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Autore: paige95    03/05/2020    15 recensioni
La guerra in Afghanistan è il filo rosso che lega il destino di due uomini e due famiglie, due mondi distanti che non sanno di essere molto vicini tra loro.
Nell'estate del 2018, in pieno conflitto, il tenente comandante dei Navy SEALs Christian Richardson e l'inviato speciale del Los Angeles Times Samuel Clark verranno chiamati al fronte, lasciandosi alle spalle vissuti, affetti e i vasti territori californiani.
[Questa storia partecipa al contest "Chi ben comincia è a metà del prologo" indetto da BessieB sul forum di EFP]
Genere: Angst, Guerra, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Destino'
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Verso il fronte




 
San Diego; 17 agosto 2018
 
In una villa modesta distante pochi chilometri dall’Oceano Pacifico, la mattina stava trascorrendo come se il normale scorrere del tempo avesse subìto un arresto e una clessidra dai risvolti drammatici stesse inesorabilmente terminando la sabbia della serenità e della felicità.
Lo specchio della camera – appeso alla parete tappezzata da carta da parati dai colori freddi e marini – rifletteva l’immagine di un uomo già spossato, prima ancora di affrontare i ritmi irrefrenabili e disumani della guerra. Christian aveva vissuto la maggior parte delle notti che lo separavano dalla partenza in bianco.
Era l’alba. Alle 6:14 a.m., i primi timidi raggi di sole avevano fatto capolino sulla superficie dell’oceano. Alle 7:00 a.m., Christian era quasi pronto per prendere il suo volo.
Aveva un lunghissimo viaggio da affrontare. Solo per raggiungere la base dell’aeronautica statunitense, situata nello Stato della California, erano necessari più di 300 km, che aveva deciso di percorrere riservandosi un taxi.
Aveva stimato poco più di tre ore per raggiungere l’Edwards Air Force Base. Alle 11 a.m., era in programma un decollo privato che lo avrebbe trasportato alla base aerea di
Bagram, a poco più di un’ora e mezza di viaggio da Kabul, dove avrebbe soggiornato per nove mesi.
Katherine si era svegliata presto insieme a lui. Gli aveva preparato un’abbondante colazione con la speranza che gli desse le energie necessarie per affrontare le interminabili ore di viaggio. Non era più riuscita a chiudere occhio, nonostante il suo turno in spiaggia iniziasse solo nel primo pomeriggio.
Il Navy SEAL era pallido: quell’ultima levataccia all’esordio della partenza non giovava alla salute, dopo una settimana di insonnia.
Il suo arrivo alla destinazione finale era previsto per il mattino seguente, considerata la quasi mezza giornata di fuso orario che avrebbe trovato a Kabul, quando a San Diego sarebbe stata notte fonda. Il tutto rigorosamente senza l’ausilio della caffeina, l’aereo e un naturale stimolante avrebbero portato al collasso il suo sistema nervoso. La sua carnagione abbronzata – segno tangibile del confine naturale settentrionale di San Diego con il Messico - quella mattina era in contrasto netto con la divisa nera da ufficiale della Marina Militare americana. A differenza di sua moglie, non si era potuto permettere di cedere davanti alla famiglia, anzi nell’ultima settimana era stato per Katherine e Alisia una solida colonna portante.
Cedeva, però, in solitudine, lontano da occhi indiscreti, che fossero quelli innocenti delle due donne della sua vita oppure quelli dei suoi sottoposti e colleghi. Christian, a parte William, non aveva altri con cui sfogare i propri pensieri e non si sentiva in coscienza neppure di assillare l’amico in continuazione.
Christian e Katherine avevano dovuto cercare il modo migliore per comunicare alla figlia la partenza e l’assenza del padre. Avevano trovato strategico non informare Alisia dei mesi che li avrebbero separati; per quanto fosse piccola, fino a nove era in grado di contare e sapeva anche che era una grande quantità. La bambina pianse, come era prevedibile e inevitabile che fosse, non appena capì che per diverso tempo non avrebbe rivisto il suo papà.
Era una mattinata strana per Christian, come se la paternità gli infondesse continue sensazioni che facevano da sfondo alla missione che stava per intraprendere. Era assurdo, gli ormoni della gravidanza avrebbero dovuto lasciare un segno tangibile solo a Katherine.
L’ufficiale stava indossando la sua elegante uniforme. Per lui non era mai stata solo una fitta trama di maglie di stoffa; aveva sempre ostentato le stelle cucite sul colletto con rispettoso orgoglio e patriottismo. Quella volta le sue dita non si decidevano ad imbroccare le asole giuste dei bottoni. Era come se inconsciamente sentisse che il suo Paese gli stesse chiedendo un sacrificio troppo elevato; non a caso negli ultimi anni non aveva preso parte a missioni così remote e rischiose.
Posò entrambi i palmi sul ripiano del mobile sotto lo specchio e cercò di calmarsi. Non era lo spirito giusto per affrontare i Talebani e nemmeno il momento migliore per dare libero sfogo alla sua frustrazione. Avrebbe dovuto salutare la sua famiglia ed era categorico mostrare tutta la serenità possibile.
Lasciò che pensieri positivi invadessero la sua mente. Qualche bel vissuto non fece fatica a riaffiorare.
Ricordava il giorno in cui la sua bambina era nata come se fosse successo pochi giorni prima. Era in mare aperto quando il suo telefono squillò, non era né una chiamata né un semplice messaggio pieno di parole, c’era un video allegato e inviato da sua moglie sul suo numero privato. Christian era partito, credendo mancasse ancora qualche giorno al parto, così era stato comunicato loro dal ginecologo in occasione dell’ultima ecografia. Invece Katherine lo aveva messo davanti al fatto compiuto, in effetti avvisare lui della rottura delle acque sarebbe stato inutile, era molto più logico chiamare un’ambulanza.
