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Autore: wanderingheath    30/04/2020    1 recensioni
Al suo secondo incarico da detective, Nathaniel Blake – recentemente distintosi nella Divisione Investigativa grazie al proprio acume – si trova incastrato in una rete di omicidi, destinata ad ampliarsi nella Chicago di inizio millennio.
Una serie di morti slegate getta la polizia nel caos e Nathan, incaricato di risolvere il caso sotto la supervisione di Fisher, si vede affiancata una detective eccezionalmente giovane, fresca di promozione, di sicuro intralcio per le indagini. Contrariamente alle aspettative, la nuova partner si rivela dotata di un’incredibile perspicacia e conserva qualche asso nella manica, istigando subito una dura – e non sempre pulita – competizione con Blake.
Mentre il killer continua a colpire in diversi punti della città, Nate, investigando sul passato della propria collega, scoprirà che la giovane nasconde più di uno scheletro nell’armadio: dei nodi insoluti la riportano alla città natia, dove una promessa in punto di morte ed un Re di Cuori la reclamano da tempo.
Genere: Azione, Drammatico, Mistero | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
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Prologo
 
 
Chicago, novembre 2003
 
 
 
 
 
C’era qualcosa di affascinante nel passaggio dal buio più completo alla luce solare.
Il momento esatto in cui la Red Line, lasciatasi alle spalle la stazione di Roosevelt, usciva dall’interminabile e magnetica galleria di curve e rettilinei, per sboccare nella libertà dell’aria aperta, nel rettangolo luminoso che denotava il termine del percorso sotterraneo, stordiva sempre.
Quello era l’unico vero motivo per cui si ostinava, di tanto in tanto, a preferire la metropolitana di Chicago alla sua fenomenale, imbattibile Lincoln LS di ultima generazione.
Non che il paesaggio, dal finestrino incrostato della metro, fosse granché. L’interminabile pitone di ferraglia continuava a snodarsi sotto gli osservatori, guidando dolcemente la vettura lungo il proprio tracciato.
E, passata Chinatown, non migliorava affatto, schiacciato da ponti e sopraelevate, infilzato da pali elettrici, infossato negli sporadici guard-rail, fino alla sua destinazione: Garfield.
Era pur sempre il South Side, cosa si aspettava?
Per uno come lui, che teneva al controllo e all’autocontrollo, rinunciare alla guida dell’adorata Lincoln in cambio della molle culla della metro era un affronto; eppure, delle volte, gli piaceva cedere e lasciarsi trasportare dalle arterie della città.
Quella era una di quelle volte.
Seduto compostamente nel vagone semivuoto, il ciuffo a ricadergli sul volto appoggiato al finestrino – unico passeggero con un cappotto Cashmere che osasse scendere i gradini che conducevano alla banchina di Lake –  Nathaniel Blake rimuginava sullo straordinario pranzo che gli era stato offerto diverse ore prima.
Era risaputo che al Dottor Bombay piacesse la buona compagnia, il buon vino e un’ottima vista a volo d’uccello sulla città: ovunque andasse, anche se per pochi giorni, si assicurava di alloggiare nelle migliori strutture alberghiere. Ciò che Nathan aveva dimenticato dalla sua ultima visita era quanto adorasse conversare. Lo aveva trattenuto nel ristorante per almeno tre ore, poi un’altra abbondante nella lunga passeggiata di piacere nella zona centrale del Loop, un paio per una visita al museo ed infine altre due per congedarsi.
