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Autore: Lisaralin    28/04/2020    5 recensioni
Quando un drago decide di fare di te la sua colazione, qualcuno che accorra in tuo soccorso fa tutta la differenza del mondo.
[one shot basata su un episodio di una campagna di D&D]
Genere: Avventura, Fantasy, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'The Bard's Songs'
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Questa storia è un regalo per whitemushroom ed è ispirata a un episodio di una campagna di D&D che abbiamo giocato insieme, con protagonisti i nostri rispettivi personaggi.
L'ambientazione, tutti i nomi di luoghi e personaggi che non siano i protagonisti, nonché le vicende e le situazioni accennate sono stati ideati dal master della campagna o dagli altri giocatori del gruppo.
Ispirata a un altro episodio della stessa campagna ho scritto anche una seconda storia, Go slowly now, sands of time, sempre dal punto di vista del mio personaggio.

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All the difference in the world


Dicono che chi sta per morire riveda in pochi istanti tutte le immagini della propria vita, dalla nascita fino all’ultimo momento.
Sciocchezze.
Rivivere un’immagine dopo l’altra, in perfetta sequenza, sarebbe troppo ordinato. Troppo preciso. Nella mia testa, in quel momento estremo, c’era spazio soltanto per il caos.
Il dolore innanzitutto, a ondate lancinanti, che gridava da parti del corpo che non sapevo nemmeno di avere. La sensazione di compressione sulla gabbia toracica e il respiro strangolato nella gola. Come se la zampa enorme di un drago mi avesse spiaccicato a terra, con la stessa noncuranza con cui si schiaccia un insetto fastidioso.
Ovvero esattamente quello che stava succedendo.
I ruggiti del mostro sovrastavano il bosco, insieme allo schianto terribile della sua coda che frustava i tronchi degli alberi, spargendo una pioggia di rami e schegge sulla radura. Volevo gridare, ma i miei polmoni bruciavano, impotenti. Provavo ad aprire la bocca, ma invece di aria mi invadeva il palato solo il sapore acre di polvere e terriccio. Cercavo di contorcermi, ma solo l’avambraccio sinistro rispondeva debolmente ai miei comandi, l’unica parte oltre alla testa che non fosse coperta dalla zampa della creatura. Il resto di me era affastellato disordinatamente tra un artiglio e l’altro come i pezzi di una marionetta rotta.
Con la guancia premuta contro il terreno, il mio campo visivo era ridotto a pochi frammenti confusi. Il baluginare delle scaglie di cristallo della bestia, e uno dei suoi enormi artigli, conficcato nel terreno a pochi centimetri dalla mia spalla. Ho detto che nella mia testa c’era solo caos, ma quel particolare lo distinguevo lucidamente, vivido e gigantesco come se la lente d’ingrandimento del mio cervello avesse deciso di inquadrare unicamente quello. Se il drago si fosse spostato di appena un respiro, il suo artiglio mi avrebbe squarciato la gola all’istante.
Le voci dei miei compagni rimbalzavano lontane, da una direzione che non riuscivo a individuare. Speravo che almeno loro riuscissero a fuggire, a mettersi in salvo. Ancora più fortemente, speravo che non mi abbandonassero lì a morire come una zanzara spiaccicata.
Sono quasi certo di aver udito il sibilo di una lama sguainata, seguito dal clangore di ferro che si abbatte contro una superficie di cristallo per poi venire respinto con un rimbombo come di campane stonate. Le imprecazioni di Freki, per un attimo, sovrastarono persino i ruggiti del mostro.
La massa che mi opprimeva si spostò appena, non abbastanza da permettermi di scivolare via da sotto gli artigli, ma quanto bastava per regalarmi una preziosa boccata d’aria, anche se il prezzo da pagare per quel sollievo insperato fu l’ennesima sferzata di fitte doloranti. Credo di aver iniziato a urlare una sfilza di suppliche incoerenti e poco dignitose, anche se non so bene a chi fossero rivolte.