Anche se quel pomeriggio di sei anni prima Christian non era accanto alla sua famiglia, sapeva che Alisia era venuta al mondo alle 2:12 p.m. al Rady Children’s Hospital – esattamente dove avrebbe accompagnato lui stesso Katherine se non fosse stato in servizio – e pesava 2,7 kg.
Non trovandosi sulla terra ferma, passò il resto della giornata a scalpitare; attendeva solo il momento in cui avrebbe potuto stringere tra le braccia sua figlia e sua moglie. Nel frattempo aveva consumato la carica della batteria del telefono rivedendo in loop il video, in cui Katherine con un sorriso stanco e i capelli sulla fronte arruffati dal sudore inquadrava la neonata e gli ripeteva Congratulazioni, papà.
Aveva conservato il video di quel giorno come fosse una reliquia; si premurava di salvarlo su ogni nuovo dispositivo. Quel file riportava le 2:15 p.m., sua figlia aveva solo tre minuti di vita e non faceva alcuna fatica a crederlo, le ostetriche non avevano avuto il tempo di lavarla, eppure aveva già un nome, quello che i genitori della piccola avevano da tempo scelto insieme.
Il breve video si concludeva con poche parole Io e Alisia ti aspettiamo. Torna presto, capitano.
Colse l’occasione della divisa ancora slacciata per recuperare dal taschino interno il suo portafogli. Passò in rassegna i documenti, fece un controllo veloce, ma ciò che gli premeva di più era una foto di famiglia che lo accompagnava in ogni suo viaggio, che dalla nascita della bambina si limitava sempre alle dodici ore. Avevano immortalato la prima festa di compleanno di Alisia e in particolare il momento in cui la piccola avrebbe dovuto spegnere la sua candelina. In suo aiuto erano accorsi la mamma e il papà e anch’essi comparivano nella foto.
Avevano festeggiato insieme altri cinque compleanni dopo quel 7 giugno 2013. Chissà se anche il prossimo sarebbe stato al loro fianco.
Riemergendo dai ricordi più felici che la memoria conservasse, inquinati dalla triste realtà, ripose con cura la foto insieme al portafogli.
In procinto ormai di rivivere l’esperienza bellica, gli premeva anche altro. Non voleva lasciare nulla al caso e dubitava che dopo essere salito su un qualsiasi mezzo volante, ricordasse ancora le sue premure.
Aprì con delicatezza il portagioie della moglie e cercò una qualsiasi catenina che non fosse già occupata da un ciondolo.
«Cosa stai cercando? Ti bastava chiedere, lo sai. Se hai bisogno di qualcosa, ti aiuto volentieri»
Quando avvertì la voce perplessa della moglie, richiuse spaventato il cofanetto. Non stava facendo nulla di male, Katherine non lo stava rimproverando in alcun modo, ma i nervi di Christian erano talmente tesi da saltare per ogni minimo spostamento d’aria.
«Scusa…non volevo frugare tra le tue cose»
Era quasi imbarazzato per quell’intromissione. Aveva lo sguardo della donna puntato addosso in attesa che lui esplicitasse i suoi pensieri.
«Mi servirebbe una catenina, di qualsiasi materiale. Vorrei evitare di perdere o rovinare la vera, così ho pensato di portarla al collo sotto i vestiti»
Katherine lo ascoltò con attenzione senza dare un proprio giudizio. Riaprì il portagioie, facendo mente locale sugli oggetti in suo possesso. Quando finalmente trovò qualcosa che potesse fare al caso del marito, gli allungò la mano invitandolo a passarle la fede.
Mentre Christian riprovava ad allacciare i bottoni simulando sicurezza, Katherine preparava quel pendente, facendo fare un paio di giri di corda intorno all’anello per accorciarla. Gli fece cenno di chinarsi in avanti per poterla legare al suo collo.
Christian perse solo qualche istante a far scivolare quel ciondolo tra le dita, dopodiché lo nascose sotto la divisa; era convinto che lì il bene più prezioso che lo accompagnava in guerra fosse al sicuro, almeno fino a che nelle sue vene scorreva la vita.
Nessuno dei due coniugi sapeva come commentare quel momento e congedarsi. Mancavano loro anche le più banali parole e le formule di saluto più informali. Sembrava paradossale che dopo poco meno di dieci anni di pace la loro felicità fosse messa a dura prova.
Christian si schiarì la voce e provò ad evitare che i loro saluti si trasformassero in uno strazio.
«Kabul è avanti di undici ore e trenta, ciò significa che quando a San Diego sarà notte o comunque prima mattina, da me sarà giorno. Sarà più difficile per entrambi sentirci, quindi se ho la possibilità mi prendo cinque minuti la notte per potervi vedere e sentire. Credo che la soluzione migliore sia trovare un momento in cui tu non sarai impegnata in spiaggia. Io faccio il possibile per liberarmi. Sia chiaro, non resto nove mesi senza farmi vivo»
Era un desiderio condiviso e a Katherine fece piacere sapere tutto ciò che aveva organizzato per riuscire a non perdere i contatti con la sua famiglia. Peccato non si fosse premurato di tenere in nota anche i quotidiani imprevisti del conflitto armato. Era fin troppo ottimista.
«Hai preso tutto ciò che potrebbe servirti?»
«Credo di sì…cellulare, portafogli, caricabatterie, valigia…non dovrebbe esserci altro. Al massimo inviamelo alla base di Bagram»
Le sorrise. Ciò, però, non bastò a distendere le rughe di preoccupazione che increspavano il viso candido della moglie.