La conversazione aveva risucchiato la sua attenzione, non appena il Dottor Bombay – vecchio amico di suo padre – aveva iniziato a tessere le lodi del “migliore giovane detective di cui la città disponga”.
Proprio così aveva detto: il migliore.
Ma no, certo che no, si era affrettato a ricusare lui, quale migliore… al massimo, uno molto fortunato.
Il Dottor Bombay gli aveva scoccato un’occhiata di rimprovero con quel paio di occhietti da facocero. Dietro i fondi di bottiglia che portava al posto degli occhiali, quegli occhi scomparivano quasi del tutto, assorbiti dal resto del volto gonfiato a dismisura.
«Nathan, non ci raccontiamo baggianate.»
Anche quello aveva detto: baggianate. Sembrava avere una vera repulsione per le imprecazioni, Bombay; un temperamento che lui, abitante autoctono di Chicago, non riusciva a comprendere o scusare.
Comunque, gli aveva offerto un pasto con i fiocchi e quello bastava a mandarglielo a genio.
Ovvio che non ci credesse a quelle “baggianate”, rifletteva Nathaniel scattando verso l’uscita, non appena le porte del vagone si aprirono.
Quante possibilità c’erano di arrivare alla sua età a ricoprire una posizione di così alto livello?
Poche, veramente poche, se non nulle.
L’aveva riconosciuto perfino suo padre, quando alla cerimonia successiva alla risoluzione del suo primo caso da detective, gli aveva afferrato la mano con la solita stretta vigorosa e gli aveva sussurrato: «Ben fatto».
Era valso più di tutte le conferenze stampa, più di tutte le interviste di colleghi e amici del dipartimento, più della gratificazione di Fisher. Forse persino più del ringraziamento della donna che era riuscito a salvare da morte certa.
Certo che era stato bravo, dannazione. Certo che era il migliore.
Un altro, al suo posto, non avrebbe avuto la stessa tempestività, lo stesso acume, la stessa lucida freddezza nel trattare direttamente con l’assassino.
L’insegna turchese del Chicago Police Department lo accolse anche quella sera con il sorriso della segretaria, Stephanie, e il familiare cigolio del portone che si richiudeva alle sue spalle.
«Come va, Nate?»
Le consentiva di dargli del tu, un po’ per la notevole differenza d’età – avrebbe tranquillamente potuto essere sua madre – un po’ perché il benevolo sorriso di Stephanie convinceva chiunque ad entrare in confidenza.
«Non c’è male, non c’è male.»
Nathaniel si sporse con il busto oltre il bancone a mezzaluna dell’ingresso.
Incastrata tra telefono e monitor del computer, una scatola dal coperchio sollevato rivelava un paio di ciambelle. Le dita grassocce di Stephanie, inzaccherate di glassa, picchiettavano sulla tastiera.
«Turno di notte.»
Nathan annuì: «Qualcuno deve pur lavorare, qui dentro».
L’altra lo raggelò con un’occhiata, premendo invio. Il rumore di fax, nella stanza attigua, faceva da tappeto sonoro all’intero piano, che per il resto sembrava quasi morto a quell’ora.
«La fama ti ha dato alla testa?»
«Ma no, madame, semmai me l’ha rimessa sulle spalle.»
E, mimato un colpo di pistola tra pollice e indice, si spostò nell’ufficio ai piani superiori.
Larkin era già arrivato; lindo nella sua camicia bianca, se ne stava davanti al distributore del caffè in attesa che la macchinetta erogasse la sua bevanda preferita. Lo salutò con un debole pugno sulla spalla.
Sulla scrivania, in corrispondenza della sua postazione, sopra al consueto strato di polvere, qualcuno aveva poggiato un paio di scatoloni per metà vuoti.
