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Autore: keska    03/05/2020    2 recensioni
Capitoli EXTRA della storia "CULLEN'S LOVE".
«Perché… anche la pioggia, sai» singhiozzai «anche la pioggia tocca il mio corpo,
e scivola via, non lascia traccia… non… non lascia nessuna traccia. L’unico a lasciare una traccia sei stato tu Edward…
sono tua, sono solo tua e lo sono sempre stata…».

E se Jacob, ricevuto l’invito di nozze non avesse avuto la stessa reazione? Se non fosse fuggito? Come si sarebbe comportato poi Edward?
Storia ambientata dopo Eclipse.
Genere: Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Edward Cullen, Isabella Swan | Coppie: Bella/Edward
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'CULLEN'S LOVE '
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29 luglio 2011. La quarantena.

 

«Amore di mamma, hai la bua al pancino?» domandai, piegandomi maldestramente sulle ginocchia. Mark se ne stava lì, piangente, dopo aver spiaccicato sul pavimento la pastina che con tanta solerzia gli avevo preparato e che pochi secondi prima era nel suo stomaco.

Aveva le guance paffute rosse, striate di bianco per via delle lacrime. Non ebbi quasi bisogno di poggiare una mano sulla sua fronte per capire che avesse la febbre. Dopotutto, era quello che era successo anche a Juliet il giorno prima, e quello era il motivo per cui Edward non c’era: l’avevamo messa in “quarantena” fra le coccole di casa Cullen. Un figlio malato uguale quattro figli malati. E il nostro piano era evitarlo ad ogni costo. Piano fallito.  

«Mamma!» si lamentò Kate alle mie spalle «che schifo! Mi viene da vomitare».

Mi voltai un attimo per guardarla e insieme controllare la situazione. Lo diceva per attirare l’attenzione o stava male anche lei? Mi sembrava che più che essere nauseata aveva un’espressione di disgusto sul viso. «Vai di là a vedere la tv». Sollevai lo sguardo per controllare Anne, che frignava sul seggiolone, agitando il suo giocattolino di plastica.

«Nooo» piagnucolò Katie «voglio stare con te» fece, mettendo il broncio.

Mi sollevai, malferma sulle gambe, trascinando Mark con me e reprimendo un conato. Quasi non me ne accorsi, brava com’ero diventata a farlo. Senza staccare il mio ometto da me prelevai dall’armadietto alcuni prodotti e uno straccio. «Allora Katie cantiamo una canzone, che ne dici?» feci, sperando di tranquillizzare il pianto di Mark e Anne e insieme tenerla buona.

«Cantiamo Milla!» propose allegra.

Mormorai dolci paroline alla mia bimba più piccola e al piccolo malatino, attaccato come un koala alle mie spalle. «Va bene. Milla. Inizia tu». Mi piegai ancora in terra per pulire. Mi costava un certo sforzo, con il pancione e il resto.

«Millaaa la paperella tranquillaaaa… anche tu, mamma!» proseguì infastidita dalla mia scarsa partecipazione.

Presi un respiro. Anne stava piangendo più forte, gli occhi lucidi e il labbro tremulo. Eh sì, mi sa che avevamo proprio fallito. Afferrai un giocattolino da terra sventolandoglielo davanti alla faccia, mi assicurai Mark più stretto alle mie spalle e mi preparai a pulire con l’unica mano rimasta libera. «Mangia il minestrone non le viene il raffreddore…» continuai la canzone.

Kate cominciò a ballare in tondo. «Mangia il brodino e diventa un bel bambino…».

«Bella» mi sentì chiamare. Era un sibilo fra lo sconvolto e lo sconsolato.

Alzai gli occhi per vedere mio marito. «Oh, Edward, come sta Juliet? Mark ha vomitato e ha la febbre. Credo che anche Anne si senta poco bene. Piano fallito».

In un secondo mi sentii sollevare dal peso di Mark sulle spalle. «Perché non mi hai chiamato?» fece, un po’ scocciato un po’ preoccupato, avvicinandosi ad Anne che intanto si sbracciava verso la sua direzione. La rassicurò con qualche parola, posando un bacio sulla sua fronte e aggrottando le sopracciglia. «Sì, ha la febbre anche lei, ma il piano non è fallito» aggiunse, scoccandomi un’occhiata ansiosa.

Mi concentrai sul mio lavoro, finendo di pulire molto più rapidamente. Certo, perché la sua preoccupazione maggiore, nonché suo reale intento per la quarantena, era che io non venissi contagiata.

