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Autore: G RAFFA uwetta    04/05/2020    4 recensioni
La Vita è il ticchettio che scandisce l'ora.
La Morte è il silenzio tra una oscillazione e l'altra del pendolo.
Il Tempo è la velocità con cui la ruggine polverizza l'orologio. (G RAFFA uwetta)
Sarà una raccolta con tema principale i sogni e le sue molteplici sfumature.
Scelgo te si è classificata quarta al contest ‘Tattoo Studio’ indetto da wurags, rilevato da Juriaka, sul forum e quinta al contest ‘L’enigma dell’Uroboro’ indetto da _ Freya Crescent _ sul forum.
Pieghe tra le lenzuola partecipa al contest 'Scriptophobia' indetto da Soul_Shine sul forum.
Anche gli incubi hanno fame partecipa al contest 'Generi a catena' indetto da Dark Sider sul forum e al contest "Hold my Angst (Flash contest - Edite e inedite)" indetto da GaiaBessie sul forum di efp. Ha vinto il 'Premio come migliore storia in conorso'.
Genere: Drammatico, Horror, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: Missing Moments, Raccolta | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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Prefazione: Gli incubi rappresentano le nostre paure, le angosce più profonde che tormentano le nostre anime.

E se così non fosse? E se gli incubi fossero entità a sé stanti?

Cosa celano quelli di Luana? Cosa vogliono da lei?

Questa storia partecipa al contest ‘Generi a catena’ indetto da Dark Sider sul forum.



Anche gli incubi hanno fame



Accarezzate dalla brezza, le tende rosa si muovevano appena. Gli scuri erano uno scudo contro il sole abbagliante e il frinire delle cicale aveva cullato Luana fino a farla addormentare.



I muri in cemento erano spogli tranne per i quattro tubi al neon, uno per ogni parete, che illuminavano dall’alto il tavolo e le apparecchiature ospedaliere. Una lampada da sala operatoria sovrastava una lettiga senza ruote e l’aria era satura dell’odore di disinfettante e medicinali.

Legata strettamente al materassino, c’era una giovane donna gravida. Il pancione riluceva di sudore sotto l’impietosa luce artificiale. Per quanto le era possibile, si dimenava, scuotendo il corpo, strattonando gli arti fino a farli sanguinare.

Luana raccolse il bisturi dal vassoio alla sua sinistra, mise la mano all’altezza dell’ombelico della ragazza e tagliò la carne fino al pube. Aiutandosi con un dilatatore per grossi animali, separò i lembi. Fece una seconda incisione sulla membrana uterina e, con la dovuta cautela, estrasse il neonato; con un colpo secco recise il cordone ombelicale.

Tenendolo davanti a sé si spostò di lato e immerse il corpicino in un catino. Lavò via lo sporco e l’avvolse in un grande asciugamano. Ritornò sotto la lampada e, per pochi istanti, rimirò il viso accartocciato del bambino in cerca di difetti. La pelle era screpolata e rosea, dalle palpebre serrate scivolavano grosse lacrime e la piccola bocca era spalancata, avida di ossigeno. Soddisfatta, attraversò tutto il locale e oltrepassò il muro come fosse fatto d’aria.

La nuova stanza era buia e sembrava non avere fondo. Luana voltò il capo a destra verso il camino, le cui fiamme creavano giochi di luce sulla culla dalle lenzuola bianche bordate di pizzo. Depositò il dolce fardello e, come il corpicino toccò il fondo, ogni rumore riprese vita.

Le urla agghiaccianti che scaturivano dalla gola della donna nell’altra stanza…



ridestarono Luana.


Stralunata, si passò la mano sul volto accaldato, cacciando dalla fronte una ciocca di capelli neri. Non riconoscendo subito la stanza, saettò gli occhi chiari attorno, nervosa. Sentiva battere forte il cuore, quasi avesse corso invece che riposare nel letto. Per riflesso, le dita abbandonate sul materasso stropicciavano il lenzuolo. Era un gesto abituale, uno strascico infantile che teneva lontano l’omino dei sogni.

L’improvvisa secchezza della gola la costrinse ad alzarsi.

Barcollando, raggiunse il lavabo incastrato nel muro, tra l’armadio e il cassettone. Sciacquò più volte il bicchiere prima che l’acqua fresca le lambisse le labbra aride. Ingollò a fatica due sorsi, la gola che bruciava in profondità.

