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Autore: _EverAfter_    02/05/2020    4 recensioni
Proves è un paese dell'Alto-Adige dove vivono poco più di una manciata di persone, perlopiù contadini e casalinghe.
Maria è un'adolescente che vive con una nonna bisbetica e austera, conosciuta da tutti come la Signora 'Na. Nella lotta tra la generazione che ha vissuto la guerra e quella che vive in pace, la ragazza scopre un lato della sua parente inaspettato e nascosto.
✦ Terza classificata al contest "Seasons Die One After Another" indetto da Laila_Dahl sul forum di EFP.
Genere: Angst, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago, Storico
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    Era strano. A Proves la neve non cadeva mai a Novembre.
    Negli ultimi anni la si poteva vagamente osservare radunarsi sui cucuzzoli delle montagne, ch’imbiancavano come giganti pallidi sotto al cielo nuvoloso e imbronciato dai cirrostrati; fuori il cicaleccio delle comari si zittiva, e il mite autunno cedeva il passo alla stagione più pungente: se ci si affacciava alla finestra, il naso s’imporporava lesto a contatto con l’aria ghiacciata, che portava con sé l’odore aguzzo e rintronante del vin brûlé, il quale troneggiava come regina tra le bevande calde durante l’Avvento.
    Forse per il deciso profumo di cannella – o forse perché il vino caldo faceva gola anche al più impassibile degli uomini –, il vin brûlé era in grado di mettere tutti d’accordo.
    Spesso si poteva osservare la sua certosina preparazione nella piccola piazzetta del paese, dove i contadinotti intirizziti dal rigido inverno s’incontravano per parlottare e raccontarsi le buone nuove. E se ne stavano lì, a zampettare da una gamba all’altra per il freddo e ad affondare la faccia nel calderone in cui il più coraggioso dei presenti rimestava la bevanda, sperando di non perdere la mano che stringeva il mestolo per colpa del gelo.
    A quel tempo Proves era abitata da poco più di cento persone, e si conoscevano tutte fra loro: anziani agricoltori, casalinghe, pastori. S’incontravano tutti lì, perché non c’era niente di meglio, quando arrivava l’inverno, che parlare. Divertirsi, raccontare storie attorno ad un fuoco acceso, mentre la cioccolata calda scendeva negli esofagi dei più piccoli e il vin brûlé – più malizioso – in quelli dei più vecchi, gli stessi che narravano di racconti strabordanti d’immaginazione.
    A Maria piaceva ascoltarli, con quei loro sorrisi storti e senza denti, mentre ridevano passandosi a turno una coppola di lana, per evitare che il ghiaccio congelasse loro i capelli che 
ormai – dicevano  non avevano più. Facevano sempre una battuta come quella, e nonostante fosse vecchia e ridondante, lei rideva comunque. Lo faceva per far loro un piacere, perché nonostante fosse una ragazzina le era stato insegnato quanto fosse bello poter rendere felici le persone.
    L’inverno, in effetti, l'attraeva anche per quello.
    «Quando è inverno si ha più voglia di stare vicino a qualcuno.» Era una frase che sua nonna le ripeteva spesso. «T’accorgi di quanto sia caldo il corpo di una persona solo quando hai freddo.»
    Maria non capiva quasi mai cosa le volesse dire quella donna. Capitava sovente che il linguaggio della vecchia fosse troppo nebuloso per lei, come un’accozzaglia informe d’insegnamenti astratti, che però non riusciva mai davvero a comprendere: si limitava a stare zitta, osservando spaesata gli occhi raggrinziti dell’anziana e chiedendosi se non le mancasse qualche rotella. Eppure, Maria era stata educata troppo bene dai suoi, per cui non s’era mai mostrata scostumata o irriconoscente nei confronti della nonna, la quale non si premurava affatto di mostrarsi gentile con la giovane nipote, ch’era costretta a chiamarla come tutti gli altri del paese: Signora ‘Na.
    La Signora ‘Na non usciva quasi mai, tranne le domeniche per andare a messa. Allora la si poteva vedere stretta nel suo scialle di lana merinos, con le nocche pallide e increspate dalla vecchiaia, di cui il gelo era complice. Salutava le persone che incontrava solamente con una lieve inflessione del capo, ma non parlava quasi mai, e persino durante la comunione sembrava sussurrasse, tanto che molti iniziarono a chiedersi se non avesse dei problemi alle corde vocali.
    Maria avrebbe voluto volentieri rassicurarli, dicendo loro che in realtà sua nonna era un’inguaribile logorroica: parlava in continuazione del suo passato, dei tempi della guerra, di quando non c’era la tv e di come si stesse meglio quando si stava peggio. A volte i suoi discorsi erano così banalmente stereotipati, che la ragazza iniziò a pensare ad essi come a semplici frasi di circostanza per apparire più saggia di quanto non fosse in realtà.
