Film > The Avengers
Ricorda la storia  |      
Autore: _Lightning_    08/05/2020    5 recensioni
Ci sono interferenze e radiazioni cosmiche, là fuori, e gli traballano i sensi.
Vorrebbe non elaborare tutti gli impulsi che gli stanno piovendo addosso. Non tutti insieme, almeno, non senza un ordine prestabilito. Lo martellano in una pioggia di comete che gli graffia la retina di scie luminose sospese nel vuoto.
Vuoto. Non sa se sia reale o meno. Se vi stia ancora galleggiando o se sia intrappolato dentro di lui. O lui dentro di esso.
Tic. Tic. Tic…

[post-Infinity War // Angst // Introspettivo // PoV Tony]
Genere: Angst, Hurt/Comfort, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: James ’Rhodey’ Rhodes/War Machine, Tony Stark/Iron Man
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
H-8


 
“Si scioglie nella tinozza, come sale, una stella,
e l'acqua ghiacciata è più nera,
più pulita la morte, più salata la disgrazia,
e la terra più vera e paurosa.”

In cortile mi lavavo – Osip Mandel’štam
 
 
Tic… tic… tic…


Frequenza stabile, in costante aumento. Un respiro alla volta, ognuno ben distinto dal precedente, tutti intrappolati in una cassa di risonanza solida che preme però verso il collasso. Ci sono interferenze e radiazioni cosmiche, là fuori, e gli traballano i sensi.

Vorrebbe non elaborare tutti gli impulsi che gli stanno piovendo addosso. Non tutti insieme, almeno, non senza un ordine computazionale prestabilito. Lo martellano in una pioggia di comete che gli graffia la retina di scie luminose sospese nel vuoto.

Vuoto. Non sa se sia reale o meno. Se vi stia ancora galleggiando o se sia intrappolato dentro di lui. O lui dentro di esso.


Tic. Tic. Tic…


Troppi impulsi, troppi dati: deve aumentare la frequenza. Risucchia un respiro, più rapido e ravvicinato al successivo.

È nel vuoto? Non è nel vuoto, perché sotto di lui c’è solida terra. Un pavimento. Un muro alle sue spalle. Oltre le sue mani, solo buio. Spera sia quello della sua stanza, teme che sia quello del cosmo.

Non l’ha mai lasciato andare davvero, ha la sua ombra annidata nelle orbite.


Tic, tic, tic…


Non distingue i singoli impulsi, adesso, solo un vocio confuso che gli rimescola i sensi. Una voce, più cristallina delle altre: l’interferenza costante che non riesce a isolare.

Se il suo cervello fosse davvero un processore, potrebbe sperare in un picco di corrente improvviso che lo faccia spegnere di colpo. Agognato silenzio. Oppure potrebbe continuare a funzionare all’infinito, un tic alla volta, e sperare di gestire almeno una parte infinitesimale dei miliardi di stelle acuminate infisse ancora dentro la sua carne. Dietro le sue pupille, ad abbagliarlo di luci distanti.


Tictictic…
 

Ma, siccome il suo cervello è composto da volute e materia grigia come quello del resto del genere umano, e il suo corpo non è davvero metallo, ma di carne e ossa e nervi e ansia, è obbligato a continuare a pensare coscientemente, cadendo all’infinito nel vuoto cosmico che ruota al centro di esso.

Una galassia asimmetrica in rotta di collisione che gli apre buchi neri al centro del petto, sotto lo sterno, nel punto in cui il suo cuore non c’è più – né quello artificiale, né quello vero.

I suoi polmoni inspirano polvere stellare tossica. Non è tra le stelle. È sulla Terra, è tra la cenere che urla. È peggio.

Soffoca, annega, e non sa più nuotare – non può nuotare nelle grotte del suo inconscio.

Il suo cervello non si spegne, mai, sfrigola di falsi contatti e continua ad elaborare dati come un processore, sì, ma in overclocking costante e destinato a sbagliare calcoli e travisare dati. Si stringe il capo, desiderando di poterlo smontare un osso alla volta con un cacciavite. Di riavviarsi. Di riavviare tutto ciò che lo circonda – uno schiocco di dita, come all’inizio.

Ma lui non è davvero l’uomo di ferro, non può smontarsi cuore e cervello e quindi non si spegne.