Un guizzo nello specchio, appeso sopra il sanitario, attirò la sua attenzione: una striscia rossastra tagliava in due la sua faccia e spariva inghiottita dai capelli aggrovigliati.

Sussultò e il bicchiere si infranse sul marmo.

Allungò le dita tremanti verso il proprio viso e il riflesso rivelò che anch’esse erano sporche di sangue. Il gelo si impadronì di lei mentre si specchiava nei suoi stessi occhi vitrei; una saetta dolorosa le attraversò il cervello. Chinò il capo e, al posto del basso ventre, c’era una voragine. Provò febbrilmente a ricongiungere i lembi strappati e, quando si rese conto che un fluido denso e caldo le scivolava lungo le cosce, urlò.

Cadde a terra in una pozza ferrosa e viscida; il vagito di un bimbo riempiva la stanza.



Ovattati, avvertiva i colpi inferti alla porta... delle grida... Le sfuggiva il senso.



La culla di legno chiaro dondolava in un angolo; una mano mollemente adagiata sugli intarsi ne dettava il ritmo.

«Ottimo, ma non è mai abbastanza.» L’ombra attaccata alla mano si allungò su di lei, la sopraffece e il lezzo di fiori appassiti le invase la bocca.

Cercò di spostarsi, il rigurgito che le formicolava in gola. Allungò le braccia per aggrapparsi alle gambe della culla. Fece leva, ma cedettero come fossero gelatina; il resto del corpo pietra dura. Mosse la testa di lato, puntando la fronte in terra quasi fosse un artiglio.


In quell’istante, la porta si aprì e la luce fagocitò il pavimento. L’ombra rise sinistra e venne assorbita dalle pareti.


«Luana!» esclamò una voce femminile. L’infermiera si inginocchiò accanto a lei. «Ho sentito un tonfo e non hai risposto subito. Cosa è successo?»

«Oddio! Aiutami! Il mio ventre! Il mio bambino!» E si aggrappò a lei come un naufrago.

«Non c’è nessun bambino. Hai avuto un incubo.»

«Le mie mani, guarda, sono sporche di sangue. C’è sangue ovunque,» balbettò concitata, scuotendo le braccia della donna.

«Hai fatto cadere il bicchiere, Luana. Non preoccuparti, sono solo piccoli tagli.» Cercò di convincerla mentre l’aiutava a raggiungere il letto, ignorando i suoi vaneggiamenti. «Ecco, vedi? Ora pulisco e disinfetto tutto.»

Sul comodino c’erano varie boccette di medicinali. Prese un paio di pillole e l’aiutò a ingoiarle. Aspettò che facessero effetto, dopodiché uscì a chiamare un inserviente affinché riordinasse la stanza.


La clinica privata “Oasi di pace” era stata costruita un secolo prima all’interno di una pineta. Sprazzi verdi erano disseminati un po’ ovunque, muniti di comode panche a uso degli ospiti. Un sentiero battuto conduceva alla spiaggia privata sulla riva di un piccolo lago montano.

D’estate, le porte finestre venivano spalancate, e i pasti si consumavano su un’ampia terrazza arricchita da enormi vasi di begonie bianche.

Indifferente al sommesso cicaleccio che la circondava, Luana rimestava il cucchiaio nel piatto, la mano a sostenere il capo, gli occhi fissi oltre la barriera di fiori.

«Dovresti mangiare,» suggerì cordiale un inserviente. La ragazza fece spallucce e si alzò, raccogliendo il vassoio con il cibo ancora intonso. Strascicando i piedi, rientrò nella struttura e s’incamminò per il corridoio creato dai tavoli, proprio sotto il grande schermo sintonizzato su uno dei telegiornali nazionali.



È di queste ore il ritrovamento del cadavere di una giovane donna incinta, il cui corpo seviziato è stato abbandonato in uno scantinato di un palazzo fatiscente… Per risolvere questo efferato delitto, gli inquirenti stanno valutando varie ipotesi... La scomparsa del neonato è un vero mistero e per le forze dell’ordine si prospetta... La più probabile delle piste rimane quella del traffico di bambini… Vi mostriamo la foto della donna, speriamo che...



Luana fulminò con lo sguardo il televisore che, gracchiando, snocciolava le notizie del giorno. In quell’istante, alle spalle del cronista, campeggiò la foto con il volto della donna del suo incubo. Cacciò un urlo e il vassoio sfuggì alla sua presa.