Nathan, liberatosi della giacca, non poté trattenersi dal gettarvi una rapida occhiata.
Un’agendina in similpelle, una cornice fotografica vuota, un plico di fogli pinzati e un fermacarte a forma di ranocchio: cosa doveva significare?
La targhetta con un nuovo nome scintillante in primo piano, la notò solo in un secondo momento.
L’aveva appena sollevata, per poterne leggere meglio l’iscrizione, quando la voce di Fisher in persona lo fece sobbalzare.
«Ah, Blake, perspicace come sempre», lo apostrofò accennando alla targhetta identificativa. «Vedo che hai già scoperto la novità della serata.»
«Signore, cercavo di capire di cosa si trattasse.»
Il detective Jack Fisher, nel suo metro e ottantasei di serietà ed eleganza, si era piazzato davanti alla scrivania, spezzando il getto di luce proveniente dalla porta aperta.
Un’altra figura, più minuta e smilza, lo raggiunse in pochi passi. La camicia azzurrina che indossava lasciava intravedere un’ossatura sottile, affatto robusta.
Una ragazza che mai aveva visto prima, all’interno del dipartimento, se ne stava proprio lì, accanto al posto che un tempo era stato di Jim Quartella.
Lo avevano congedato qualche mese prima, aveva maturato l’anzianità sufficiente per la pensione. Tutti nella struttura avevano tirato un collettivo sospiro di sollievo nel vederlo uscire dal distretto con i propri effetti: era diventato ingestibile con le sue manie di persecuzione e l’incapacità di svolgere le mansioni essenziali per il suo ruolo. In poche parole, un pericolo pubblico.
Da quando aveva abbandonato la propria sedia girevole, nessuno aveva osato parlare di un rimpiazzo.
Gli occhi di Nathan scattarono dall’una all’altra figura, senza trovare requie. Tutto ciò non preannunciava nulla di buono.
«Blake, ho il piacere di presentarti la tua nuova partner.»
No, c’era un errore.
Doveva trattarsi necessariamente di un errore.
«Da poco promossa a detective, un elemento davvero prezioso. Sono sicuro che vi troverete benissimo, siete entrambi dei lavoratori instancabili.»
Una… partner?
Ma lui era il partner. Da qualche anno, era lui la new entry della loro Divisione Investigativa; lui era divenuto il partner di Fisher, il rampollo d’oro del suo mentore, da guidare ed istruire d’accordo, ma pur sempre da tenere in primo piano.
Si sentì sgretolare il pavimento direttamente sotto alle suole delle scarpe.
«Cassidy Hope», terminò la detective, tendendogli la mano.
Nathaniel rimase a fissarla sbigottito, come se gli avesse appena proposto di compiere una carneficina lì sul posto.
Poi, rivolto al più anziano: «Signore, posso parlarle un momento?»
Larkin entrò di corsa nell’ufficio, affannato e telefono alla mano, con il ricevitore bloccato contro il petto.
Una chiamata urgente, proveniente da East Garfield Park: una donna che sosteneva di aver sentito delle urla e dei colpi d’arma da fuoco nel vicinato. La pattuglia affidata alla sorveglianza del quartiere era momentaneamente non in servizio per un malessere di un’agente.
Fisher richiamò all’istante Scout Graves dalla stanza accanto, tutto rapito da un gioco sul computer.
«Graves, prendi la chiamata. Blake, Larkin e Hope vi voglio sul posto in meno di dieci minuti.»
Prima che uno di loro potesse replicare, il detective più anziano si accostò a Nathaniel: «Blake, di qualunque cosa si trattasse, temo che dovrà attendere».
 