Un suono gutturale e cavernoso riempì la radura. Sentii le ali del drago agitarsi e schiaffeggiarmi con le ondate di vento sollevate. Per un istante sperai che il bastardo si decidesse a spiccare il volo e lasciarmi perdere, ma stava solo inarcando il dorso per soffiare. Udii confusamente il grido di Freki, e pregai che fosse di rabbia e frustrazione e non di dolore.
Sapevo solo di stare per morire.
Con ogni millimetro del corpo che gridava di agonia non avvertii subito la stretta intorno al polso. Me ne accorsi perché il cervello non riusciva a elaborare quella sensazione inequivocabilmente fuori posto, un tocco delicato ma deciso, che irradiava calore. Un calore gentile che in poco tempo si propagò per tutto il corpo, come un abbraccio liquido che si frapponeva tra me e gli artigli di cristallo. Il dolore si stemperò, diluito in quell’improvvisa ondata di sollievo. Una litania di parole incomprensibili mi galleggiava intorno, attutendo qualsiasi altro suono.
Con enorme fatica voltai il collo di un paio di spanne e una mano, stretta intorno al mio braccio, invase il mio campo visivo. Sollevai lo sguardo, lasciandomi sfuggire un gemito tra i denti.
Querquen mi stava curando.
Inginocchiato sul terreno, il suo sguardo era fisso su di me, le sopracciglia aggrottate nella concentrazione dell’incantesimo. Un’ala del drago frustava l’aria a pochi centimetri dalla sua testa ma lui sembrava non accorgersene, intento a profondere tutto se stesso nella magia di guarigione.
Avrei voluto gridargli di correre via. Dirgli che era un pazzo ad avvicinarsi così tanto, di approfittare, finché era libero di muoversi, per allontanarsi il più rapidamente possibile. Di salvarsi, almeno lui che poteva.
Invece tutto ciò che riuscii a blaterare fu: “Non lasciarmi ti prego!”
Per sua fortuna, la testa della creatura era impegnata nella direzione opposta. Dalla mia posizione precaria vedevo il suo collo saettare come una serpe all’attacco, probabilmente distratto dagli assalti di Freki.
“Non canterò mai più in tutta la mia vita ma per favore non lasciarmi!”
“Non dire sciocchezze!”
La presa del sacerdote si strinse proprio mentre il peso sulla mia schiena si spostava ancora ed ebbi l’orribile sensazione di sentirmi rimbombare nelle orecchie il rumore delle mie stesse ossa che si sbriciolavano inesorabilmente. La spalla destra esplose come se un mago mi avesse poggiato la mano direttamente contro la pelle e vi avesse scagliato dentro una raffica di dardi incantati.
Urlai, ma la magia curativa mi impedì di perdere i sensi. La sentii lottare, avvinghiarsi intorno a me quasi con ferocia, come se Querquen stesse ingaggiando una gara di braccio di ferro per strapparmi dalle grinfie del drago.
Non aveva alcuna speranza di vittoria. Vedevo la sua fronte imperlarsi di sudore, il suo viso impallidire sempre di più mentre pronunciava le parole dell’incantesimo con rabbia crescente, sputandole una ad una tra i denti. Non avevo spazio per sgusciare via da quella trappola infernale, e neanche con tutta la sua magia divina Querquen avrebbe potuto sollevare gli artigli di un drago, o anche solo causargli dolore.
Eppure il sacerdote non arretrava, non allentava la presa sul mio polso.
Gli occhi mi si riempirono di lacrime e li serrai, concentrandomi unicamente sulla sensazione di calore, cercando di escludere dalla mia coscienza qualsiasi impulso esterno che non fosse il flusso di energia magica che mi legava al sacerdote. Forse avrebbe solo prolungato le mie sofferenze, ma almeno… almeno non sarei morto da solo, senza nessuna presenza amica accanto.
In quel momento, mi pareva una grazia per cui valesse la pena ringraziare in ginocchio.
“Per favore… “ gemetti, ma non sapevo più chi o che cosa stessi pregando.
Querquen, invece, sembrò decidere in quel momento che invocare le divinità fosse una causa persa e una perdita di tempo.
“Tanah puttana!”