Un paio di inservienti accorsero, convinti che si fosse fatta male. Invece, la trovarono appallottolata su se stessa che dondolava sulle caviglie magre. Teneva le dita artigliate ai capelli e il volto incastrato tra le gambe.

Impiegarono del tempo per convincerla a raggiungere la sua camera, darle un calmante e riportare ordine fra gli ospiti che avevano assistito alla scena.


«Quella la saltiamo,» disse l’inserviente dando uno sguardo alla lista consegnatale dalla capo sala.

«Poverina, hanno dovuto sedarla di nuovo. Non smetteva di urlare cose senza senso, come accusarsi dell’omicidio di qualcuno.» Paola infilò in uno scomparto del grande carrello le lenzuola sporche della camera 43.

«Hanno fatto bene! È un luogo di pace, questo. Poi tocca a noi sistemare ogni cosa, non certo a quegli smidollati con il camice bianco,» rispose scorbutica Cinzia mentre imbeveva con il detergente uno strofinaccio.

Erano due donne non molto alte e vestivano un camice colorato sulle forme abbondanti. Sotto la cuffia inamidata, portavano i capelli raccolti in uno stretto chignon. Calzavano scarpe comode dalla suola in gomma, che scrocchiava a ogni passo sul pavimento in linoleum.

«L’altro giorno ho ascoltato una conversazione tra la dottoressa Trance e il dottore Riguardi,» bisbigliò ammiccante Paola, serrandosi vicino all’altra donna. «È stata scaricata qui dall’Ospedale Centrale. A quanto pare è stata violentata dal marito ubriaco e strafatto, insieme a un paio di suoi amici. Figurati che era incinta all’ottavo mese e ha perso il bambino a causa delle percosse: le hanno letteralmente maciullato il ventre!»

«Ma cos’erano, bestie?» fece inorridita Cinzia mentre l’altra approvava scuotendo il capo.

«Da quello che ho potuto capire, un vicino, rientrando dal lavoro a notte fonda, l’aveva sentita urlare e ha chiamato i carabinieri. Una volta giunti sul posto, si erano subito resi conto che quegli animali erano preda delle allucinazioni, mentre si accanivano su di lei con furia inaudita. In ospedale, non hanno potuto fare altro che raccogliere il bambino a manciate.»

«Poveretta, ora capisco perché ha gli incubi. Anzi, non mi capacito di come abbia fatto a sopravvivere a tutto questo,» disse Cinzia, facendo un paio di volte il segno della croce mentre si allontanava lungo il corridoio.



La brace nel camino stava languendo e il suo tepore non raggiungeva le pareti di legno. Fuori dalla finestra, le foglie turbinavano, sbattendo contro il vetro umido di pioggia. Uno scialle giaceva scomposto ai piedi del piccolo divano, occupato da una donna incinta. Aveva lunghi capelli sciolti, un viso dolce e la punta di un attizzatoio conficcata in fronte.

Luana estrasse il ferro e con esso ravvivò il fuoco. Aggiunse ulteriori ciocchi per rimpolpare le fiamme affinché fossero abbastanza libere di intaccare le pareti.

Poi, si inginocchiò a lato del divano e sistemò il corpo ancora tiepido della gravida, in modo che il ventre prominente si incastrasse tra le gambe ripiegate, la pelle tesa a contatto con il tessuto ruvido.

Senza indugiare oltre, con le mani allargò il tessuto molle della vagina, favorendo così la fuoriuscita della testa del bambino. Aiutandosi con un trincia-pollo, sventrò la parte più bassa dell’addome e il neonato scivolò sui cuscini, ancora avvolto nella placenta. Strappò il sacco uterino e tagliò il cordone ombelicale.

Al suo interno, il bimbo rantolava in debito d’ossigeno, la sua pelle era bluastra e muoveva appena il piedino sinistro. Luana lo liberò della membrana e lo immerse in una bacinella di acqua calda, un secondo dopo, in una gemella, ma con il liquido ghiacciato. Per lo shock, il neonato fece il suo primo profondo respiro.

Soddisfatta, raggiunse la culla chiara. Mentre si chinava per depositare il prezioso fardello, la sua pelle sfiorò uno dei dobloni in rame che adornavano il bordo della culla; il fumo acre e il calore dell’incendio che si stavano propagando…



svegliarono Luana.


«Dove sono? Cos’è questo odore acre?» balbettò la ragazza, tra un colpo di tosse e l’altro. Era avvolta da una cappa densa e pesante, lingue di fuoco guizzavano come ballerini improvvisati di una fiera itinerante.

