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Autore: _Unmei_    08/05/2020    1 recensioni
Chissà se qualcuno è riuscito a capirlo, che in ogni colpo di scalpello che ha dato forma a quell'angelo, dietro a ogni lineamento cesellato con pazienza, nei boccoli che gli ricadono sulle spalle, nel morbido drappeggio che gli copre le gambe, nel lievissimo sorriso che gli increspa le labbra… che in ogni piuma delle ali che ho fatto nascere dalla sua schiena, c’è la mia dichiarazione d’amore per lui.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Storico
Capitoli:
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Giardini di Pietra
 
Capitolo 2

 
___________________
 
 
Florent è un nome che scorre fra le labbra come un delizioso liquore zuccherino, vero? È dolce e morbido, aggraziato; per pronunciarlo la bocca si muove lieve, come per un sospiro carezzevole. È un fruscio di seta su seta.
Il mio nome è duro, con quelle R che graffiano, e le C secche come un colpo di bastone. Ditelo, provateci: Riccardo. Un uomo con un nome come questo dovrebbe essere più forte di quanto sono io.
 
La mia casa era, a quei tempi, una villa quasi ai margini della città; costruita all’inizio ottocento, apparteneva alla mia famiglia da cinquant’anni. A quei tempi ormai ci vivevo da solo, e anche se era troppo grande per me, e avrei potuto trasferirmi in centro, preferivo restare lì: avevo bisogno di spazio per scolpire, e l’isolamento non mi è mai dispiaciuto. E poi amavo avere il mare così vicino, al di là della strada, e poterlo vedere in qualunque momento; non mi stancava mai, mi ci perdevo, e mi riempiva il cuore.
La casa aveva anche un vasto giardino, un po’ trascurato e selvaggio, che mi andava bene così, e una piccola dependance in cui viveva Matilde, la mia governante di allora: una donna nubile dai capelli grigi e l’aspetto severo, che celava in realtà un animo gentile e premuroso. Era anche un’ottima cuoca, e lavorava per la mia famiglia da prima dell’inizio dei miei ricordi… da prima della mia nascita, anzi. Quando i miei genitori si erano trasferiti in Toscana, cinque anni prima, le avevano proposto di seguirli, ma lei aveva preferito restare; non voleva abbandonare la città dove aveva sempre vissuto e, aveva detto, non si fidava a lasciare me e la casa nelle mani di un’altra governante.
Matilde guardò perplessa lo snello giovanotto che mi era accanto e, quando le ebbi spiegato il perché della sua presenza, per un attimo pensai di sentir piovere critiche, poiché per quanto egli fosse di nobile aspetto, era chiaro si trattasse di un vagabondo. Florent prevenne ogni sua parola: sfoderò un sorriso affascinante e al tempo stesso colmo di un’innocenza quasi fanciullesca, e si esibì in un aggraziato inchino. Quale donna non verrebbe conquistata da un tale gesto? E quanti inchini poteva aver ricevuto nella sua vita, la mia lodevole governante?
Dall’espressione di Matilde capii che Florent doveva aver passato l’esame, e ne ebbi subito conferma quando annunciò, con una bruschezza che sapeva d’imbarazzo, che avrebbe fatto scaldare l’acqua per preparargli un bagno.
Nel mentre guidai Florent in una delle stanze riservate agli ospiti, che erano sempre pronte a ricevere qualcuno, nonostante tale evenienza si verificasse ben poco di frequente.
Entrai e accesi ogni lume a olio vi fosse presente, perché ormai si era fatto buio, ed eccola, l’ampia camera per il mio ospite; il pavimento era una profusione di tappeti preziosi, le pareti abbellite da quadri e stampe di buon gusto, e su una si apriva un’ampia finestra che dava verso il mare; l’elemento più di spicco era il grande letto a baldacchino in mogano, dalle linee sobrie e pulite. Completavano l’arredamento un divanetto, un tavolino da caffè con due sedie, un guardaroba, un secretaire e un bel paravento dietro al quale si celavano brocca e catino. C’era anche una stufa in porcellana policroma, un piccolo capolavoro proveniente da Meissen.
 
“Una volta che sarà accesa – dissi, indicandola – qui dentro ci sarà il giusto tepore; starai benissimo.”
 
Consideravo quella stanza bella e accogliente, arredata con gusto e ricchezza, ma senza eccedere in un inelegante sfarzo; eppure Florent non sembrava impressionato, c’era piuttosto sul suo volto qualcosa che somigliava a una lontana nostalgia. Mi ero forse aspettato che si guardasse in giro con tanto d’occhi, stupito e intimorito, e la sua tranquillità un po’ mi indispettì e un po’ m’incuriosì. Lui tornò a guardarmi e di nuovo mi sorrise, portandosi una mano al cuore, e io ormai sapevo che era il suo modo di dire grazie.
 