    Con il passare del tempo Maria finì per disprezzare quella vecchia ciabatta, smettendo d’interrogarsi sul perché fosse così ostile e isterica nei suoi confronti, con quel suo atteggiamento scorbutico e votato solamente a denigrare ogni cosa che facesse la nipote.
    «Non sai neanche rifare decentemente un letto,» le inveiva spesso contro, «quando pensi d’imparare?» Oppure, quando accadeva che le desse una mano in cucina, la nonna s’accendeva di un’ira incomprensibile, mentre gridava: «Non si tagliano così le zucchine, stupida!»
    Maria non era una persona cattiva, eppure più di una volta s’era ritrovata a pensare a quanto la odiasse, consolandosi all’idea che – prima o poi – sarebbe arrivato anche per lei il momento di crepare. Crepare, sì. Perché il risentimento che covava nei confronti di quella donna s’era fatto così aspro e animoso negli anni che, persino quando non diceva niente, la nonna riusciva quasi a tastare con mano l’alone di negatività che si portava addosso; poiché il suo sguardo, per quanto limpido e ancora beato della liscezza della pelle, celava in sé lampi di rabbia infausta, tanto che una volta la più anziana le disse, ridendo sorniona: «Quando ci sei tu, devo stare sempre attenta. Potresti ammazzarmi nel sonno.»
    Era questo, il loro rapporto. Ammesso che di rapporto si potesse parlare: erano due persone il cui unico vincolo che possedevano era il loro sangue. Non v’era affetto, non v’era l’essenzialità della famiglia, il calore del nido.
    Persino col fuoco acceso e la neve a imbiancare i tetti, Maria non sentiva mai caldo, vittima dell’austerità della Signora ‘Na e del suo sguardo raggrinzato e brutto, opaco a causa della cataratta e di quei pochi ricordi di cui non s’era mai fatta rapsodo.
    Per questo, durante la bianca stagione, la ragazza se ne stava quasi sempre in piazza, ad ascoltare il cianciare confuso e scatarrato degli anziani arzilli, sul cui volto v’era un adorabile rossore causato dal vin brûlé; essi raccontavano storie popolari, leggende d’un folklore antico e affascinante. E parlavano di troll, di gnomi, di fate e di pietre magiche che portavano ricchezze. Era come una di quelle fantasiose storie de “Le mille e una notte”, solo che al posto delle roventi dune sabbiose v’erano cucuzzoli affilati e ricoperti d’un manto nevoso. Un’antitesi paradossale, ma che Maria aveva sempre considerato molto raffinata.
    Gli anzidetti racconti, che prendevano vita dal fiato condensato e nuvoloso dei vecchi del paese, erano l’unica distrazione che riusciva a concedersi durante la giornata, prima di tornarsene alla dimora della vecchia zitella e sorbirsi l’ennesima, estenuante sfuriata su quanto tardi fosse rincasata.
    Quel giorno, tuttavia, era diverso. La ragazza girò la chiave nella toppa arrugginita, ma non sentì il solito parlottio isterico e insopportabile, né vide il capo rugoso dell’anziana far capolino dalla cucina. La casa era silenziosa come non lo era mai stata; le luci erano spente e non s’udiva neppure il borbottio del bollitore. Per un attimo sperò che il ritorno tardivo avesse fatto desistere la nonna dall’attenderla ancora, e che avesse deciso di andarsene a letto.
    Quando entrò nel piccolo salottino, sobbalzò appena alla vista del corpo della vecchia abbandonato sulla poltrona di velluto rosso. Si tolse il soprabito, posandolo sulla sedia in legno, all’angolo della stanza. S’avvicinò in silenzio alla nonna: quando dormiva, non le sembrava poi così spaventosa. Le tolse i fogli di pergamena che stringeva tra le mani grinzose; non ricordava d’averli mai visti, e si soffermò su delle vecchie date. Erano lettere.
    Cominciavano tutte allo stesso modo: Cara Priscilla.
    Maria si sedette ai piedi della poltrona, proprio accanto alle gambe pallide della signora, mangiate dalle vene varicose e dalla ritenzione idrica. Sfogliò con delicatezza i vecchi fogli, spaventata all’idea di dover dare spiegazioni qualora ne avesse erroneamente strappato uno.
    Le pareva strano, in tanti anni non aveva mai conosciuto nessuno ch’avesse il coraggio di chiamare sua nonna in quel modo: Maddalena Priscilla Thaler non era un epiteto che la donna amava particolarmente, e tutti finirono per rivolgersi a lei con il soprannome Signora ‘Na, che in realtà era un’iperbolica diminuzione del suo primo nome. Priscilla era il suo secondo appellativo, ma non aveva mai sentito neppure suo padre – ch’era il figlio – chiamarla così.
    Un po’ vittima della curiosità, un po’ per la semplicità di poter fare l’ennesimo torto a quella vecchia iraconda, Maria iniziò a leggere.