«Papà!» lo chiamò Kate, che intanto si era abbarbicata su una sua gamba.

Si piegò per esaminarla. «Anche tu stai male?» fece, tastandole la fronte e la pancia.

Lei fu molto contenta di ricevere quelle attenzioni, anche quando, alla fine, il padre constatò che non avesse assolutamente nulla. Per fortuna.

«Hai finito di stancarti?» mi venne vicino, aiutandomi ad alzarmi e massaggiandomi preoccupato il pancione «perché non hai chiamato aiuto?».

Gli accarezzai il viso con dolcezza, passando poi velocemente a Mark. «Va tutto bene, davvero. È stato un piccolo momento di crisi, ti avrei chiamato fra due minuti. A questo punto non ha senso tenere Juliet di là. Possiamo chiedere a qualcuno di riportarla qui. Piano fallito» sussurrai con aria cospiratrice, facendo ridere Kate.

Edward mi prese il viso fra le mani, ansioso. «No» pigolò.

Gli feci un piccolo sorriso di scuse, gli baciai una guancia. «Se tieni la situazione sotto controllo per cinque minuti vado in bagno a vomitare e torno. Così ci risparmiamo questo casino».

«Vai». Alzò gli occhi al cielo e in un attimo aveva il cellulare all’orecchio. «Vedi tu, mi deve chiedere anche il permesso per vomitare…» lo sentii borbottare.

Ridacchiai, ma ben presto la nausea ebbe la meglio.

 

«Bella, ti devo fare per forza una flebo perché in queste condizioni di disidratazione…» mi stava spiegando Carlisle, mentre intanto già preparava la sacca e prendeva la cannula dalla sua borsa.

«Lo so» lo interruppi «non ti preoccupare. È colpa mia, che sono la peggior paziente gestante di sempre. Dovevo prendere tre chili e invece questa influenza intestinale…» alzai gli occhi al cielo, accarezzando il pancione.

Mi sorrise, benevolo. «Non sei per niente la peggiore paziente gestante di sempre. La migliore, direi. Non ho mai visto una madre che si adopera così tanto per i suoi figli, e sempre così allegra e disponibile, pronta a mettere tutti davanti a sé…».

«Amore?» mi richiamò preoccupato Edward, entrando nella nostra camera da letto mentre Carlisle infilava l’ago nella vena e faceva scorrere il mandrino.

Rabbrividii un attimo, ancora rossa in viso per le parole di Carlisle. «Ehi, va tutto bene» lo rassicurai, facendogli con la mano libera un gesto perché si avvicinasse.

«…anche tuo marito» proseguì mio suocero con un sorriso, assicurando la cannula con un cerotto. «Vi lascio soli».

«I bambini?» domandai, accarezzandogli i capelli.

I suoi occhi mi scrutavano dall’alto in basso, poi si concentrarono sul braccio collegato alla flebo. «Stanno bene. Ognuno con una o due balie. Naturalmente cercano te, ma ti prego…» iniziò, come una supplica. Lo sapeva che ero pronta ad alzarmi ed andare a controllarli.

Decisi per il suo benessere psico-fisico che potevo rimanere a letto per un paio d’ore, giusto il tempo che la sacca della flebo si fosse svuotata. Non mi andava di farmi vedere così dai bambini, e sapevo che con i loro zii e nonni sarebbero stati bene ugualmente. «Tranquillo, non mi alzo da qui. Giuro» scherzai.

Le sue dita si posarono sulla mia guancia. «Come va la nausea? La pancia?».

Ci pensai su. Prima che me lo chiedesse mi ero quasi dimenticata di avere un corpo. Ora, in effetti… Scrollai le spalle.

Sospirò, prendendomi il polso della mano libera. «Sei magra…».

«Mi dispiace, amore. Mi sono impegnata. Appena passa l’influenza mi impegno di più, lo prometto».

Scosse il capo, come se trovasse assurde le mie parole. «Ti ingozzo di dolci. Al diavolo la dieta controllata! Ti farò mangiare tutte le porcherie dei fastfood».

Scoppiai a ridere, riconoscendo l’ironia nella sua voce. Le labbra si erano piegate in un mezzo sorriso. «E i bambini? Che esempio daremo loro?» finsi di rabbrividire.

Fece una faccia perplessa. «Bambini? Quali bambini?».

Risi più forte, e si unì a me, baciandomi le labbra fra le risate.

