fatto già tanto», disse ancora l’uomo terrorizzato. «Piuttosto, dovremmo ringraziarti per averci salvato. Lascia… lascia che ti ripaghiamo per il tuo gesto eroico e nobile.»
   Tutti si misero in ginocchio, come se lo stessero venerando.
   L’uomo avrebbe preferito non approfittare della loro generosità in un momento come quello, ma sapeva che non si sarebbe liberato dall’abbraccio della bambina tanto presto e allora accettò.
   A quel punto, la donna che era stata stuprata, cercando di coprirsi i morbidi seni con ciò che rimaneva del suo kimono, si fece avanti. «Chi… chi siete voi?»
   «Masamune! Genji Masamune!»
 
 
Nonostante l’attacco degli Oni, il villaggio non era stato distrutto: qualche casa era stata danneggiata e macchiate del sangue degli abitanti, ma la maggior parte erano integre. Le case erano tutte costruite con legname del bosco lì accanto e i tetti erano di paglia.
   Genji era stato ospitato in una di quelle case, dove tutti i sopravvissuti si erano radunati insieme a lui. Era seduto a gambe incrociate sul pavimento, con una scodella di riso appena preparato. Gli fu difficile mangiare con le bacchette, dato che la bambina continuava a restargli attaccata addosso. Qualcuno aveva cercato di levargliela, ma Genji li fermò: la bambina si sarebbe stancata, prima o poi.
   «Cosa vi porta qui signor Masamune?» Chiese il padrone di casa.
   «Gli Yōkai», rispose Genji, mentre svuotava la scodella. «Ho sentito che c’erano degli Yōkai in zona e sono venuto per cacciarli. Anche se… non sapevo ci fosse un villaggio qui.» Posò la scodella a terra ed era proto a ringraziare per la cena, ma una donna glie la prese e la riempì nuovamente. Gli era bastata quella scodella, ma sapeva che sarebbe stato da maleducati rifiutare e allora ringraziò la donna e riprese a mangiare.
   «Non siamo… non eravamo un villaggio conosciuto. I nostri padri avevano scelto questo posto per restare lontani dalla civiltà e dalla confusione e per molte generazioni c’è stata la pace. Ma…»
   «Con la fine dell’epoca Sengoku le cose sono cambiate», concluse Genji. «Le leggende sono diventate realtà.»
   L’uomo annuì.
   «Ci sono state battaglie qui, durante l’epoca Sengoku?»
   «No, nessun soldato, nemmeno un bandito, è mai stato qui. Per noi, le guerre fra i clan e le razzie erano problemi di un altro mondo.»
   Genji divenne pensieroso. «Insolito!», esclamò. «Solitamente, gli Yōkai restano nelle vicinanze di luoghi dove si è versato molto sangue. Non capisco perché sono apparsi qui.»
   Tutti i presenti si guardarono fra loro. Ognuno sperava che l’altro avesse una spiegazione, ma non c’era.
   A quel punto, la bambina fra le braccia di Genji allentò la presa e lui posò subito la scodella a terra e lo afferrò con entrambe le mani. La piccola si era addormentata e a guardarla non sembrava che fino a poco fa fosse terrorizzata.
   Una donna si avvicinò per prenderla e Genji glie la passò, sorridendo per ringraziarla. La portò fuori, probabilmente a casa sua per farla riposare, lasciando che gli adulti potessero parlare liberamente.
   «Siete davvero certo che non ci siano state battaglie nelle vicinanze?» chiese Genji.
   «Sicuro!», rispose il padrone di casa. «Da quando il nostro villaggio esiste, non ci sono mai state battaglie qui.»
   «E prima?»
   Nessuno rispose, non che Genji si aspettasse altro.
   «Se in questo luogo si è svolta qualche battaglia, anche secoli fa, gli Yōkai potrebbero esserne stati attratti.»
   «Anche se secoli fa?», gridò l’uomo. «Ma… come facciamo a saperlo?»
   Genji posò la scodella vuota sul pavimento, ma tenne una mano sopra per far capire che non ne voleva altro. «Domani mattina controllerò la zona, forse riuscirò a trovare qualche indizio. Mi duole chiedervelo in un momento come questo, ma… potreste ospitarmi per la notte?» Unì le mani aperte, vicino al volto, come segno di ringraziamento per il pasto e anche per la sua richiesta.
   «Ma certo!», esclamarono tutti, in particolare le donne.
   Genji li ringraziò ancora.
   Tutte le donne rimaste, quelle non maritate, si offrirono di ospitarlo, ma Genji accettò l’invito dell’uomo che l’aveva ospitato per la cena. Per quanto quelle donne fossero belle, non intendeva ricevere altro che un pasto e un tetto per la notte.
 