La donna gli diede un leggero colpo sul petto con il palmo aperto e subito dopo trasformò quel gesto in una carezza.
«Sicuro di non volerci in aeroporto?»
«Più che sicuro. Preferisco salutarvi a casa. È un viaggio troppo lungo per la bambina fino alla base aerea»
Katherine sapeva che non era l’unico motivo per il quale aveva deciso di affrontare la partenza da solo. Non voleva prolungare quel distacco e renderlo un’agonia senza fine, soprattutto per sua figlia.
Christian troncò l’argomento, infilando una mano nella tasca dei pantaloni e porgendole il suo mazzo di chiavi.
«Meglio che le tenga tu. Il rischio di perderle è troppo alto»
Le affidò, come ormai da anni faceva, tutto ciò che aveva; tranne la sua vita, quella non era nelle mani di loro presenti, ma di persone che non lo avrebbero trattato come un loro pari.
«Sono più di dodici mila chilometri da qui in aereo, quindi più di tredici ore di volo e tu hai una dannata fobia dell'aereo. Hai in valigia gli ansiolitici?»
«Kathe, non ne avrò bisogno»
«Sì, invece. Negarlo non ti farà stare meglio ed io non ti sarò accanto»
Aveva smesso di ascoltarla, non appena la conversazione si era spostata sui suoi frequenti attacchi di panico in volo. Aveva preferito concentrarsi sul ciuffo di capelli ondulati che le ricadeva su un lato e poi sul petto, inondando con quei crini la scollatura lievemente accentuata della camicia da notte.
«Fammi un favore. Non tagliare i capelli in questo periodo, li adoro esattamente come sono»
«Chris, è importante che tu...»
Spostò la mano dai capelli alla guancia della moglie. Avvicinò le labbra alle sue, stampando sopra un bacio casto e ricco di sentimento.
«Papà»
La voce triste e assonnata della bambina non interruppe chissà cosa in fondo, anzi Christian fu grato ad Alisia per averlo salvato dai rimproveri della moglie.
Andò incontro alla piccola con un sorriso, accarezzando le spalle di Katherine.
Recuperò il cappello dal comò. Si inginocchiò all’altezza di Alisia e la avvicinò a sé circondandole la vita.
La bambina si stropicciava gli occhi per la stanchezza, ma l’ansia per la partenza del papà era stata preponderante. I suoi genitori furono costretti ad informarla della partenza imminente, anche se ciò le avrebbe procurato una notte agitata.
«Tesoro, sarei passato io a salutarti. Non me ne sarei andato senza farlo»
La bambina gli sventolò davanti un foglio e lo invitò ad afferrarlo. Alisia fissava il padre, in attesa che lui interpretasse il suo disegno. Non era difficile, in fondo: erano rappresentati loro insieme a Katherine, davanti ad un cielo stellato.
Voleva che suo padre ricordasse l’ultimo desiderio che aveva rivolto ad una stella cadente. Christian le sorrise commosso, non doveva piangere, ma sua figlia gli stava rendendo quell’impresa impossibile.
«Così non ti dimentichi di me e ti senti meno solo»
«Posso davvero portarlo con me?»
Solo quando la figlia gli ebbe dato la sua autorizzazione, piegò il foglio sottile stando ben attento a non strapparlo e lo ripose nella tasca della divisa che si trovava all’altezza del cuore.
Le diede un grande bacio sulla guancia, percependo al tatto che era ancora inumidita dalla notte insonne appena trascorsa. Per provare a farla sorridere, la invitò ad afferrare il suo cappello.
«Me lo metti tu?»
Glielo fece indossare un po’ storto, ma Christian non ci fece molto caso, si premurò solo di spostare la visiera dagli occhi.
L’ingenuità della piccola di casa fece sorridere Christian e Katherine. La sua presenza era un dono del cielo, aveva un meraviglioso effetto benefico sui suoi genitori. Era uno scricciolo, mostrava meno della sua età e i suoi occhi di un intenso azzurro cielo suscitavano una bontà più radicata di quella infantile che gli anni avrebbero portato via.
La sensibilità della bambina in quell’occasione, però, le faceva provare una grande sofferenza. Christian conosceva quel lato di sua figlia, uno dei motivi per il quale temeva i saluti e aveva preferito che se li fossero scambiati dentro quelle mura.
Non riusciva neanche a contemplare la possibilità di non rivedere più la sua Alisia. Le porse una carezza tra i boccoli castani, così simili a quelli della mamma.
«Ciao, amore mio»
Quando vide che la bambina non cessava di singhiozzare, si alzò, la sollevò e la strinse forte al petto. Non ricordava di essersi allontanato da lei per così tanto tempo e nemmeno di aver intrapreso una missione tanto lontana o pericolosa, da quando aveva creato la sua famiglia insieme a Katherine. Era logico che alla parola mesi la bambina sarebbe entrata in crisi.
Le sussurrò vicino all’orecchio, visto che lei era avvinghiata al suo collo.
«Alis. Mi devi promettere che qualunque cosa accada, neanche tu mi dimenticherai. Resta accanto alla mamma. Quando è triste, abbracciala forte anche per me»
La figlia, tra le lacrime con cui gli stava inondando la divisa, gli fece un lieve cenno di assenso.
«Brava, piccola»
Le rinnovò un bacio. Delicatamente sciolse l’abbraccio, invitando Katherine a prenderla.
Riservò un ultimo abbraccio anche alla moglie.