13 Novembre 1916

    Cara Priscilla,
spero tu stia bene. Perdonami se mi faccio sentire solamente adesso, ma è stato davvero complicato cercare di far venire qui lo scrivano.
    Siamo stati trasferiti in una piccola base d’approvvigionamento vicino Gorizia. Nonostante si senta ancora l’odore dei cannoni, adesso mi appare tutto più tranquillo. Pensa, da ben quattro giorni non sparo, Dio me ne scampi se lo faccio.
    Tu come stai? Probabilmente questa mia domanda ti tedierà più del necessario, ma so che con l’inverno la tua famiglia non se la passa mai troppo bene.
    Che tempo fa a Proves? Di solito di questo periodo dovrebbe già nevicare. Lo so quanto odi la neve, eppure non posso fare a meno di sorridere nell’immaginarti tutta ingolfata in quell’orrendo maglione infeltrito.
    Giuro che quando tornerò te ne comprerò uno nuovo di zecca, ti piacerebbe?
    Sempre tuo,
    Nicholas

    Maria sfogliò le altre missive che stringeva in mano, chiedendosi se fosse giusto impicciarsi così degli affari della vecchia. Ricordava perfettamente come il nome di suo nonno fosse Matteo. Dunque, chi era quell’uomo che le scriveva?

18 Febbraio 1917

    Cara Priscilla,
da qualche tempo sentire alcune parole inizia a spaventarmi. Ormai non si fa altro che parlare di cose assurde, cose che la mia immaginazione fa fatica anche solo a pensare. Adesso si vocifera addirittura di una guerra sottomarina. Chissà se sarà vero.
    La notte non riesco più a dormire tanto bene, e credo che il problema non siano più solamente i bombardamenti. Ho un malessere dentro con cui non sono molto bravo a convivere. Tu saresti molto più in gamba di me, hai sempre avuto più spina dorsale; come quando siamo andati a guardare l’orso: io tremavo come una foglia, mentre tu ti lamentavi di quanto fossi lento ad andar per boschi. Non che adesso la mia forma sia molto migliorata, ma posso assicurarti d’esser dimagrito.
    L’altro ieri il colonnello ci ha portato della cioccolata. Ci ha detto che è un bene di lusso, di farne tesoro. La usano spesso per chi ha giramenti di testa, dicono che aiuti a recuperare le energie. Tipo una pozione guaritrice. Mi viene da ridere solo a pensarci. Mi sembra di vivere in uno strano limbo, in cui niente possa più sfiorarmi.
    Ma la cosa che più mi spaventa, al momento, è che ho completamente dimenticato il suono della tua voce.
    Al diavolo questa guerra e la loro fottutissima cioccolata.
    Ti amo,
    Nicholas