«Papà, mamma!» chiamarono delle voci, mentre la porta si apriva.

«Ah già. Quei bambini» sghignazzò nascondendo il viso sul mio seno.

 

15 agosto 2011. La sera di Ferragosto.

 

Bella

 

«Oh, yeah! Sì!» esclamai, saltando giù dalla bilancia. “Saltando” per quanto il pancione me lo consentisse. «Sono stata brava, ammettetelo».

Carlisle rise. «Hai preso in totale 4 kg. La metà del peso che avresti dovuto raggiungere alle 32° settimana».

«Ehi, bisogna considerare che ci sono quei 2 kg che avevo perso all’inizio e tutto il resto. Sono stata bravissima, su!» dissi, aggiungendo una linguaccia alla volta di Edward.

Rise e venne a prendermi fra le braccia. «Allora possiamo riprendere il nostro allenamento?» mi sussurrò maliziosamente ad un orecchio.

«Edward!» mi allontanai sconvolta, il viso caldo per il rossore. Avevamo già ripreso il nostro allenamento, giusto la sera precedente…

Carlisle aveva le labbra strette per trattenere una risata, ma Emmett e Rosalie risero dall’altra stanza.

Esme venne in mio soccorso. «Tesoro, è tutto pronto di là. Finisco giusto di farcire i dolci. Tuo padre arriverà fra un’ora. Alice e Jasper stanno giocando con le gemelline nella piscinetta». Mentre parlava mi si fece accanto e quasi sovrappensiero iniziò a massaggiarmi il pancione.

«Bene. Allora io vado a fare una doccia al volo e sono subito dei vostri» feci, sollevando i capelli che erano rimasti incollati alla nuca. L’estate di Forks poteva essere davvero torrida.

Edward sostituì la mia mano con la sua, rinfrescandomi il collo. «Perché invece non fai un bel bagno rilassante, ti riposi un po’…?» mi propose suadente, e quasi gli stavo chiedendo di farmi compagnia se non fosse stato sconveniente con tutta la sua famiglia in casa e mio padre in arrivo.

«Baaasta!» piagnucolò Kate, correndo al mio fianco. «Con te non ci gioco più a nascondino! Non vale» disse, puntando un dito contro il piccolo Mark, che aveva il broncio.

«Ma tu vuoi semp-e sciocare a acchiapparella e io no ti pendo!» protestò lui spostando lo sguardo dalla sorella a me e tendendo le braccia per farsi prendere in braccio.

«La mamma non ti può prendere, Mark. Ha già la sorellina» gli spiegò con un’occhiata impaziente, guardando il mio pancione.

Rabbrividivo a pensare come fosse cresciuta in soli quattro anni. Edward prese Mark al mio posto e li rabbonì con un paio di parole. Ma Kate continuava a guardarmi con uno sguardo sconsolato. Oltre al fatto che la sua crescita intellettiva fosse decisamente più rapida di quella di un qualunque bambino umano, la sua era stata accelerata anche dal fatto che fosse la primogenita, a cui seguivano rapidamente tre… quattro bambini.

«Katie, tesoro, vuoi venire con la mamma a fare il bagno? Giochiamo con le peperelle e ce ne stiamo un po’ per conto nostro».

Le si illuminò il viso e corse a prendermi per mano, trascinandomi verso la camera da letto, estendendo il suo scudo oltre il mio corpo. Lo faceva sempre quando voleva stare un po’ con me, da sola.

«Non ti stancare!» mi gridò dietro Edward, vedendo fallito il suo piano di rilassamento.

Nella vasca da bagno Kate stette tutto il tempo a farsi coccolare, e recuperò il cattivo umore perso a causa del nascondino. Mi piaceva dedicare un po’ di tempo a uno solo dei miei figli, e con lei, che era così autonoma nonostante i suoi quattro anni, accadeva sempre così poco spesso.

Le baciai la testa, abbracciandola sotto il pelo dell’acqua. «Allora, come la chiamiamo la sorellina?» le domandai con un sorriso.

Finse di pensarci un po’ su, portandosi un dito sotto il mento. I suoi occhi verdi erano meravigliosi, così simili a quelli del padre. Strinse la sua peperella. «Milla?» propose.

Trattenni un sorriso. «Come la peperella tranquilla?».

«Sì!» esclamò con un grande sorriso.

A quel punto risi, senza pensarci. «Come stanno le dita? Raggrinzite al punto giusto?» scherzai, facendole esaminare i polpastrelli.