«Aspettami, Katherine»
«Mi troverai qui, esattamente come ci siamo lasciati»
Le lasciò un bacio sul collo. Si congedò da loro, porgendo un’ultima carezza sul braccio della bambina.
«Chris!»
Si bloccò, appena prima di togliere la mano dallo stipite della porta. Tornò indietro di qualche passo.
«Cosa c’è? Ho dimenticato qualcosa?»
«Avvisaci quando arrivi. Ricordalo, noi aspettiamo tue notizie»
Le regalò un sorriso, per stemperare la preoccupazione sul volto di lei.
Il taxi lo stava già attendendo davanti alla villa insieme ai suoi pochi bagagli.
Il tempo dei saluti era terminato.

 
 
Los Angeles; 17 agosto 2018
 
La redazione del Los Angeles Times era diventata per Samuel una seconda casa, ancor prima di concludere il college. Aveva imparato in quell’edificio buona parte delle procedure redazionali, durante la sua adolescenza. Yale aveva solo affinato le sue conoscenze, affiancandole alla pratica.
I giornalisti, che dopo il conseguimento del suo titolo di laurea erano diventati colleghi, erano stati per anni amici e mentori senza i quali il suo percorso non sarebbe stato altrettanto proficuo.
Non possedeva un vero e proprio ufficio. Non perché avesse iniziato solo da pochi mesi la sua avventura come giornalista professionista.
Il piano che ospitava lui e gli altri cronisti si estendeva lungo uno spazio talmente ristretto da escludere l’esistenza di una qualsiasi stanza privata con porta e finestra.
L’unico, ovviamente, a potersi permettere un ufficio – anche abbastanza ampio - era il direttore; un angolo di mondo nel quale sfogare in solitudine tutta la propria frustrazione nei sigari. Daniel non era solo poco incline alle dimostrazioni d’affetto – a suo avviso superflue -, era anche un perfezionista nel suo lavoro e questo aumentava il suo stress; in pratica era intrattabile per la maggior parte del tempo.
Dall’altra parte della stanza, un cartello a caratteri cubitali affisso alla parete ricordava a Samuel il divieto di fumare in luoghi pubblici. Una postilla quasi illeggibile sottolineava che quella legge era stata emanata dal governatore dello Stato della California appena un mese prima, impedendogli di distendere la tensione. D’altronde non possedeva i privilegi del capo al sesto piano, che lui stesso si era arrogato; era solo suo figlio, il novellino del terzo piano, a cui era stata affidata una missione più grande di lui e della sua esperienza sul campo.
Il neo giornalista aveva in dotazione una scrivania posizionata in un angolino di quei pochi metri quadri di pavimentazione e non avrebbe nemmeno avuto l’ardire di pretendere di più, in quanto ultimo arrivato. Sul suo prezioso piano di lavoro, aveva già scritto decine di articoli. Grazie all’entusiasmo e alla passione per quel primo e vero impiego, non aveva mai carenza di parole o di curiosità verso il mondo. Dubitava, però, che ciò fosse sufficiente per ricevere un piccolo accenno di consenso da parte di Daniel, il quale si limitava ad approvare e a pubblicare gli articoli del figlio.
La mattina della sua partenza, Samuel aveva raggiunto la redazione, desideroso di lasciare in ordine la sua scrivania e i lavori incompiuti di cui si stava occupando nell’ultimo periodo; avrebbero dovuto attendere mesi prima della pubblicazione. Tra le dita del giovane passarono le sue bozze. Ad una, in particolare, teneva molto. Erano passati duecento quarantadue anni dalla Dichiarazione d’Indipendenza degli Stati Uniti d’America[1], Samuel aveva preso l’iniziativa di dedicare a questo proposito un approfondimento sul Los Angeles Times. Non aveva ancora informato il direttore Clark di quel progetto, non era certo della sua riuscita, e non lo avrebbe fatto fino al suo ritorno.
Il resto delle bozze riguardava l’ordinaria amministrazione: furti, rapine, sparizioni…nulla che desse forti scosse all’ordine pubblico o allarmasse più del dovuto la cittadinanza.
Nel primo cassetto, ripose la cartellina blu elettrico, nella quale aveva sistemato con ordine i suoi lavori. Nessuno avrebbe affermato che fosse figlio di suo padre, prima di conoscere la spiccata e maniacale propensione all’ordine di entrambi; uno dei pochi privilegi – molti avrebbero avuto questa percezione – di Daniel.
Samuel avrebbe raggiunto la base aerea Edwards Air Force Base. Era una base dell’aeronautica statunitense, che si trovava nella California del Sud.
In nessun altro luogo si sarebbe sentito così tanto fuori posto. Il tragitto sarebbe stato relativamente breve – solo un’ora e mezza di auto –, ma di certo affrontare un volo di più di tredici ore tra militari non era tra le sue aspirazioni più elevate. Avrebbe forse potuto iniziare da lì la cronaca del suo viaggio, ma era sicuro che la soggezione avrebbe impregnato l’atmosfera, vanificando i suoi propositi.
Avendo in programma di partire direttamente dalla redazione, era uscito di casa portando con sé i suoi effetti personali.
Non era esperto del Continente asiatico. Da buon giornalista, aveva effettuato in rete quante più ricerche possibili per non farsi trovare del tutto impreparato. Per scegliere, ad esempio, quali indumenti gli sarebbero serviti in quel paese remoto, gli era stato utile cercare il clima che lo avrebbe atteso in quelle zone; si scoprì piacevolmente sorpreso di sapere che sotto quei termini non era poi così distante dalla California.