 
§


«Tony.»

Una voce lo chiama, col riverbero che gli rintrona le orecchie quasi i suoi timpani fossero una lamina d’alluminio. Le sue mani continuano a far da sipario tra lui e la realtà, mentre altre, ampie e salde, tentano di scostarlo. Il drappo si scosta di uno spiraglio, fendendo il buio e illuminando astri ora più fiochi.

«Tony, ci sei?»

No.

Stringe le mani tremanti attorno ai polsi di Rhodey, e rimangono solidi nella sua stretta. Il suo volto è in fondo al tunnel che gli oscura la vista, traballante e sfocata. Riesce ad annuire appena, scattosamente.

Non è qui, ma il suo corpo si adagia comunque nella fisicità del qui ed ora, accompagnato da impulsi noti che non lo fanno impazzire. Una voce amica, un tocco conosciuto che fa sempre presa su di lui.

Alza lo sguardo di qualche tacca: vede le sue mostrine militari che rilucono sinistre nella penombra; quella mattina alla cerimonia funebre, invece, scintillavano accecanti sotto un sole sbagliato e troppo luminoso.

«Pepper ha detto che non le rispondi. Che sei chiuso qua dentro da ore,» mormora Rhodey.

Forse è vero. Forse no. Forse entrambe le cose, e stanno solo usando parametri di riferimento diversi. Il tempo scorre a sobbalzi, nello spazio, e lui non può nemmeno assecondarlo, solo subirlo.

«Non…» gli sfuma la voce in bocca e serra i pugni a nascondere sangue e cenere, per precluderle alla vista dell’amico. «Non posso uscire, devo… lavarmi le mani, sono sporche,» farfuglia sconnesso, senza controllo sulla propria lingua e con gli occhi che zigzagano impazziti da un’ombra all’altra.

Fa leva con la schiena contro il muro per issarsi in piedi, anche se non sente alcuna forza nelle membra. Rhodey segue il suo movimento barcollante, sostenendolo per i gomiti. Anche se non lo sta guardando in faccia, vede la sua perplessità condensarsi in rughe profonde sulla fronte.

«Tones?» lo chiama titubante, prendendogli i pugni, così serrati da essere quasi bianchi e bordati di un rosso vivo nei punti in cui sta premendo troppo con le unghie. «Non hai… nulla sulle mani, sono pulite,» dichiara poi, lentamente, scandendo ogni parola. «Sono pulite.»

Tony annuisce di nuovo, di riflesso, allentando un poco la presa sotto la sua e sentendo comunque la patina di cenere e sangue che scricchiola nelle linee dei palmi; solchi arrugginiti e taglienti che gli incidono la pelle. Si scosta bruscamente da lui e sente uno sfrigolio in testa, di un cortocircuito in arrivo. L’interferenza si fa più forte – grida aiuto e lui non può offrirlo.

Fa un passo incerto verso il bagno e poi si volta di nuovo troppo rapidamente, coi piedi che rischiano di mancare l’appoggio ad ogni passo – cammina nell’astronave, nello spazio, gli gira la testa. È sull’orbita sbagliata e rotea su se stesso, a vuoto. Il suo cervello non si spegne e analizza inutilmente il nulla – non è un eccesso di dati, è la loro totale mancanza a farlo impazzire – non può razionalizzare il nulla se non con altro nulla.

Rhodey lo fissa con occhi tesi, che guizzano dal suo volto alle sue mani contratte fino allo spasmo. Ha paura, lo percepisce, la irradia senza volerlo con ogni sguardo stralunato che gli rivolge. Gli stride dentro come un fiammifero, facendolo avvampare di rabbia improvvisa, di vergogna che gli risale il volto in una vampata cocente.

«Sto bene,» mente, con una voce fredda che non gli appartiene, che è solo ghiaccio siderale fuso all'istante dall’incendio. «È solo… una brutta giornata. Più del solito,» continua a parlare, e gli sembra di usarsi come tramite mentre parla dall'altra parte della galassia.

«E sei qui?» aggiunge Rhodey significativo, alzando appena le sopracciglia corrugate a stanare la palese bugia che gli ha appena rifilato.

«Dove dovrei essere?» ride lui senza allegria, aggressivo nonostante si senta in fin di vita.