Ciò che accadde dopo mi convinse che forse aveva davvero ragione lui, e con gli dèi conviene farsi desiderare, come quando si cerca di riconquistare un amante fingendosi offesi. Spalancai gli occhi, colpito dalla sua esclamazione, e in quel momento il peso svanì di colpo dalle mie spalle e mi sentii improvvisamente leggero, di nuovo libero di muovermi.
Il drago ruggì di nuovo, ma stavolta il suono aveva una qualità acuta, come decine di lame che stridevano senza successo contro la superficie di un’armatura indistruttibile. Percepii confusamente una serie di lampi luminosi ai margini del mio campo visivo, mischiati alle grida di una voce che non riconoscevo e che non apparteneva ai miei compagni.
Ingoiando lacrime di dolore rivolsi a fatica il viso verso l’alto.
Una serie di folate di vento spazzò la radura, e per un attimo le fronde degli alberi furono ricoperte da un’ala trasparente, che rifranse i raggi del sole in una miriade di piccole scintille di cristallo colorato. Querquen mi trascinò via, ed entrambi rotolammo tra le foglie secche e gli arbusti del sottobosco mentre il drago, con un ultimo ruggito raccapricciante, si alzava in volo facendo crollare una pioggia di rami e aghi di pino sulle nostre teste.
Lo osservammo rimpicciolirsi fino a ridursi a una piccola stella. Poi anche quella fu inghiottita dall’azzurro del cielo primaverile.
Mi accorsi di essermi aggrappato al braccio del sacerdote con tutta la forza che mi rimaneva, incurante dei suoi brontolii di protesta. Attraverso il velo di lacrime che ancora mi appannava gli occhi scorsi Freki correre verso di noi, con il fiato corto e il viso stravolto, ma sana e salva. Stringeva ancora tra le mani l’elsa della misteriosa Spada della Torre del Nord.
Non avevo idea di cosa fosse successo o chi avesse messo in fuga il drago di cristallo e come, ma mi sembrò il momento perfetto per perdere i sensi.
 
 
Mancavano un paio d’ore al tramonto.
Dopo che il drago aveva lasciato la scena, il bosco si era riappropriato a poco a poco della sua quiete. Gli uccelli avevano ripreso a cantare. Una brezza lieve, piacevole, mi accarezzava il viso e muoveva dolcemente le fronde. L’erba aveva il profumo della primavera.
Qualcosa, però, era cambiato. Io e quella pacifica radura sperduta tra gli alberi avevamo qualcosa in comune, adesso: condividevamo le cicatrici di un incontro indesiderato. Nel caso del bosco si trattava di rami spezzati, arbusti sventrati e violenti solchi scavati sul terreno. Nel mio invece...
“C’è almeno un osso che non si sia polverizzato?”
Seduto a gambe incrociate sul mio sacco a pelo (gli zaini con il nostro equipaggiamento se l’erano cavata molto meglio delle mie ossa) tenevo lo sguardo fisso verso il basso, o meglio sulle mie unghie, drammaticamente spezzate e sporche di sangue rappreso. Non ricordavo quel particolare, ma evidentemente le avevo affondate nel terreno nel patetico tentativo di divincolarmi dalla morsa del drago.
“La maggior parte, oserei dire. Nel caso contrario saresti morto.” Dietro di me, sentii Querquen sbuffare e borbottare qualcosa di indefinibile tra i denti. Attraverso la sua mano, poggiata sulla spalla che il drago mi aveva sfracellato spostandosi, il calore della magia curativa fluiva ininterrottamente, risanando a poco a poco le ferite.
Non aveva tutti i torti ad essere infastidito. Ammetto che mi stavo lagnando da almeno mezz’ora. Ma cercate di capirmi, uno avrà pure il diritto di lamentarsi un po’ dopo essersi sentito sulla faccia il fiato gelido della morte, giusto?
Il dolore, grazie a una sbobba amara che il sacerdote mi aveva fatto trangugiare a forza, si era sopito. Se prima somigliava a un’eruzione vulcanica, adesso la lava scorreva quieta sotto la superficie, prorompendo fuori dalle crepe solo in presenza di una scossa improvvisa. Ovvero ad ogni mio minimo movimento incauto.