Ciò che Samuel stava per intraprendere aveva una definizione specifica: giornalismo di guerra. Il nome era emblematico; lui, effettivamente, andava in guerra, immergeva corpo e anima in quel conflitto, con l’unica differenza che non possedeva armi per difendersi in caso di attacco alla sua incolumità personale. Samuel era solo munito dell’attrezzatura occorrente per svolgere un reportage in territorio di guerra. Nulla di più.
Nonostante il tabacco gli avesse fatto compagnia nei giorni scorsi, dovette rinunciarvi in quell’ambiente chiuso e rimanere da solo davanti allo schermo scuro del cellulare.
Aveva inviato a Margaret più di dieci messaggi senza risposta e collezionava altrettante chiamate rifiutate. Non poteva più aspettare però. Con tutta la buona volontà del mondo, non poteva più lasciarle con pazienza il tempo di assimilare e accettare quella notizia.
Per come la ragazza si era comportata negli ultimi giorni, sembrava che stesse elaborando un lutto che richiedeva troppe fasi di passaggio. A breve sarebbe partito e per mesi non l’avrebbe rivista, non voleva lasciare una discussione in sospeso, specie se la destinazione era l’Afghanistan.
Non vedeva la fidanzata da una settimana. Ogni volta che andava sotto casa sua, si faceva negare dai genitori.
Nessuno meglio di lui avrebbe potuto comprendere la sofferenza per quel matrimonio da annullare. Lo avevano organizzato insieme. Avevano scelto persino le fedi: due anelli in oro giallo con incisi i loro nomi e quella data, 25 agosto 2018. Lui sarebbe stato troppo lontano e non voleva nemmeno pensare quale fosse il destino del simbolo della loro unione.
Mancavano solo i loro abiti da cerimonia. Era riuscito sul filo di lana almeno a risparmiarle la sofferenza della prova del vestito da sposa. Anche se avevano ormai un piede sull’altare e il sogno di Margaret di sposarsi un sabato pomeriggio di fine agosto nella Cattedrale di Nostra Signora degli Angeli si era ormai infranto.
Samuel era perfettamente consapevole del dolore e del giro di chiamate che era spettato alla fidanzata e alla sua famiglia per bloccare la cerimonia e tutto ciò che ne comportava fino a data da destinarsi.
Ciò che la sua ragazza, però, non sapeva, e forse nemmeno immaginava, era la settimana che aveva trascorso lui tra le mura domestiche in compagnia dei suoi genitori. Saputa la notizia della missione, la signora Clark aveva iniziato a lanciare minacce di divorzio al marito ogni ora, sicura che l’unico e assoluto colpevole fosse Daniel. Samuel percepiva malcontento ovunque in quella casa, non era certo la condizione ottimale per prepararsi nel migliore dei modi al viaggio. Se solo Margaret lo avesse saputo, sarebbe stata lieta di avere dalla sua parte la suocera. Forse, ripensandoci, era una fortuna che le due non si vedessero da un po’, insieme avrebbero potuto addirittura trovare il coraggio di sabotare la sua partenza. Il ragazzo non aveva fiatato neppure quando la madre gli aveva inveito contro, accusandolo di pazzia per aver accettato un incarico così rischioso e di aver annullato le nozze con un preavviso di appena due settimane.
Sua madre era fiera dei risultati che aveva ottenuto, ancor di più della grinta e della determinazione con cui realizzava i sogni che fin da piccolo teneva sotto chiave. Quella donna era lieta della realizzazione del figlio, ma quando il lavoro occupava uno spazio eccessivo nella vita di Samuel lei aveva il diritto e il dovere di protestare. Esattamente come aveva fatto, quando in nome del Los Angeles Times si era rifiutato di programmare il loro viaggio di nozze; col senno di poi era stata una scelta saggia, ma ai tempi era sembrata a tutti una decisione egoista nei confronti di Margaret.
Alla fine la signora Clark, con enorme dispiacere, non aveva potuto fare altro che accettare il volere del figlio, ma i rapporti con il marito non si erano ancora appianati. Non era difficile prevedere che presto o tardi anche quella donna si sarebbe stancata di lui. Non era la prima volta che lo accusava di essere troppo legato al dio lavoro e il tempo aveva offerto le prove, le conseguenze erano tangibili sul figlio.
Era quello l’esempio con cui Samuel era cresciuto: un vero uomo si considerava in misura al suo posto nel mondo, non al suo ruolo in famiglia o all’affetto che sapeva trasmettere ai propri cari. Per fortuna, il figlio riusciva in parte a discernere da quegli ideali, ma gli restava comunque un grande vuoto dentro che solo le attenzioni sincere di suo padre avrebbero potuto colmare.
Il giovane giornalista, in procinto di vivere quella nuova avventura, aveva dedicato qualche minuto in più per salutare sua madre e per tranquillizzarla sul fatto che sarebbe tornato negli Stati Uniti sano e salvo, forse solo un po’ più grande di spirito.
Era già passato al sesto piano per congedarsi da suo padre. La conversazione con il direttore era stata piuttosto breve e formale. Non si sbilanciava mai, ma essendo il suo ufficio un santuario fatto di tabacco, caffè e pile di cartelle, non avrebbe mai mostrato nemmeno la più piccola variazione emotiva. A Samuel piaceva pensare – e gli faceva anche meno male credere – che in qualche piega della sua anima fremesse per le sorti del figlio e un suo ritorno o una sua dipartita non avrebbero avuto lo stesso effetto su di lui.
Samuel stava attendendo l’arrivo della sorella che – memore della sua puntualità – a minuti si sarebbe dovuta far viva. Le aveva chiesto di accompagnarlo alla base aerea. Lei non seppe negargli il suo aiuto, ma anche senza lasciarlo trapelare era preoccupata per la sua incolumità.