«Ma che sta succedendo?» chiese spaventata, coprendo la bocca con l’interno del gomito. Strinse gli occhi arrossati e la sagoma di una culla incominciò a intravvedersi da dietro la cortina di fumo.

«Ma cosa…?» Interdetta, si precipitò da quella parte.


La culla era investita dal sole accecante, un’ombra era china al suo interno.

«Chi sei?,» balbettò intimorita, i sibili delle fiamme un lontano ricordo. La figura si mosse lenta, come se il suo corpo dovesse continuamente assestarsi sullo sfondo che la circondava. Era longilinea, un velo opaco che deformava i colori. Tra le dita affusolate rigirava un doblone ramato. «Buon salve,» esclamò senza particolare enfasi, la bocca uno strappo di quello strano tessuto di cui era composto. « Se mi stai guardando, ahimè, credo sia giunto il momento di dirci addio.» Le parole giunsero a Luana da ogni direzione, come echi che si propagavano tra i buchi dello spazio.

«Non capisco,» ribatté perplessa, retrocedendo di un passo. La schiena sfiorò la parete dietro di lei e Luana avvertì il calore intenso che emanava. Si girò e, sgomenta, indietreggiò fino a toccare la culla, gli occhi fissi sul muro che si andava gonfiando.

Per un istante, le sembrò di attraversare una cascata gelida e fetida, colma di un dolore così acuto da lasciarla senza fiato. Annaspò in cerca d’aria e mosse le braccia come se stesse cadendo da un’altezza considerevole. Si arricciò su se stessa più volte, sentendo la gola bruciare e i polmoni collassare. Per infiniti istanti, rimase immobile in un limbo fatto di saette iridescenti e luce opaca, come la sbavatura di una lacrima che è già un lontano ricordo. Ricadde in avanti e, senza rendersene conto, affondò il viso in una poltiglia dall’odore ferroso.

Cacciò un urlo quando si rese conto che erano i resti di un corpicino. Si guardò attorno e capì di essere dentro la stessa culla dove, nei suoi incubi, adagiava i neonati.

Sbatté le ciglia e si ritrovò sdraiata sul letto della camera della clinica.

«Oddio, è stato un incubo. È stato un orrendo incubo,» balbettò flebilmente portando la mano tremante alla bocca.

«Devo dissentire.» Luana si pietrificò, il cuore incastrato da qualche parte, un flebile sussurro dentro la propria testa. «Io sono qui, con te,» asserì quella cosa di prima che puzzava inspiegabilmente di plastica bruciata. «Prima di congedarmi, ti lascio questo.» Depositò un doblone sul comodino. «È il dovuto compenso per avermi servito.»

«Compenso? Servito?»

«Anelavi a diventare madre. Bramavi con tutta l’anima di provare quella sensazione, quella pace terrena che invade la mente quando le donne partoriscono. Ti ho dato questo, mi sono preso i bambini.»

«Perché?»

«Perché anche gli incubi hanno fame, io prediligo i neonati.» Luana lo guardò raccapricciata, scuotendo forte la testa in segno di diniego.

«Sei un mostro! Ora che so tutto, preferisco uccidermi che assecondare te!» sbraitò.

«Ma tu sei morta.»



Le fiamme avide stavano avvolgendo il letto, consumando il corpo della ragazza, come il mare sbriciolava i castelli di sabbia.

«Stupide creature. Quand’è che imparerete che non decidete per voi stessi? Io mi nutro dei vostri cadaveri.»

Si voltò e la porta cedette.


Un inserviente si precipitò dentro la stanza di Luana, munito di un estintore. Non si avvide dell’ombra scura che, accompagnata dall’inseparabile culla, svaniva oltre il bordo disegnato della parete di fondo.



Ci hanno promesso che i sogni possono diventare realtà, ma hanno dimenticato di dirci che anche gli incubi sono sogni (Oscar Wilde)




Note dell’autrice: l’incubo non è il trauma subito da Luana che si manifesta ma è una creatura concreta e tangibile. Un parassita che si muove ai confini dell’illusione in cerca di cibo.

Questa storia partecipa al contest ‘Generi a catena’ indetto da Dark Sider con le seguenti indicazioni suggerite da Freya_Melyor:

genere: horror;

prompt: culla.



Leggenda

Genere: horror – angst – drammatico.

Rating: giallo.

Note/Avvertimenti: contenuti forti.

Coppia: nessuna.

   
 
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