“Ahia!”
Alle mie spalle, un profondo sospiro. “Non capisco cosa ti sfugga del concetto di ‘stare fermi’.”
“Sono un essere umano, non una statua” gemetti.
Serrai le palpebre e mi morsi l’interno del palato, resistendo a fatica all’impulso di massaggiarmi il collo che avevo avventatamente provato a girare di qualche centimetro. Invidiai da morire Freki, raggomitolata nella sua coperta a pochi metri da noi e beatamente sprofondata nel sonno.
“Le costole si risalderanno in qualche ora, ma devi muoverti il meno possibile. Per la spalla potrebbe volerci un po’ di più. Ma tornerai come nuovo, te lo garantisco.”
L’improvvisa sensazione di qualcosa di morbido e fresco sulla pelle mi fece sussultare inavvertitamente, provocando fitte di dolore che dalla spalla si propagarono per tutto il braccio sinistro e il busto, strappandomi l’ennesimo lamento. Un profumo intenso di erbe medicinali si fece strada fino alle mie narici.
“Per gli ematomi” spiegò Querquen nel solito tono secco. Spesso avevo l’impressione che le parole uscissero a fatica dalla sua bocca, come se lui facesse di tutto per trattenerle fino all’ultimo e quelle sgusciassero via per il rotto della cuffia, infilandosi con acrobazie da contorsionista attraverso la fenditura tra i denti.
Se la voce era brusca, però, le sue mani raccontavano tutt’altra storia. Quasi non sentivo il tocco delle sue dita mentre applicava l’unguento, partendo dalla spalla martoriata e soffermandosi poi su ogni punto dolorante della schiena. E dire che bastava un soffio di vento più forte del normale per farmi stringere i denti dal dolore.
“Grazie” mormorai. “Mi sa che ci dovrò fare il bagno dentro questa roba. Almeno ha un buon profumo.”
Quando mi ero sfilato la camicia ormai ridotta a un cencio per poco non ero svenuto di nuovo alla vista di tutti i graffi e le macchie violacee che mi tappezzavano il petto e le braccia. La mia pelle si era trasformata nella tela raccapricciante di un artista pazzo. Non riuscivo a girare il collo, ma immaginavo che anche la schiena fosse percorsa da una pittoresca costellazione di lividi.
“Credi che… “ la domanda rimase sospesa tra le ombre quiete del bosco. Non avevo ancora trovato il coraggio di formularla. Un po’ perché temevo la risposta, un po’ perché mi vergognavo di nutrire una preoccupazione così sciocca, quando neanche un’ora prima eravamo scampati miracolosamente alla morte e appreso di essere ricercati per alto tradimento da tutte le più alte gerarchie di Toremoth.
“Sì. Spariranno tutti” rispose Querquen, che in qualche modo aveva capito. “Forse rimarrà una lieve cicatrice sulla spalla. Ma nulla di tragico. La tua bellezza è salva.”
Malgrado il sarcasmo dell’ultima frase non potei fare a meno di esalare un sospiro di sollievo.
“Grazie. Davvero.”
“È il mio lavoro” rispose semplicemente. Aveva iniziato a srotolare delle bende e a coprire i punti dove aveva applicato l’unguento di erbe, avvolgendo pian piano le strisce di stoffa intorno alle braccia e al busto.
“Sono pronto alla trasformazione in mummia!” tentai di scherzare. Poi, vedendo che il sacerdote non reagiva in alcun modo alla patetica battuta (comprendetemi, ero davvero sottotono), cercai di riportare la conversazione sull’argomento precedente. Parlare mi aiutava a non focalizzarmi sui muscoli doloranti e le ossa a pezzi. E poi, non sono mai stato bravo a sopportare i silenzi troppo lunghi.
“Il grazie non è soltanto per le cure. Che sono graditissime, precisiamo. Ma, insomma… mi hai salvato la vita, poco fa.”