Delilah Clark aveva solo dieci anni in più del fratello, eppure aveva nei suoi confronti un atteggiamento materno al pari quasi della sua vera mamma. Erano legati fin dall’infanzia; anche se a renderli consanguinei erano solo i geni paterni, provavano lo stesso affiatamento di una coppia di fratelli che vivevano sotto lo stesso tetto, anzi forse nel loro caso di più. Delilah era metà indiana e metà americana, ma delle sue origini orientali aveva mantenuto ben poco, tranne una carnagione olivastra e una bellezza che avrebbe acceso gli animi più puri.
Samuel, nell’attesa, fece un ultimo tentativo al numero di Margaret. Aveva con quel gesto mandato al diavolo l’orgoglio della lite e il suo autocontrollo; non ne poteva più di essere ignorato da lei.
Il telefono libero suonò una, due…cinque volte, ma della voce della ragazza non vi era nemmeno un sussurro.
Stanco, aspettò solo che la voce dell’annuncio della segreteria telefonica giungesse e si dissolvesse, per poterle lasciare un messaggio vocale.
 
Margaret.
 So che non vuoi parlarmi, il tuo silenzio è stato fin troppo chiaro in questi giorni.
Il problema è che io non ho più tempo per giocare a rincorrerti,
tra poche ore il mio aereo partirà e l’ultima cosa che voglio è perderti a causa mia.
Da una settimana non ho tue notizie.
Mi manchi,
tanto
e mi mancherai ancora di più nei prossimi mesi.
Ti amo, Maggy
e non sarà la lontananza a mutare i miei sentimenti.

Aveva dovuto stringere in poche battute tutto ciò che il suo cuore urlava, prima che il tempo a disposizione scadesse.
Si soffermò a contemplare il cellulare per qualche secondo, Era ingenuo a credere che bastasse un ti amo per farsi richiamare subito. Posò, con poca grazia, il telefono sulla scrivania e accostò entrambi i palmi al volto. Magari riaprendo gli occhi avrebbe trovato davanti a lui la sua fidanzata sorridente. A farlo tornare con i piedi per terra non fu Margaret - quello sarebbe rimasto solo un bellissimo sogno lontano anni luce dalla realtà -, ma la voce concitata di Delilah.
«Fratellino. L'hai combinata grossa, stavolta. Hai mollato mia cognata sull'altare. Sapevi che mi aveva chiesto di farle da testimone?»
La sorella aveva fatto irruzione nella redazione con un sorriso confortante, in contrasto con i suoi rimproveri. I colleghi di Samuel erano abituati all’esuberanza della donna e alle sue entrate ad effetto.
Il suo ingresso trionfale non li aveva distratti nemmeno per un istante dal lavoro.
Si era appoggiata alla scrivania e puntava il suo sguardo penetrante in quello del ragazzo.
«Ciao anche a te, Delilah. Grazie per avermi informato, ma mi sento già abbastanza uno schifo. Maggy non mi vuole né vedere né sentire. Probabilmente avrà già venduto su eBay il solitario che le ho regalato per la proposta»
Sconfortato, tirò fuori dalla tasca dei pantaloni il pacchetto di sigarette e ne recuperò una. Il fatto che non potesse accenderla, non significava che tra le labbra non potesse avere lo stesso effetto calmante.
La sigaretta ebbe solo il tempo di sfiorare la bocca di Samuel; la sorella, repentina e infastidita, l’aveva afferrata per poi sbatterla sul tavolo.
«Hai così poca fiducia nella tua fidanzata? Forse non vuole parlare con te, ma con me sì e so molte più cose di quante il tuo cervello ne potrebbe elaborare su di lei»
Samuel si accomodò meglio sulla sedia. Come aveva fatto a non pensarci? Delilah avrebbe potuto essere un’ottima mediatrice, in fondo le due erano ottime amiche.
«E cosa ti dice? Che sono un idiota, vero?»
«Anche stronzo, deficiente...evita solo gli insulti che coinvolgano tua madre. Di sua suocera ha particolare stima»
«Ma come ho fatto a rovinare tutto? Insomma, quanti uomini possono raccontare di un rapporto idilliaco tra la moglie e la madre?»
«Pochi. Ma il punto è che non hai rovinato niente, Sam. Margaret non si sognerebbe mai di rompere il vostro fidanzamento»
«Mi stai dicendo che vuole ancora sposarmi?»
«Sì...a patto che tu sopravviva, chiaro. Perché tu hai intenzione di sopravvivere, vero, fratellino?»
«Certo, Delilah. Che domande mi fai?!»
Samuel stava per riappropriarsi della sigaretta che la donna gli aveva ingiustamente strappato, ma lei glielo impedì posando sopra la mano. Delilah aveva aiutato Margaret a smettere di fumare e presto o tardi avrebbe raggiunto qualche risultato anche con lui; non le andava affatto giù che il padre gli avesse ereditato quel vizio, come se la sua persona non fosse già abbastanza nociva per il figlio.
«A proposito di quel ruvido di nostro padre»
«Ti prego, non iniziare anche tu»
«Chiedo solo, visto che non sono salita al sesto piano. Sa che oggi parti?»
«Ovvio che lo sa. L'ho già salutato»
«E ti ha augurato di morire in un agguato?»
«Delilah!»
La donna alzò le mani con innocenza. Aveva solo esplicitato i pensieri di Daniel, nulla di più. Era inutile tutto quello scandalo da parte del fratello.