 
Come deciso, quella mattina Genji andò a esplorare la zona. Partì dal boschetto dove, stando alle testimonianze degli abitanti del villaggio, erano spuntati fuori gli Yōkai. Tutto quello che trovò, furono solo i corpi massacrati e in parte divorati degli abitanti fuggiti. Gli uomini del villaggio volevano recuperali, ma Genji aveva detto di aspettare il suo ritorno: potevano arrivare altri Yōkai.
   Abbandonato il boschetto, si diresse ai campi coltivati. Nemmeno lì trovo stranezze, solo piante di riso che stavano crescendo bene. Si rincuorò nel sapere che gli Oni non avevano distrutto il raccolto: il cibo non sarebbe mancato a quella povera gente.
   Andò poi al fiume, ma nemmeno lì trovò segni di antiche battaglie. Allora gli venne un sospetto.
   Andò al burrone, dove c’era il santuario. Era un normalissimo santuario artigianale e con candele ornamentali, nulla di strano. Lo osservò con attenzione e nello stesso tempo sentì qualcuno avvicinarsi.
   La donna che la notte prima era stata stuprata da un Oni, stava venendo verso di lui, con una scodella di riso tra le mani.
   «S… salve, signor Masamune!» disse lei, balbettando e facendo un leggero inchino di saluto.
   Genji ricambiò l’inchino. «Cosa vi porta qui?»
   «Ecco…» Sembrava turbata e imbarazzata. «Sono venuta a chiedere la benedizione degli Dei per…» Non concluse, limitandosi ad accarezzarsi il ventre.
   Allora Genji capì, ma, allo stesso tempo, una domanda gli balenava nella mente. «È… dell’Oni?»
   La donna annuì. «So che sarà un Han'yō, ma… spero che il suo lato umano sarà più forte di quello Yōkai. Voi… pensate che sia una sciocca?»
   «Assolutamente no!», rispose Genji. «Ho viaggiato molto e ho visto spesso donne che hanno subito il vostro stesso destino. I loro figli, anche se erano in parte Umani e in Yōkai, sembravano bambini come tutti gli altri. Se lo alleverete bene, vostro figlio sarà un brav’uomo o una brava donna.»
   La donna mostrò un’espressione sollevata e felice. Continuò ad accarezzarsi il ventre. «Anche se è stato concepito da uno stupro… io lo amerò comunque.» Detto ciò, si avvicinò al santuario, posò lì la ciotola di riso e pregò.
   Genji rimase in silenzio, rispettando quel momento, ma appena finì, gli fece un’altra domanda.
   «Per quale motivo avete costruito qui un santuario?»
   «Perché qui, secondo la leggenda, la Dea Amaterasu e il fratello Susanoo ebbero uno dei loro litigi qui e lo scontro creò questo burrone.»
   «Non ne ho mai sentito parlare.»
   «Come non avete mai sentito parlare del nostro villaggio.»
   Genji non poté ribattere, ma i suoi sospetti non svanirono. «Quindi… se ci sono segni della loro lotta, dovrebbero essere sul fondo, vero?»
   «Sì, ma…» Prima che potesse aggiungere altro, Genji era già saltato giù. Allora la donna vide qualcosa di assurdo.
   Genji correva in verticale sulle rocce, dirigendosi verso il basso. Nessun essere umano avrebbe potuto fare una cosa simile e lei si domandò se in realtà, l’uomo che si faceva chiamare Masamune, non fosse un Han’yō. Volle crederlo, sperando che il figlio che avrebbe avuto sarebbe stato proprio come il suo salvatore.
 