Erano state le prime parole che avevo farfugliato appena riaperti gli occhi dopo lo scontro, disteso su una coperta con ogni millimetro di pelle che bruciava per il dolore e la mano stritolata nella stretta apprensiva di Freki. Mi sembrava soltanto doveroso ripeterle adesso che avevo riguadagnato un minimo di lucidità.
“Io non ho fatto proprio nulla. È stato Cortis a mettere in fuga il drago.”
Annuii, facendo istintivamente correre lo sguardo tra gli arbusti del sottobosco. Il divinatore non si vedeva da nessuna parte. Era andato a cercare Furla, fuggita in preda al panico all’apparizione della bestia di cristallo, ma prima di allontanarsi ci aveva garantito che saremmo stati al sicuro nella radura, protetti da occhi e orecchie indiscrete grazie alla barriera impalpabile della sua magia.
Il pensiero di Furla generò una fitta dolorosa che non aveva nulla che fare con le ferite del mio corpo martoriato. Pregai che la nostra amica licantropa e i suoi cuccioli fossero sani e salvi.
“L’arrivo di Cortis è stato provvidenziale” concessi. “Ma ancora prima sei stato tu a buttarti tra gli artigli del drago per curarmi.”
La benda smise per un attimo di avvolgersi intorno al mio braccio sinistro, ed ebbi l’impressione che le dita del sacerdote stessero stringendo la stoffa bianca con più forza del dovuto.
“Te l’ho detto. Facevo soltanto il mio lavoro. E comunque non ha fatto alcuna differenza.”
La rabbia nella sua voce era evidente adesso. Cercai di puntellarmi con una mano sul terreno per cambiare posizione e riuscire a guardarlo in faccia (tutti i muscoli che non sapevo di avere gridarono all’unisono in protesta), ma lui scelse proprio quel momento per ritirarsi ancora di più alle mie spalle e mettersi a scartabellare nello zaino con l’attrezzatura da guaritore.
“Puoi rivestirti” disse dopo una breve pausa. “Cerca di riposare per qualche ora.”
La camicia ormai era utilizzabile al massimo come straccio per pulire i pavimenti, ma fortunatamente avevo ancora qualche cambio nello zaino. Infilarne una nuova, con le braccia doloranti e le bende che limitavano i movimenti, fu un’impresa più o meno paragonabile al duello contro il drago. Non abbastanza ardua però da distogliermi dal palese tentativo di Querquen di troncare il discorso.
“L’ha fatta eccome, la differenza” finalmente ero riuscito a mettermi seduto in modo da poter guardare nella sua direzione. “Almeno per me.”
Stava finendo di sistemare il vasetto di unguento e le bende inutilizzate nello zaino, ma i suoi movimenti erano bruschi adesso, ben diversi da quelli delicati e attenti con cui si era preso cura delle mie ferite. Il suo sguardo… diciamo che raramente lo avevo visto sorridere (mai, a pensarci bene), e io e Freki eravamo convinti che fosse capace di una sola espressione (quella che ti giudica inesorabilmente), ma stavolta vere e proprie nubi di tempesta si addensavano sulla sua fronte accigliata, e la linea della mandibola, sotto la barba ben curata, era rigida e serrata come quella di una statua.
In qualche modo, però, malgrado le mie lamentele e le battute da due soldi, sentivo che la sua rabbia non era diretta contro di me.
“Nessuno di noi tre aveva la minima possibilità contro quel mostro” continuai, nel tono più gentile che seppi trovare. “Neanche Freki con la sua spada che ha bandito una banshee e terrorizzato due demoni. Ma voi due sareste potuti scappare, e non lo avete fatto. E tu mi sei rimasto vicino, anche se…”
“... non è servito a nulla” terminò lui con disprezzo.
Non mi capacitavo che non lo capisse. Eppure era così dannatamente ovvio.
“È proprio questo che ha fatto la differenza.”
Mi fissò come se la mia stessa esistenza contravvenisse a tutte le leggi della natura, e io lasciai alle mie parole il tempo di scendere in profondità. Di raggiungerlo oltre il muro della sua rabbia irragionevole.