«Samuel, non è un mistero per nessuno che quell'uomo non spicchi in sensibilità, men che meno con i suoi figli. Mi domando come faccia tua madre a sopportarlo ancora dopo tutti questi anni. La mia lo ha mollato, dopo aver scoperto di aspettare me, per il timore del padre che mi stava dando e non aveva tutti i torti»
«Lo so, non è il miglior padre del mondo, ma è quello che il cielo ci ha donato. In fondo non ci ha rinnegati e a modo suo ci vuole bene»
«Ci mancava solo che non ci riconoscesse! Sam, a volte mi chiedo se sia la tua giovane età a farti avere una prospettiva così rosea della vita e di Daniel. Forse ti basterà arrivare alla mia età, oppure ci penserà prima la guerra a farti aprire gli occhi»
Non scorreva buonissimo sangue tra padre e figlia.
 Delilah era perennemente insofferente verso la personalità di ghiaccio di quell’uomo. Quella mattina, Samuel avvertì che era successo qualcosa di nuovo tra i due; esplicitava più rancore del solito.
«Avete litigato ancora?»
Vide la sorella accomodarsi davanti a lui, sconsolata su una sedia di fortuna recuperata a pochi centimetri dalla scrivania. L’esuberanza della donna era scemata all’improvviso. Aveva ceduto e si apprestava a rivelare le reali emozioni che le stavano attraversando il cuore.
«Non volevo dirtelo prima del matrimonio, per non rovinarti il lieto evento ed ora non vorrei dirtelo prima di partire, per non darti altre preoccupazioni»
Samuel le afferrò la mano e la strinse forte. Voleva che avvertisse nel modo più caloroso possibile che lui c’era, a prescindere da tutto.
«Sono già preoccupato. Cos'è successo?»
«Io e Nathan stiamo divorziando»
«E questo da quando?»
«Intendi, da quando abbiamo avviato le pratiche per il divorzio? Un mese circa»
«Delilah, io non sapevo nemmeno foste in crisi. Margaret lo sa?»
«Sì, lei lo sa. Ma le ho chiesto io di non dirti niente»
«Non ti so esprimere quanto io sia...»
«Sam, tranquillo. È stato meglio così. Immagina se avessimo avuto figli»
Gli sorrise con gli occhi lucidi. Lei sapeva che, di quel passo, non li avrebbe mai avuti nella sua vita, per quanto a modo suo li desiderasse.
Sciolse la stretta del fratello su di lei. Prima di allontanare la mano dalla sua, gli porse una carezza. Gli era grata, come sempre.
«Cosa ha portato la fine del vostro matrimonio? Credevo fossi felice con lui»
«Tante cose, non c'è una causa primaria. Non sono la donna giusta per lui, non siamo compatibili, ci sono lati del nostro carattere che collidono troppo. Mi dispiace solo di essermene accorta tardi, avrei fatto risparmiare tempo ad entrambi. Resta un affetto immenso tra noi e un amore che sicuramente farà fatica a dissolversi. Sono certa di poter parlare anche per lui»
«Quindi vi siete separati consensualmente? Non ho capito però cosa c'entri papà nel tuo divorzio. Non si impiccia mai nelle nostre relazioni»
«E quando lo fa ci va giù pesante il vecchio. Io e Nathan ci siamo lasciati di comune accordo, non abbiamo nemmeno litigato, abbiamo solo capito che la convivenza non era più possibile. L'ho detto a papà qualche giorno fa. Prima o poi lo avrebbe scoperto, di sicuro l'assenza di Nat lo avrebbe insospettito. Ha iniziato ad addossarmi colpe dicendo che sono tale e quale a mia madre. Mi ha persino chiesto se fossi incinta e non certo per un improvviso desiderio di diventare nonno. Tra le righe mi ha dato della sgualdrina, perché in fondo lui e mamma non erano sposati, ma io e Nathan sì e sciogliere quel vincolo per lui è stato un affronto»
A Delilah era sfuggita una lacrima; la raccolse subito, ma ormai le aveva solcato la guancia, lasciando il segno di giorni difficili.
Non aveva offerto a Samuel la possibilità di sostenerla. Lo rincuorava il fatto che Margaret fosse rimasta al suo fianco; lei era la persona più forte e disponibile che conoscesse.
Non era affatto grato al padre. Lo irritò il modo in cui si era rivolto alla sorella; un trattamento simile in un momento di fragilità avrebbe potuto causarle un malessere più profondo. La donna, invece, non si era stupita della reazione del padre, ad essere ferito era stato solo il suo cuore di figlia.
«Non ci voglio credere. Delilah, mi dispiace, ma tu cerca di ignorarlo. Sappiamo entrambi che non è come pensa lui»
«Mi sono illusa. Cercavo solo una parola di conforto da parte di mio padre. Il mio matrimonio è appena fallito e io per prima mi sento una fallita. Non ha bisogno di rincarare la dose»
«Parla con me se hai bisogno, non con lui. Non è capace di ascoltare. Anche se starò via per un po', ci sono comunque. È sufficiente che tu componga il mio numero»
Suo fratello aveva ragione. Daniel non era capace di essere un buon padre, non solo di confortare. Chissà se anche Samuel lo aveva capito.
Delilah era grata a quel ragazzo, ma dubitava che la distanza non avrebbe inciso sulla sua volontà di essere presente nella vita della sorella; era fisiologico per un corrispondente in Afghanistan.
«Se sei ancora intenzionato a partire, sono io a dover aiutare te ora. Dobbiamo andare, altrimenti l’aereo ti lascia a piedi»
«Margaret»
«No, Samuel. Non facciamo in tempo a...»
La donna si accorse dopo dello sguardo incantato del fratello, puntato sulla porta. Samuel si era persino alzato.