“Dopo se vuoi ti mostrerò la casa, e il mio studio, naturalmente… è la cosa più importante, il motivo per cui sei qui. Vorrei iniziare a lavorare il prima possibile… certo non oggi, e certo non scolpendo. Devo fare degli schizzi, studiare la tua figura…”
 
Ero di nuovo imbarazzato, con il cuore che batteva un po’ troppo in fretta, messo in difficoltà dal suo sguardo troppo diretto e dalla sua bellezza; mi congedai, dicendogli che presto sarebbe giunta Matilde per condurlo al suo bagno, e lo lasciai libero di prendere possesso della camera.
Trovai rifugio in salotto, davanti al camino facendo ondeggiare il brandy nel bicchiere; mi sentivo travolto da emozioni contrastanti, da euforia, trepidazione, e tanti dubbi. Cominciavo seriamente a chiedermi come dovessi comportarmi, come rivolgermi a lui; fino a quel momento mi ero preso la libertà di dargli del tu, e come atteggiamento era stato piuttosto villano, lo ammetto. Lui, d’altra parte, non si era dimostrato offeso.
Ma offendersi di che, poi? Dopotutto non era che un mendicante che elemosinava spiccioli suonando il violino, e che probabilmente si sfamava con la magra zuppa delle mense dei poveri, o quando poteva con una pagnotta offerta da un fornaio di buon cuore.
I pensieri si affastellavano confusi, addirittura mi chiesi se davvero la mia era stata una buona idea; in fondo ho sempre con me lapis e taccuino, avrei potuto abbozzare velocemente un ritratto del ragazzo mentre ero al caffè, non c’era davvero necessità di portarlo con me. Mi attraversò la mente persino l’immagine di me stesso, nel mio letto con la gola tagliata, e la casa svaligiata da ogni prezioso che non fosse chiuso al sicuro nella cassaforte… giusto castigo per aver fatto entrare in casa mia uno sconosciuto di cui non conoscevo che il nome, sempre che mi avesse dato quello vero.
Ero così perso in quelle cupe elucubrazioni sul mio destino segnato che quasi sussultai quando sentii bussare, e il vigore con cui quei colpi erano stati battuti mi fece intuire che non si trattava dei primi, e che io ero stato troppo sovrappensiero per rispondere. Finalmente diedi l’avanti, e Florent aprì la porta, ma rimase sulla soglia; Matilde stava accanto a lui, con aria piuttosto compiaciuta. La mia buona governante disse che doveva terminare di preparare la cena, e che sarebbe venuta a chiamarci quando fosse stata pronta; diede una stretta amichevole alla spalla di Florent e ci lasciò soli.
Io lo osservai.
Dopo quel bagno sembrava che il suo viso rilucesse, l’espressività ancor più intensa e vivace, forse perché l’acqua calda si era portata via anche una buona dose di stanchezza. I suoi capelli erano ancora umidi e sembravano così un po’ più scuri. I pantaloni che indossava, la camicia e la giacca da camera di colore blu li riconobbi come miei, benché non li portassi più da anni. Gli erano un po’ larghi e un po’ lunghi, ma almeno erano puliti, e Matilde aveva fatto bene a prendere l’iniziativa di darglieli; sciocco io, piuttosto, a non averci pensato. C’erano altri abiti che non portavo più, e che giacevano dimenticati nei bauli: con il ritocco di un sarto avrebbe potuto vestirli bene… certo non poteva tornare a indossare i suoi logori panni.
 
“Vieni! – gli dissi – Non restare sulla soglia.”
 
Entrò, e subito una cosa attrasse la sua attenzione; fece brillare i suoi occhi e sorridere le sue belle labbra rinascimentali: il pianoforte verticale con i candelabri d’argento che stava contro la parete sulla destra. Si avvicinò allo strumento, accarezzando con rispetto il legno lucido, poi il leggio; sollevò il copritasti e accennò ‘Für Elise’; mi guardò e fece un cenno con la testa, verso di me e di nuovo verso il piano.
E io capii.
 
“Sì, lo so suonare. Discretamente, direi. Fu mia madre a volere che imparassi, quand’ero bambino, ma non sono certo bravo quanto tu lo sei con il violino. Non è la musica, la mia arte. Se ami suonare il pianoforte, sentiti libero di usarlo quando preferisci.”
 