Guardò prima i suoi e poi i miei. «Tu di più» fece sicura «e va bene, usciamo» aggiunse, con la sua aria da donna vissuta, scavalcando agevolmente il bordo della vasca nonostante la bassa statura.

Ridacchiai, imitando il suo movimento con molta più goffaggine, per via del pancione. Presi un grande asciugamano bianco e ce l’avvolsi, usandone un altro per sfregarle i capelli. Fece una smorfia, ma non protestò.

«Allora, sei contenta di vedere anche nonno Charlie stasera? Festeggiamo Ferragosto tutti insieme» le domandai, prendendo intanto un grande telo per coprirmi. Iniziai a pettinare i capelli. Erano lunghissimi, ma a Edward piacevano tanto, e avrebbe voluto che li portassi anche nella mia prossima nuova vita, non appena avessi smesso di allattare l’ultima arrivata…

«Sono molto, molto contenta!» disse allegra, cominciando a saltellare. Era completamente avvolta dai teli bianchi, così tanto che a stento le si vedeva la faccia. Sembrava un pupazzo di neve.

Risi, e mi piegai alla sua altezza. «Vieni qui che ti infilo le mutandine. Non ti trovo quasi più lì sotto» scherzai, facendole il solletico.

Mi rialzai per afferrare il vestitino che le avevo preparato. Prima che potessi terminare il movimento un gemito sconvolto mi passò fra le labbra aperte, tanto che non riuscii a controllare la maschera di dolore che era diventato il mio viso.

Lo vedevo da come mi fissava Kate: terrorizzata.

In preda al dolore lancinante mi lasciai scivolare lentamente con la schiena contro le piastrelle del bagno, tremante, controllandomi quanto bastava per non urlare. Di più non avrei potuto fare.

«Katie… amore…» sussurrai, quando fui abbastanza certa che avrei potuto controllare la voce.

I suoi occhi erano ampi, grandi e fissi sul mio viso, e risaltavano così tanto in mezzo a tutto quel bianco da cui era avvolta.

«Amore, va… tutto bene. Stai… pensando a papà di… venire qui…?» incespicai a fatica.

Non mi rispose. Mi occorse un secondo per capire che eravamo sotto il suo scudo. Non avrebbe mai potuto sentirla, e con la stanza insonorizzata…

Presi un respiro per non farmi prendere dal panico. Un dolore immenso mi stava dilaniando la pancia, irradiandosi per tutta la schiena. Io, che avevo partorito altre tre volte, potevo con sicurezza dire che non si trattava di semplici contrazioni. Faceva un male cane. Feci leva sui palmi delle mani per tenermi seduta e impedirmi di scivolare a terra e strinsi le labbra per trattenere un gemito più forte.

«Piccola, amore… Va tutto bene, va tutto bene, vieni qui…» cantilenai, ma la mia voce era distorta, e non riuscivo a guardarla in faccia. Sentivo il sudore freddo che m’imperlava la fronte, e tremavo, il fiato corto.

Non si mosse. Il terrore nel suo sguardo si fece più marcato. Se solo fosse scappata via, se solo avesse anche solo socchiuso la porta della stanza…

«V-v-vai da papà» balbettai, sentendo le forze abbandonarmi e il dolore incalzare sempre di più. «Ah…» gemetti non riuscendo a trattenermi «Va tutto bene… Va’ da papà piccola, ti prego… Vai da papà…». La vista si sdoppiò. «L-la mamma sta bene… t-ti vuole bene… va tutto bene…» non potei fare a meno di rassicurarla, seppure inutilmente.

Il labbro le tremava forte. Cosa vedeva da sotto il suo scudo? Cosa aveva intuito?

«Vai» gemetti a denti stretti, cantilenando la parola. Mi lasciai andare con la testa contro il muro, ma lottai, con tutte le forze per non far uscire neppure una lacrima. Mi morsi le labbra, mentre i contorni di tutto si facevano più sfocati. «Vai» soffiai ancora, prima di perdere i sensi.

E in quel momento avvertii il singhiozzo terrorizzato di mia figlia.

 

Edward

 

Stavo giocando con Mark a nascondino. Era il suo gioco preferito, com’era logico che fosse dato il suo potere di rendersi invisibile. Ma io riuscivo ancora ad ascoltare i suoi pensieri di tanto in tanto, e questo lo rendeva felice, essendo il gioco più equilibrato.