 
Sul luogo, trovarono una donna sulla quarantina, stretta in uno scialle sfilacciato, che in piedi sulla soglia di casa continuava a sostenere che quelli che aveva udito erano senza ombra di dubbio degli spari.
Anche davanti all’evidenza, si ostinava a negare.
A Nathan costò uno sforzo sovrumano mantenersi calmo: «Signora, le ricordo che si tratta di un reato. Procurato allarme».
«Le dico che ho sentito uno sparo
«E io le ribadisco che dei petardi non sono equiparabili a una scarica di proiettili!»
L’altra borbottò qualcosa su come i poliziotti fossero tutti dei palloni gonfiati, gettando benzina sull’indignazione crescente. Nathan sentiva il sangue bollente, le vene premere incessantemente nelle tempie, sui polsi, sul collo. Se solo quella dannatissima agente non si fosse sentita male, avrebbe evitato loro un viaggio a vuoto, oltretutto a sirene spiegate. L’unica vettura della polizia che fendeva il silenzio di Garfield Park di notte.
Non erano questioni che spettassero ad un detective, quelle. Con sciocchezze del genere aveva dovuto fare i conti anni prima e un’infinità di volte: falsi allarmi che si risolvevano in un nulla di fatto. Li detestava.
Larkin stava ancora provando a ragionare con la testimone, quando lui gettò la spugna e, mandatala al diavolo, si avvicinò all’auto volante, posteggiata lì vicino.
Prese a fare avanti e retro sull’asfalto umido di pioggia. Non riusciva a decidersi ad entrare in macchina, perché la novellina – si rifiutava di considerarla una collega – occupava il sedile del passeggero, intenta a consultare una mappa dei distretti.
Probabilmente non era nemmeno di Chicago.
Ma come era saltato in mente a Fisher di affiancargli una ragazzina?
Perché di quello doveva trattarsi, a giudicare dalla frangetta che le copriva metà fronte, dai lineamenti spigolosi e dalle quantità ridotte, ma frettolose e inesperte, di trucco applicato al viso, tipiche di chi sia appena uscito da una prolungata fase adolescenziale.
Alla fine, a convincerlo fu il fruscio dell’autoradio da un finestrino abbassato.
«Volante 17, mi ricevi?»
La voce di Fisher divenne sempre più nitida e Nathan si gettò a capofitto nella vettura, sporgendosi oltre il volante, per agguantare per primo il microfono.
«Sissignore, qui Blake.»
L’ordine di spostarsi a North Lawndale venne recepito all’istante. Quella notte si preannunciava piuttosto movimentata, contrariamente alle aspettative di monotono lavoro d’ufficio che Nathan si era prefigurato.
«D’accordo, ricevuto.»
Quando tutti e tre i detective furono raccolti nell’automobile, pronti per il cambio di direzione e impazienti di dimenticare l’incidente della donna con lo scialle, l’agente Larkin si sporse dai sedili posteriori, domandando quale fosse l’urgenza. Sperava non un’altra forma di allarmismo esibizionista, affermò con uno sghignazzo che ricordava un grugnito. «Mi ha davvero mandato il sangue al cervello, quella tizia.»
Nathan mise in moto, soprappensiero. «No, Paul. Stavolta potrebbe essere qualcosa di più grosso di un petardo.»
«Lo spero veramente», mugugnò quello assestando un pugno al sedile.
Al semaforo successivo, Cassidy Hope puntò un dito contro il finestrino, intimando al guidatore di svoltare a destra. «Prendi questa. Faremo prima per S California Ave.»
Nathan si lasciò sfuggire un ghigno. «Sì? L’hai letto sullo stradario, Horne
La freccia rimase a sinistra. Sebbene anche Larkin, che adesso sfogliava in fretta la cartina, osservasse che avrebbero accorciato i tempi, tagliando a destra, l’autista, impassibile, imboccò la strada opposta.
«Lo dicevo perché conosco un bar che fa dell’ottimo caffè, da quelle parti.»
Larkin cominciò ad agitarsi. «Cazzo, avrei proprio bisogno di un caffè ora.»
«Siamo diretti a degli studios», rimarcò Nate tra i denti. «Hanno sicuramente del caffè anche lì.»
Avrebbe voluto aggiungere qualcosa su quanto fosse insensibile, inoltre, parlare di bevande calde quando stavano per affrontare un caso di – pressoché certo – omicidio; ma non era il tipo di persona da poter fare la morale agli altri, soprattutto alle due e quarantacinque di mattina.
Non riusciva a credere che la stronzata dei petardi avesse succhiato via gran parte della nottata.
La voce di Cassidy lo riportò alla realtà, mentre si meritavano l’ennesimo semaforo rosso.
«E comunque è Hope, non Horne
 
 
 
   
 
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