    
Maria continuava a leggere, e ciò che prima appariva come la semplice bravata d’una nipote un po’ cattiva, divenne presto una curiosità impellente ed emotiva, che le inumidiva gli occhi e le mozzava il respiro. Forse perché nessuno aveva mai saputo di quelle lettere o forse perché, di fondo, sua nonna era una persona di cui non aveva mai saputo niente tranne quelle odiose frasi fatte sul "si stava meglio quando si stava peggio" , la ragazza si ritrovò in mano l’ultima lettera, quella che riportava la data 15 Ottobre 1917.
    Ne aveva saltate tantissime, ma lo faceva spesso anche coi libri: leggeva sempre l’ultimo capoverso di un romanzo, per sapere come andava a finire.
    Però, per qualche motivo, il groppo alla gola le impediva di proseguire nella lettura. Non sapeva spiegarne la ragione, ma sentiva che quella storia non sarebbe finita bene: era l’unica lettera che non iniziava con "Cara Priscilla".

15 Ottobre 1917

    Voglio tornare da te.
    So già di avertelo detto tante volte, ma adesso immagina che lo stia urlando. Ho paura, sento freddo.
    Comincio a credere che non ti rivedrò più, forse è per questo che sono così spaventato. Lo so, pensi che sono un rammollito, ma almeno ora concedimi d’essere un vigliacco. Sono stanco d’esser definito coraggioso solo perché stringo tra le mani un fucile. Potessi, stringerei te tra le braccia.
    Qui ha preso di nuovo a nevicare. Non trovi sia strano? La neve d’ottobre è una cosa insolita. Però è rilassante, sai? Imbianca tutto silenziosamente, portandosi via i colori e perfino gli odori della guerra.
    Se mi sforzo di scrutare oltre i fiocchi, riesco a vederti. O forse è solo la mia mente che prega di poterti guardare almeno un’altra volta.
    Mi manchi, Priscilla amata.
    Ti prometto che troverò un modo per tornare da te.
    Nicholas