Nel soggiorno c’era un gran viavai di bambini e vampiri, tutti eccitati dalla serata di ferragosto insieme. Quanto a me, speravo che si stancassero abbastanza da dormire profondamente, e consentirmi di passare un po’ di tempo con mia moglie, quella notte… anche solo a coccolarla e lasciarla riposare. Come si era stancata ultimamente! E sempre con abnegazione, senza un lamento, con il sorriso sulle labbra. Aveva quasi fatto angosciare anche mio padre, sempre così calmo e risoluto, preoccupato per come si stesse bistrattando in quella gravidanza. Ma per fortuna ora aveva recuperato, e tutto stava andando per il meglio.

«Charlie arriverà fra undici minuti! È tutto pronto» disse Alice, svolazzando per la stanza e dando istruzioni.

I nonni coccolavano Anne sul divano, Rosalie e Emmett cambiavano Juliet. Sorrisi. Tutto mi sembrava così perfetto.

La porta della camera da letto si aprì di scatto, e mi bastò un sedicesimo di secondo per voltarmi e vedere mia figlia. Aveva indosso solo le sue mutandine rosa e mi correva incontro, veloce. Quello che attirò la mia attenzione fu il suo viso terrorizzato, pieno di lacrime, e i suoi gemiti incontrollati. Il primo istinto fu di sondarle i pensieri ma… niente. Era completamente muta.

«Katie, amore, cos’hai?». L’accolsi fra le braccia, allarmato, controllando le varie ipotesi. Tutta la mia famiglia si era voltata nella sua direzione, ma solo Carlisle si era avvicinato, sapendo che i movimenti bruschi le avrebbero fatto innalzare lo scudo e reso il tutto controproducente.

Non mi rispose, continuando a piangere a squarciagola. Il primo pensiero fu controllare che non fosse ferita, e la scrutai rapidamente, avvalendomi anche delle informazioni che passavano nella mente di mio padre. Ma non sembrava avesse nulla. Eppure, non le avevo mai visto addosso quello sguardo d’angoscia…

In un attimo avvennero tre cose. I pensieri di mia figlia si fecero accessibili, come una bomba che mi esplodeva nella testa. La piccola singhiozzò «Mamma!» e un familiarissimo, distinto, odore di sangue si diffuse dal bagno.

«Bella» ruggii, e in un attimo Esme mi aveva preso la bambina dalle braccia, e più veloce anche di mio padre mi ero materializzato nel nostro bagno.

Mi raggelai, impietrito da quello che vedevo. Era riversa in terra, avvolta da un telo bianco di spugna. Pallidissima, sudata, ansante. Dalle sue gambe originava una pozza cremisi.

«Bella!» la chiamai forte, prendendola fra le braccia e scuotendola. «Bella amore! Amore mio! Rispondimi». Dentro di me sentivo l’angoscia che mi investiva a ondate, mentre la mia mente cercava freneticamente una soluzione o una spiegazione a ciò che vedeva.

I suoi occhi fluttuarono verso l’alto, ma erano vacui, come se faticasse a mettere a fuoco. «Fa male…» farfugliò «malissimo… non… come le altre volte…».

Carlisle le aveva preso il polso, tastato la fronte, si era chinato velocemente ad esaminare la fonte del sanguinamento. «Ha un distacco di placenta. Dobbiamo far nascere la bambina ora, se vogliamo che sopravvivano».

Rischiavo di perderle. Entrambe. «Amore, andrà tutto bene» rassicurai Bella, angosciato. In un attimo volai in camera, coprendola al meglio con il telo.

Carlisle era sempre rimasto al mio fianco. «Emmett, prepara l’auto, andiamo in ospedale» disse a voce più alta, in modo che lo sentisse.

Alice comparve nella stanza. I suoi occhi erano vacui e pieni di terrore. «Non c’è tempo. Se non lo farai qui una delle due morirà».

«Qui?» ruggii, stentando ad immaginare come fosse possibile. Non c’era tempo di farla partorire. Un cesareo. Le trasfusioni. L’emorragia. Il deficit d’ossigeno.

«Edward» singhiozzò Bella fra le mie braccia, stringendosi il ventre pieno «non lasciare che muoia… ti prego… non lasciare che la nostra bambina muoia…».

Se fossi stato umano avrei urlato, il cuore mi sarebbe esploso dal petto, avrei perso la concentrazione. Ma ero lì, vampiro, e pensavo. Quanto tempo era rimasta in quelle condizioni? Perché, dannazione, non le avevo fatto tenere la porta aperta? Perché l’avevo messa in pericolo? Perché le avevo permesso di stancarsi così tanto?