Mente senza rispondere, e ha già detto troppo.

«Non lo so. Ma non sembra un bel posto.»

Rhodey fa un passo in avanti e lui si tira indietro, in un sobbalzo elettrico.

«Appunto, quindi meglio se ci sto da solo,» quasi ringhia tra i denti, contrastando a stento la gravità che rischia di farlo sprofondare a terra, e vorrebbe afferrare quell’intimazione a mezz’aria prima che raggiunga le orecchie dell’amico che non si merita.

Rhodey sospira in quel modo sommesso e rassegnato che riserva solo a lui, alle sue spigolosità che feriscono tutti quelli che lo circondano. Vede la ferita che gli apre negli occhi, bendata subito da altra rassegnazione, da altra pazienza e affetto che lui cerca sempre di distruggere e scansar via.

«Se vuoi, ci trovi in sala comune,» proferisce infine, quasi si rivolgesse a qualcun altro – lo fa, perché lui non è davvero lì.

Lo vede avviarsi verso la porta tra le sbarre delle dita che si è premuto sul volto.

«Rhodey…» gli sfugge soffocato, un pensiero che vola più veloce del suo volere e che si arresta a metà: non sa nemmeno lui se dovrebbe ringraziarlo, chiedergli scusa o dirgli che gli dispiace, che gli vuole bene, o che vorrebbe tornare davvero a casa – nessuna di queste frasi lascerà comunque mai le proprie labbra.

Lo vede bloccarsi sulla soglia, con un sorriso triste e amaro in volto.

«Lo so, Tones, non importa. Tornerai.»

Accosta la porta dietro di sé con quell’augurio che sembra una promessa, lasciando schiuso un singolo spiraglio che lo illumina nel buio, lui, le interferenze e i fantasmi di polveri stellari che lo circondano.


Tic... tic... tic




 

Note dell'Autrice:

Cari Lettori, se siete sopravvissuti a questa secchiata d'angst, siete decisamente eroici e meritate di entrare nei Vendicatori ad honorem :')

Credo che un paio di spiegazioni siano d'obbligo, visto che ho evitato di inserire note al testo.
1) H-8 fa riferimento a un tipo di processore avente svariate applicazioni in campo robotico ed elettronico, oltre che aerospaziale. Viene citato nella canzone dei Muse Space Dementia, che è stata la principale ispirazione di questa storia, in particolare la prima strofa. La space dementia (follia spaziale) è un disturbo, ad oggi solo ipotizzato e con poche evidenze scientifiche, che colpirebbe gli astronauti di ritorno da lunghe missioni. Viene largamente citato nella letteratura fantascientifica, e secondo i miei headcanon Tony ne soffre in forma lieve dopo la battaglia di New York e in forma molto più debilitante in seguito a Titano, visto che ha passato quasi un mese nello spazio. I sintomi sono appunto dissociazione, sfasamento sensoriale e confusione mentale, oltre che depressione.
2) Il processore è considerato metaforicamente il "cervello" del computer, di qui l'analogia. I "tic" presenti nel testo sono quelli di ogni "clock", ovvero il segnale che indica il tempo entro il quale deve compiersi un ciclo di elaborazione dati del processore; mandare in overclocking il processore permette di elaborare più dati, a rischio di errori e malfunzionamenti. Il picco di corrente causa invece uno shutdown immediato.
3) Nel concetto di "interferenza" c'è un richiamo alla mia shot, appunto Interferenze, in cui associo queste ultime a Peter e Pepper (anche lei scomparsa in quella versione).

Dopo queste note abnormi, ringrazio chi ha letto fin qui, e soprattutto la mia Guascosa Miryel che ha fugato molti dubbi riguardo a questa shot e mi ha spinto a rivederla e "ristrutturarla" da capo a piedi. Grazie, Guasco' <3

-Light-






 
Disclaimer:
Non concedo, in nessuna circostanza, né l'autorizzazione a ripubblicare le mie storie altrove, anche se creditate e anche con link all'originale su EFP, né quella a rielaborarne passaggi, concetti o trarne ispirazione in qualsivoglia modo senza mio consenso esplicito.

©_Lightning_

©Marvel
 
   
 
Leggi le 5 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Film > The Avengers / Vai alla pagina dell'autore: _Lightning_