 
Arrivato sul fondo, atterrando con una capriola, Genji si guardò attorno. Era circondato dalla roccia e non c’era traccia di erba o altre piante. Il terreno era coperto di sassi che, solitamente, stavano sul fondo di un fiume: doveva esserci un fiume tempo fa.
   Continuando a guardarsi attorno, trovò l’ingresso di una grotta. Con la mano sull’impugnatura della katana, ancora nel fodero, entrò. Al suo interno, tutto gli fu chiaro.
   C’erano gli scheletri di decine di uomini, con addosso armature molto antiche e rovinate dal tempo. Erano molto simili fra loro, eccetto che per i simboli ornamentali su alcune di esse: alcune avevano un sole, altre una nuvola. Amaterasu era la Dea del sole, mentre Susanoo delle tempeste, quindi quelli dovevano essere loro adoratori, oppure i simboli erano solo ornamentali e non si riferivano alle divinità, ma, in ogni caso, era ormai chiaro che la leggenda su quel fantomatico litigio fra i due Dei era nata dallo scontro di queste due fazioni che ora giacevano lì, in quella grotta.
 
 
Tornato al villaggio, Genji informò tutti della sua scoperta. Purtroppo, c’era poco da fare: o se ne andavano da lì, in cerca di un nuovo posto dove stabilirsi, o restare con la consapevolezza che altri Yōkai sarebbero potuti arrivare.
   Gli abitanti ci pensarono per tutto il giorno e, alla fine, giunsero a una decisione. Avrebbero lasciato il villaggio dopo il raccolto del riso che era ormai vicino e con quello sarebbero andati a cercare un nuovo posto dove stabilirsi.
   Mentre attendevano quel giorno, Genji fu invitato a rimanere. Per gli abitanti era un piacere avere il loro salvatore ancora per un po’, ma contavano anche sulla sua protezione. Lui fu ovviamente più che felice di restare per proteggerli e nei giorni che trascorsero passò molto tempo con la bambina che gli si era avvinghiata la notte del massacro.
   Scoprì che si chiamava Chiyo e che le piaceva fare le ghirlande e giocare a nascondino. Qualche volta, Genji giocò con lei e gli altri bambini, ma faceva sempre quello che contava perché lui era troppo bravo a nascondersi, dato che conosceva le arti Shinobi per celarsi. La notte, Chiyo andava sempre a dormire con lui: gli venivano brutti incubi dalla notte del massacro, ma con Genji si sentiva al sicuro e dormiva serenamente. Lui fu più che felice di passare del tempo con lei e gli altri bambini, ma non accennò mai al fatto che, un giorno, se ne sarebbe andato.
   Preoccupato per Chiyo, chiese chi si sarebbe occupato di lei e fu rassicurato nel sapere che la donna che aspettava un Han’yō si era offerta di prenderla con sé.
   Alla fine, il giorno del raccolto arrivò e tutti, compreso Genji, si diedero da fare. Dato che la maggior parte degli abitanti era morta, il lavoro ricadde sulle spalle di quelli rimasti che si spaccarono la schiena per raccogliere tutto.
   Quando il lavoro fu terminato, tutti si prepararono per il viaggio che li attendeva, ma la strada di Genji lo avrebbe portato altrove. Chiyo pianse tutto il giorno nel sapere che Genji se ne sarebbe andato, ma ciò non cambio la decisione: aveva scelto una strada violenta e non poteva restare troppo con persone pacifiche. La piccola lo abbracciò un’ultima volta, promettendogli che, quando sarebbe diventata adulta, lo avrebbe ritrovato e lo avrebbe sposato. Genji trattenne le risate e non disse nulla: non voleva rovinare quella fantasia alla piccola, specialmente in quel momento; il tempo le avrebbe fatto capire.
   Dopo quell’addio, Genji si fermò un momento al santuario sul burrone. Lì erano stati seppelliti gli abitanti uccisi dagli Oni e volle dargli un ultimo saluto. Quel luogo non era affatto sacro come pensavano gli abitanti, ma non era importante.
   «Mi spiace di non essere riuscito a salvarvi», disse. «Che le vostre anime trovino la pace.»
   Dopo questa preghiera, Genji riprese il suo cammino. Nemmeno lui sapeva dove sarebbe andato, ma certamente in luoghi dove gli Yōkai tormentavano la gente. Un giuramento, fatto molti anni fa, gli imponeva di cercare quelle creature e lo avrebbe fatto fino alla morte.
   
 
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