«Non abbiamo il sangue…» farfugliai.

Mio padre si chinò su Bella, la girò sul fianco sinistro. «Non importa».

«Non è sterile».

«Non importa, Edward». Carlisle la liberò dal telo, affannandosi per bloccare l’emorragia. La maggior parte del sangue le rimaneva nell’utero, bloccato dal peso del bambino.

«Non le possiamo fare l’anestesia».

«Edward» mi richiamò ancora mio padre. «Non importa più, ormai».

Bella urlò, graffiando con le unghie contro il braccio di mio padre, stringendo la sua mano insanguinata. «Carlisle salvala ti prego! Ti prego, ti prego! Tirala fuori».

Mio padre si chinò, e la guardò negli occhi. Le voleva bene, come si vuole bene ad una figlia. Le accarezzò i capelli, madidi di sudore. «Sai cosa mi stai chiedendo?».

Bella annuì, freneticamente, gli occhi ampi e vacui, prima di urlare ancora, contorcendosi.

Non importava più, ormai. Perché l’unico modo di salvarle entrambe era trasformare Bella.

«Papà…» gemetti, e mi sentii infinitamente più piccolo di Mark quando mi chiamava nel cuore della notte «non senza morfina, ti prego» tremai, agghiacciato all’idea del ventre di mia moglie squarciato sotto i miei occhi fra le sue urla di dolore.

Annuì, guardandomi pieno di compassione. «Facciamo in tempo a procurarci un bisturi e della morfina».

Qualcuno volò via da casa, mentre altri si preoccupavano di tenere buoni i bambini e non fargli sospettare quello che stava per avvenire.

Strinsi con tutta la forza concessami Bella, accarezzandole i capelli. «Presto passerà tutto, promesso. Non farà più così male, lo giuro».

Si aggrappò a me, stringendo i denti e cacciando un grido di dolore, la testa riversa e i muscoli del viso tesi.

«Ha delle contrazioni tetaniche» pensò velocemente mio padre, prima di riservarmi un’occhiata velocissima. «Vuoi uscire?». Non ci fu neppure bisogno di rispondere. Vidi il mio volto nei suoi pensieri mentre capiva che non mi sarei mosso di lì.

Rose entrò nella stanza con la sua borsa. Carlisle controllò velocemente l’interno: bisturi, cannule, divaricatore, pinze, fisiologica, morfina, garze, betadine, deflussore.

«Un bolo di morfina 10 mg» mormorò velocemente Carlisle, per un momento incerto se lanciare la boccetta a me o Rose.

L’afferrai al volo, e in un attimo avevo individuato una vena del braccio piuttosto lunga e dritta. Le sistemai un accesso, in modo che Carlisle avrebbe potuto usarlo anche più tardi. Ci misi due secondi e mezzo. «Non sentirai più nulla» la rassicurai, sfiorandole il viso, prima di premere lo stantuffo e lasciare che il medicinale andasse in circolo. Darle sollievo in quel modo mi sembrava l’unica cosa che potessi fare.

I suoi movimenti si fecero sempre più lenti. Carlisle aveva già preparato il campo operatorio. Mi feci vicino al suo capo, facendola voltare nella mia direzione. «Non guardare. Va tutto bene, non guardare».

«Ed-ward» mormorò piano, mentre la lama del bisturi tagliava veloce la sua pelle bianca. I suoi occhi facevano difficoltà a mettermi a fuoco.

«Sono qui».

Si umettò le labbra. «Se… se non…» sospirò «chiamala Camilla, va bene?».

Sorrisi, stringendole forte la mano. «Camilla».

Ricambiò il mio sguardo, poi le sue palpebre fluttuarono verso il basso. «Ti amo» sussurrò, perdendo finalmente i sensi.

 

 

Ciao amici!

Non so davvero da quanto tempo avevo questo capitolo sul PC in attesa di essere pubblicato… anni.

Meglio tardi che mai.

Nell’ultimo periodo ho rimesso pesantemente mano ad alcuni capitoli di Cullen’s Love che non mi convincevano, qualcuno mi ha contattato perché ha notato le differenze. Mi fa piacere che dopo così tanto tempo vi salti ancora in mente di leggere questa storia!

Un nostalgico abbraccio,

la vostra Francesca.

   
 
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