    A Maria non piaceva quella storia. Non era affatto come i racconti dei contadini che sorseggiavano vin brûlé: quella era vera, così reale da farle tremare le mani.
    S’interrogò velocemente sulla speranzosa idea di poter trovare altre lettere dopo quella, cercandole sul grembo della nonna. Con sua immensa sorpresa, gli occhi dell’anziana signora la stavano osservando, ma riuscirono a scorgere solamente il suo sguardo appannato e confuso.
    «Non ne troverai altre», si limitò a dirle, e sul volto le si dipinse un sorriso che Maria non aveva mai visto.
    «Perché?» domandò, certa che la risposta non le sarebbe affatto piaciuta.
    «Morì a Caporetto, qualche giorno più tardi.» La nonna raccolse a fatica le lettere sparse per terra, iniziando a sistemarle in ordine di data.
    Maria rimase inebetita a fissare la donna, prima di prorompere in un’inaspettata crisi collerica: «Che diavolo significa?»
    «Quello che ho detto.»
   «Ma lui aveva promesso che sarebbe tornato da te!» Non sapeva bene neanche lei il perché stesse piangendo. D’altronde, di quella storia non avrebbe dovuto importarle niente. Eppure, negli occhi di sua nonna, per la prima volta riuscì a scorgervi un dolore terrificante e solitario, che s’era trascinata dietro per tutti quegli anni senza avere alcuna volontà di manifestarlo.
    Maria si chiese se addormentarsi con le lettere in mano non fosse stata una cosa voluta affinché lei scoprisse la verità. Cercò conferma nel volto raggrinzito che sistemava con cura le epistole nel cofanetto in legno di rovere, ma tutto ciò che uscì dalla bocca secca e avvizzita fu: «Si fanno tante promesse nella vita, Maria.»
    «No!» sbottò la ragazza, singhiozzando. «Questa era una promessa importante!»
   «Sì, lo era.» Il tono di voce della donna non era affatto isterico come al solito, tutt'altro. Era intriso d’una bizzarra dolcezza, che si palesava attraverso gli occhi lucidi e la bocca distesa in un sorriso triste e rassegnato. «Nicholas ha mantenuto ogni sua promessa. Ma questa sapevo che non sarebbe riuscito a rispettarla.»
    «Tu lo sapevi?»
    «Ci sono tanti modi di dire addio,» le rispose, chiudendo l’involucro, «Nicholas l’ha fatto con quella lettera. Immagino che anche lui sapesse di non avere più molto tempo.»
    «Non dire così.»
    La nonna la fissò. «Perché stai piangendo?»
    Maria non poteva rispondere. Non poteva dirle che aveva passato la maggior parte della sua vita a odiarla, a credere che fosse una persona orribile, che non fosse degna d’essere amata. Non dopo aver letto quelle lettere. Non dopo aver compreso quanto viscerale e coinvolgente fosse quel sentimento, la cui essenza era rimasta imprigionata tra le pagine d’un inchiostro a basso costo. Una missiva arrivata a destinazione forse persino dopo la morte di chi l’aveva scritta.
    Eppure, quelle parole erano ancora lì e Maria non riusciva a cancellarle dalla mente.
    «Ma non è giusto,» piagnucolò, massaggiandosi le palpebre inumidite, «tu lo amavi, nonna?»
    «Che razza di domande sciocche,» sputò con falso acidume l’anziana signora, «certo che lo amavo. Nicholas era tutto il mio mondo.»
    «Perché non ci hai mai detto niente?»
   «A che sarebbe servito?» La nonna le asciugò frettolosamente le guance bagnate con il palmo raggrinzato della mano. «Voi siete il frutto di un altro uomo, di un’altra storia. Questa non valeva la pena d’esser raccontata.»
    Maria tirò sul col naso. «Allora perché anche tu stai piangendo?»
    La donna smise di sorridere, e s’accorse solo allora dei rivoli che s’univano in prossimità del mento, cadendo goccia a goccia sul petto nascosto dal pullover di lana. Si portò una mano sulla bocca, maledicendosi per mostrarsi così fragile agli occhi della nipote. Non che potesse nascondersi: quel dolore se l’era portato dietro negli anni, custodendolo gelosamente affinché non appartenesse agli altri – sperando che svanisse.
    Nonostante l’immane sforzo di andare avanti, il tempo era passato e al tramonto della sua esistenza s’era scoperta ancora una volta vittima di quelle lettere e di quell’amore ch’era ormai mutilato, martire anch’esso della guerra e di un dolore che non avrebbe mai creduto d’essere in grado di sopportare per così tanto tempo.
    «Mi è mancato ogni giorno,» confessò infine, stanca di dover continuare a fingere, «e avrei tanto voluto potergli scrivere che, nonostante tutto, lo aspettavo. Lo avrei sempre aspettato.»
    Maria soffermò lo sguardo sul cofanetto, guardiano fedele di una storia strappata in mille pezzi e della quale nessuno avrebbe più potuto scrivere. Agli occhi della giovane ragazza ben poco rimaneva della fredda, inquietante e austera figura della Signora ‘Na: al suo posto v’era la triste e affranta Priscilla, il cui sguardo piangeva e sembrava implorare la nipote di non giudicarla, poiché nessuno che non avesse provato la perdita della persona amata avrebbe mai potuto comprendere quanto insopportabile fosse l’eco della disperazione, il peso della solitudine.