Querquen aveva abbandonato lo zaino in un angolo e ora sedeva con la schiena appoggiata al tronco di un pino, pallido ed esausto. Anche lui doveva essere stremato dallo scontro, ma al contrario di me e di Freki non aveva avuto il lusso di potersi riposare dopo che il drago era volato via. Non avevo idea di quanti incantesimi avesse consumato solo per tenermi in vita. Di sicuro abbastanza da prosciugargli ogni energia.
“Qualsiasi sacerdote avrebbe agito come ho fatto io” disse infine, in tono più calmo.
“Non credo proprio” soffocai una risatina (errore fatale, perché i miei polmoni gemettero e si contrassero come sacchi di allenamento percossi da un pugile). “Te ne potrei nominare almeno un paio che a quest’ora sarebbero già a Valamar, per quanto sarebbero corsi via veloci.”
Sbuffò. “Non sono veri sacerdoti, allora. Il nostro voto non è una sciocchezza, non sono quattro parole imbastite per fare bella figura durante una cerimonia. La nostra vita è consacrata alla protezione e alla cura degli altri.” Mi guardò e nei suoi occhi scuri, sotto le braci mai spente della rabbia, trapelava adesso un autentico dispiacere. “Tu e Freki siete sotto la mia responsabilità. E io ho fallito nel mio dovere di proteggervi.”
Se fosse stato uno dei miei amici di una vita, a questo punto avrei tentativo di alleggerire la situazione con la prima sciocchezza che mi fosse venuta in mente. Qualcosa come “non mi risulta che i voti di un chierico contemplino il suicidio tra le fauci di un drago”, oppure “sbaglio o eravamo io e Freki ad aver ricevuto l’ordine di scortare te”, ma mi trattenni prima che una qualsiasi di queste idiozie mi sfuggisse dalle labbra.
Frena la lingua, stupido menestrello sconsiderato, pensai. Anche se il suo ragionamento mi sembrava insensato intuivo che doveva essergli costato non poco arrivare a fare quell’affermazione davanti a me. Non avevo il diritto di calpestare qualcosa in cui credeva così profondamente… anche se non riuscivo a condividerlo.
“In questo caso… abbiamo fallito tutti, suppongo” dissi, dopo aver riflettuto un po’. “Perciò non devi portarne il peso da solo. E finché siamo ancora vivi abbiamo sempre la possibilità di rimediare. Di fare meglio. Tutti insieme.”
Considerai se aggiungere qualcos’altro. Se dirgli che avevo fiducia in lui. O che la sua presenza al nostro fianco mi faceva sentire più sicuro. Oppure che, malgrado non gli perdonassi di essere un vecchio insopportabile che non apprezzava le mie canzoni, avevo ammirato la sua saldezza d’animo di fronte ai demoni all’avamposto di confine, quando persino il mio cuore e quello di Freki avevano vacillato. O che lo stimavo per il suo sermone vibrante di vita davanti agli apatici secondini della Fossa delle Stelle (anche se era un sermone finto nel corso di una messa finta per dissimulare una serie di incantesimi di rivelazione del vero, ma questa è un’altra storia, e la sostanza non cambia).
Distrattamente accarezzai una manciata di fili d’erba con il palmo della mano. Il cielo si era colorato di arancione e di rosa e la luce cominciava a scivolare via a poco a poco dalla radura. Iniziava a fare fresco, e rabbrividendo raccolsi la coperta e me la avvolsi intorno alle spalle.
Alla fine decisi di non dire nulla. Persino un bardo, talvolta, è capace di comprendere il valore del silenzio.
Ne fui ricompensato.
“Grazie… suppongo.”
Sorrisi. “Però non ti libererai facilmente della mia gratitudine. Ormai ti tocca tenertela.”
“Ho sopportato di peggio” fece lui, stoico. “Adesso però vedi di riposare. Dopo non voglio sentire lagne su quanto sei esausto.”
“Agli ordini.” Mi sistemai nel sacco a pelo e tirai su la coperta fino al naso. Se pensavo che sarebbe stato difficile addormentarmi con tutti i dolori e le ossa ancora da saldare, mi sbagliavo di grosso. Scivolai nel sonno non appena sfiorai il giaciglio con la testa.
  
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