Ricordo bene la cena che consumammo insieme, quella prima sera; è tutto vivo nella mia mente, come fosse appena avvenuto: i ricami sulla tovaglia, il vino rosso e forte, il pane tiepido e croccante, il profumo denso dello stufato, e il suo sapore.
Ricordo lui, dall’altro capo del tavolo, e quanto fosse perfetto il suo galateo, anche migliore del mio. Avevo immaginato, in quella che era un’ulteriore prova della mia presunzione, che si sarebbe avventato sul cibo come un lupo affamato, e con i modi di un selvaggio; invece, oltre a comportarsi come un signore, non chiese altro oltre alla prima porzione.
Ero sempre più curioso; desideravo ardentemente conoscerlo meglio, venire a capo della contraddizione che sembrava incarnare, lui, così distante ed enigmatico. Lo guardavo, e pensavo a quanto avrei voluto che potesse parlare, perché la sua voce sarebbe certamente stata come tutto il resto di lui: angelica, ammaliante.
In quel momento non me ne rendevo del tutto conto, ma mi ero fatto stregare da lui in quelle poche ore. O meglio, avevo capito di esserne affascinato, quel che ancora non coglievo era quanto profondamente lo fossi. Florent non aveva fatto nulla per attirare la mia attenzione, era stato semplicemente se stesso, con il suo sorriso luminoso e innocente, e gli occhi scrutatori di un gatto.
Ci ritirammo presto quella sera; lui si portò nella stanza uno dei miei libri, “La Mare au Diable”, di George Sand, e quella fu per me per un’altra sorpresa: conosceva il francese, dunque? Che non fosse un comune mendicante l’avevo ormai capito, ma mi trovai anche a chiedermi da quanto lontano venisse… io mi diedi dello stupido, perché se il suo nome era Florent, le sue origini avrebbero dovuto essermi chiare.
Mi rigirai a lungo fra le coperte, quella notte, senza riuscire ad afferrare il sonno; il mio pensiero continuava a tornare a lui, e mi chiedevo che stesse facendo. Leggeva, forse? O, sprofondato in quel letto caldo e pulito, magari già dormiva? Chissà da quanto tempo non aveva la possibilità di passare una notte in maniera tanto confortevole.
O magari anche lui era sveglio e sentiva una sottile agitazione, e pensava, e si faceva domande su di me e sui giorni che l’avrebbero aspettato… non glielo chiesi mai, cosa fece e che pensò quella notte.
Che stupido.
Quanto vorrei saperlo.
 
Devo raccontare di come lavorai con lui? Non credo sia necessario, e nemmeno possibile. Se dovessi spiegarvi la tecnica, voi non avreste interesse nei termini specialistici, li trovereste sterili e inutili. Certo non vi interessa sapere di subbie e gradine, dell’importanza che c’è anche nel gesto di scegliere un attrezzo. E non posso comunicare a parole ciò che significava per me dare forma al marmo, prendere la pietra e trasformarla, dare l’illusione che sia lieve come merletto, cedevole come carne, soffice come capelli riccioluti.
No, non descriverò come lavorammo insieme, non parlerò degli schizzi preparatori, dei modelli che realizzai, di quando finalmente iniziai a scolpire… non è necessario. E la statua è sempre al suo posto, e lì rimarrà per decenni e forse secoli: se desiderate immaginare non avete che da andare a vederla.
Voglio parlare invece di lui, e non solo della dolcezza e della forza del suo carattere, ma anche della sua bellezza, del suo corpo, i muscoli snelli, la pelle diafana… pelle d’alabastro, e capelli d’oro antico, e gli occhi verde scuro, splendidi, orlati di nocciola.
Sapeva d’esser bello.
Certo che lo sapeva, non lasciava dubbi lo sguardo che mi fissò addosso la prima volta che lo ritrassi, mentre lento lasciava scivolare la vestaglia, scoprendo il petto nudo: era fiero e persino audace, privo di ogni timidezza. Impudico, eppure pieno di tenerezza. Mi guardava dritto in viso, sorridendo lieve a labbra chiuse, e ne arrossii.
 