    Maria, ancora benedetta dalla gioventù e dalla pelle lucida, non aveva mai pensato all’idea che anche sua nonna, un tempo, fosse stata come lei; che avesse provato anche lei rabbia, paura, odio, amore, quelle emozioni ch’erano umane, e quindi condivisibili da uomo a uomo. Sua nonna era sempre stata una donna forte e indipendente, ma tutto ciò non costituiva altro che la fragile cartapesta d’una maschera severa e inflessibile. Non era reale, non lo era mai stata.
   Ciò che in quell’attimo provò la ragazza, rassomigliava più a un vago senso di pietà mista a compassione, mentre con le braccia tremolanti si permetteva d’abbracciare il corpo della nonna, che le apparve più minuto di quel che avrebbe potuto pensare.
    E Priscilla pianse, ma senza emettere alcun suono. S’accoccolò sul petto acerbo della nipote, mentre le lettere prendevano vita dai suoi ricordi: ripensò ai fiocchi di neve, alla polvere da sparo, all’orso, alla cioccolata e ai sottomarini, soffermandosi poi sul vago ricordo che conservava del sorriso di Nicholas, un po’ distorto dall’oblio della sua mente. Quell’immagine era tutto ciò che rimaneva di lui, di ciò ch’era stato, dell’amore che aveva provato.
   Nel dolore, nonostante tutto, la donna si sentiva viva: dopo un’esistenza passata a far finta che quel sentimento non fosse mai esistito, l’incantesimo s’era spezzato, svegliandola da un lungo sonno durato tutta una vita. Il tempo, ch’era la cosa più effimera, era stato particolarmente benevolo; le sembrava che fosse accaduto solo il giorno prima di stringere tra le braccia suo figlio, e sua nipote dopo di lui. E le mani di Priscilla sembravano irrigidirsi e atrofizzarsi ad ogni istante, mentre il fascino dell’età più giovane aveva ceduto il passo a quello più antico e saggio.
    Nicholas, che aveva rappresentato l’iconica e idilliaca visione d’un passato fulgido di speranze, s’era sfocato nei suoi ricordi, apparendole come un’ombra indefinita e inconsistente. L’unica cosa che ancora le ricordava che lui era esistito erano quelle lettere.
    Quelle lettere, sì. E Maria.
   La nipote dagli occhi lucidi, dai singhiozzi infuriati e dalle dita tremanti che le accarezzavano i capelli incanutiti. Maria piangeva, piangeva perché era così innamorata delle storie a lieto fine che non riusciva ad accettare l’idea che in quel racconto il cavaliere non fosse riuscito a salvare la principessa, ch’era rimasta intrappolata nella torre fino alla triste fine dei suoi giorni.
    La donna sorrise tra le lacrime salate: a ben pensarci, Nicholas non aveva neanche mai saputo andare a cavallo. Era sempre stato uno scavezzacollo, le sembrava astratta e assai poco realistica l’idea che potesse davvero prenderla e portarla via.
    «Nonna?» La voce della ragazza le parve un po’ più calma. «Sta nevicando.»
   Priscilla si concesse alla visione del cielo plumbeo, dal quale scendevano piccole piume candide e dal morbido aspetto. Disse con un fil di voce: «A quei tempi la neve cadeva già d’ottobre.»
   Maria comprendeva a cosa si riferisse. L’aveva letto, in quei ricordi che ormai appartenevano anche a lei; per quanto addolorata, non riusciva a fare a meno di sentirsi felice per aver scorto il reale volto della Signora ‘Na, che non le appariva più così terrificante come aveva creduto. Era solo la smorfia d’un cuore affranto che aveva rinunciato all’amore per paura di continuare a soffrire. Peccato che quel dolore non potesse svanire semplicemente smettendo di pensarci.
    Fu proprio per quell’inaspettata catarsi che la ragazza ebbe il coraggio di chiederle: «Ti va una tisana?»
    La donna annuì, mentre la più giovane l’aiutava ad alzarsi dal pavimento e la scortava con insolita riverenza verso la cucina.
   Ci avrebbero impiegato molto tempo, questo lo sapevano bene entrambe. D’altronde nessuna delle due poteva cambiare drasticamente da un giorno all’altro, vittime di quella vita che le aveva rese maestre d’esperienze e pregiudizi.
   Eppure, mentre versava l’infuso nella tazza circondata dalle artritiche mani di sua nonna, Maria intravide l’ombra di un sorriso sfocarsi nel fumo vaporoso dell’acqua bollente.




Fine






Lo sclero di ver
Questa è una storia che ha potuto vedere la luce solamente grazie al contest "Seasons Die One After Another" di Laila_Dahl, che non ringrazierò mai abbastanza per questa sua magnifica idea.
Bene, grazie a questa storia ho capito che non sarò mai in grado di scrivere qualcosa di divertente, o una commedia! ^^"
Il dramma mi attira a sé come una calamita invitante e raffinata, per cui penso che mi limiterò a seguirne il flusso, perché proprio no, non riesco a scrivere qualcosa che non sia puro angst - ci provo eh, ma escono quasi tutte schifezze.
Non so, forse un giorno riuscirò a stupirvi, ma per il momento vi lascio l'ennesima storia strappalacrime e sdolcinata! xD
A presto,

_EverAfter_

  
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