Quando Delilah vide l’amica, decise di lasciarli qualche minuto da soli. Voleva offrire loro la possibilità di salutarsi. Meglio ancora se Margaret fosse riuscita in extremis a fargli cambiare idea, ma chiedeva un miracolo troppo grande.
«Ti aspetto in auto»
La donna passò accanto a Margaret, posando con complicità una mano sulla sua spalla.
Samuel iniziava a credere che la presenza della fidanzata fosse la risposta all’ultimo messaggio che le aveva lasciato in segreteria. Lo aveva sicuramente ascoltato. Forse dopo sette giorni di silenzi assordanti, si era soffermata davvero sulle parole del ragazzo, prima di ignorarle per partito preso.
Margaret si avvicinò a lui lentamente. Aveva temuto si fosse già avviato verso quel volo insieme alla sorella. Si era tranquillizzata, solo dopo aver scorto all'ingresso della redazione l'auto di Delilah.
«Maggy»
Gli fece cenno di tacere con una mano. Non era un rimprovero, era una semplice supplica.
«Mi stai piantando in asso ad una settimana dal matrimonio. Mi hai praticamente mollata sull'altare. Ricordati di aggiungerlo al tuo curriculum da delinquente»
Lo fece sorridere. Anche se descritto in quei termini il suo comportamento gli suscitò tanta vergogna; motivo per il quale dovette abbassare lo sguardo, prima di rispondere e reggere quei due pozzi di petrolio che la fidanzata aveva al posto degli occhi.
«Ho solo posticipato. Dai, in fondo, fine agosto non è il periodo giusto per sposarsi. Piove quasi sempre, le giornate di sole sono rare. Cosa ci è saltato in mente, quando Padre Ralph ce lo ha proposto? Ci sposiamo la prossima estate»
Glielo stava promettendo. Lui era dannatamente sicuro di sopravvivere. 
Incosciente, pensò Margaret, nessuno dei due è certo che tu ci sarai. Non sprecare promesse.
«Sarà meglio per te. Sono riuscita a malapena a fermare l'istinto omicida di mio padre»
«Ehi. Io non sono un soldato. Non mi so difendere»
Quella battuta la rattristò. Il suo fidanzato era davvero indifeso in guerra. Era armato solo di una fotocamera o poco più e ciò le dilaniava il cuore.
Solo quando Margaret gli porse la camicia di cui tempo prima si era involontariamente impossessata, lui fece caso all’indumento che teneva tra le mani; fino a quel momento era stato troppo concentrato sul volto affranto della fidanzata. Era certo fosse ancora la sua promessa sposa, gli aveva finalmente dato la conferma, alleggerendo la sua anima.
«L’ho portata via con me l'ultima volta che ci siamo visti»
«È solo una camicia. Puoi tenerla»
«È pulita, l'ho lavata»
Era solo una frase di circostanza per colmare i vuoti inaspettati che lui le avrebbe lasciato, dentro e fuori. Non era ciò che una settimana prima si era immaginata per la loro vita, anzi era l’esatto contrario.
«Sam»
«No, lascia parlare me, ho poco tempo. Hai ragione, mio padre condiziona sia la mia vita che quella di mia sorella. Ma ora, amore, ho bisogno della tua stima e non quella di mio padre. Ho bisogno che tu sia orgogliosa di me. Sto seguendo solo il mio cuore, è un'opportunità che non voglio perdere. Non ho paura, voglio soltanto crescere come giornalista e come uomo. Se so di avere il tuo appoggio non importa quanto sarò lontano, tu sarai lì con me»
Si era avvicinata a lui, costeggiando la scrivania che fino a quel momento li aveva separati nello spazio.
«Samuel, io sono già fiera di te. Non ho bisogno di dire che il mio uomo ha scritto il suo nome su un reportage a Kabul per esserlo. Nel mio futuro vedo un marito, non un martire. Magari anche qualche figlio»
Lo fece sorridere un po' imbarazzato. Ad una famiglia allargata non aveva ancora pensato, ma non la disdegnava affatto, anzi l’avrebbe desiderata solo con Margaret al proprio fianco.
Samuel vide crollare la sua roccia emotivamente. Si era commossa e raramente aveva visto le sue lacrime inumidire le pupille.
«Non privarmi del nostro futuro. È ciò che desidero più di ogni altra cosa»
La attirò a sé quasi sconvolto per lo sforzo che la ragazza stava facendo a non cedere ad un pianto disperato.
«Ci sarò nel tuo futuro. Sarà il nostro futuro. Grazie, Maggy, per essere passata a salutarmi»
Margaret lo strinse più forte, affondando la mano in quella chioma bionda e morbida. Il suo viso premeva contro la spalla del fidanzato. Era lei stavolta ad averne un bisogno vitale.
 

Buongiorno, cari lettori e care lettrici!

Mi scuso per la lunghezza ma non ho potuto fare altrimenti, non volevo spezzare il capitolo e dilungarmi ulteriormente in altri preamboli. Nel prossimo capitolo inizierò ad affacciarmi ad altri territori.
Mi tocca svelare il mio modello letterario. Lo scrittore statunitense Dan Brown mi ha ispirata con la saga del professor Langdon; per chi non lo conoscesse, il professore soffre di una fobia per l’ascensore e tutti i luoghi chiusi (più semplicemente claustrofobia) a seguito di un trauma infantile. Allo stesso modo a Christian, anche se viene descritto come un eroe, ho voluto lasciare qualche fragilità umana; lui come a tanti personaggi di questa storia.
Vi ringrazio immensamente per continuare a seguirmi! ❤️

Alla prossima!
Un abbraccio,
Vale
 
[1] 4 luglio 1776
 
   
 
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