Ero confuso su me stesso e sulle mie emozioni, in quei primi tempi; sconvolto dall’attrazione che provavo e che, spaventato, turbato, incapace di accettare, cercavo di nascondere nell’angolo più recondito del mio cuore, al di fuori dalla mia stessa portata.
Avevo già amato degli uomini, anni addietro, e ciò che ne avevo avuto era stato dolore e abbandono; non volevo che accadesse di nuovo. Già da tempo mi ero ripromesso che mai più, mai più avrei ceduto a quel genere di sentimenti… la solitudine piuttosto, ma affidare ancora il mio cuore a un uomo, no. Mai.
Ed ecco che Florent risvegliava in me un tipo di attrazione, un bisogno che credevo di aver sepolto, e io temevo che intuisse tutto, che la luce nei suoi occhi significasse ‘ho capito benissimo qual è il tuo segreto’.
Così cercavo di ignorare, di rinnegare tutto ciò che provavo; lo avrei fatto a lungo, perché ero, e ancora sono, un uomo testardo… e sciocco, e vigliacco.
Ma adesso, decenni dopo, sul filo dei ricordi, posso raccontare senza finzioni di quando iniziai a innamorarmi di lui, e del perché; e sono anche vecchio abbastanza da poter giustificare con l’età il sentimentalismo e i discorsi sconnessi.
Il quando, già vi sarà chiaro, fu subito, o quasi. E il perché… per tutto.
Per la grazia in ogni suo gesto, per il suo sorriso, per il suo sguardo, per tutto ciò che intuivo in lui ancor prima di riuscire a conoscerlo profondamente; per il suo fascino così spontaneo, candido e seducente al tempo stesso… per come mi rapiva il respiro e mi colmava d’emozione ogni volta che suonava il violino. E più gli stavo accanto, più l’innamoramento, quel batticuore capriccioso, mutava in più solido amore, e più io mi illudevo di poter far finta di nulla.
 
La prima sera, come ho detto, ci coricammo presto, poco dopo cena. La seconda sera restammo insieme, nel salotto, entrambi leggendo. Di tanto in tanto gettavo verso di lui occhiate da sopra il libro, e qualche volta nel farlo incrociai il suo sguardo che mi osservava; mi sentivo esplodere il cuore, e lui sorrideva, con sulle guance un tocco di rossore.
La terza sera suonò il violino, e di nuovo lo ascoltai, stregato; una partita di Bach, una fantasia di Telemann, un divertimento di Mozart… suonava, e io non mi sarei mai stancato di ascoltarlo; fuori pioveva piano, ma per me il mondo iniziava e finiva in quella stanza. Dopo una mezz’ora mi schiarii la voce e gli chiesi:
 
“Potresti suonare il brano di quel giorno? Quando ci incontrammo… Paganini, ricordi?”
 
Lui annuì, e suonò.
Suonò quel capriccio, e suonò Chopin e Vivaldi, e musiche che non conoscevo; passò da melodie languide a danze popolari e poi tristi armonie che sembravano parlare di amori infelici, perduti. Sentirlo suonare così, solo per me, era quasi troppo.
Era dolce la stretta al cuore che provavo allora, mentre è crudele quella che provo ora, ripensandoci; fa male, e le lacrime che mi salgono agli occhi bruciano.
 
La quarta sera credevo e speravo suonasse ancora, ma invece che con il violino venne da me con il taccuino e la matita che abitualmente portava con sé, e che usava talvolta per comunicare. Mi sedette accanto sul sofà, e mi era tanto vicino che quasi mi sentii a disagio, perché mi si presentava alla mente la sua immagine mentre posava per me, a petto nudo.
 
“Cosa c’è?”
 
Florent aprì il taccuino e su un foglio tracciò la lettera A in stampatello, me la indicò e poi richiamò il mio sguardo; chiuse la mano destra in un pugno morbido, tenendo il pollice fuori appoggiato sulle altre dita, e intanto mi fissava. Vedendomi confuso tornò a indicare la lettera sul foglio, e ripeté il gesto; capii, e mi sentii un idiota per non averlo fatto subito.
 
“Questo segno indica la A, vuoi dirmi?”
 
Felicissimo annuì vigorosamente, e io replicai il suo gesto.
 
“Beh, questo è facile, lo ricorderò.”
 
Lui tracciò dunque una B, e mi mostrò il segno corrispondente, per il quale erano necessario tenere la mano aperta, con il pollice ripiegato sul palmo, e io obbediente seguii il suo esempio.
Lettera dopo lettera, quella sera Florent mi insegnò a comprendere ancor meglio la sua voce silenziosa. Lo ricordo anche adesso, quell’alfabeto; lo imparai subito, e la prima vera parola che composi fu il nome di lui.
Non il mio, come si potrebbe pensare… il suo.
All’inizio ero un po’ lento, a dire il vero, nel capire ciò che Florent “diceva”: le sue mani erano agilissime e veloci, non riuscivo a star dietro alla loro danza, ma lui comprese la mia difficoltà prima che l’esprimessi; rallentò, dandomi modo di acquisire familiarità. Io gli parlavo a voce, e lui mi rispondeva in quel modo, e mi parve di averlo molto più vicino, più reale, non più l’incarnazione silenziosa di una creatura celeste.

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