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Autore: Soul Mancini    08/05/2020    7 recensioni
[La prima storia della serie scritta dal POV Ethan.]
Ethan detesta i cimiteri e trova inutile andare a fare visita a delle lapidi inanimate.
Ma oggi non è un giorno come gli altri, oggi è l'8 aprile.
Così, senza nemmeno rendersene conto, afferra la chitarra, esce di casa e si reca presso il sepolcro dell'unica persona di cui gli sia mai importato qualcosa: Ives.
È una ferita ancora aperta per lui, che brucia ogni giorno di più. Forse troppo profonda per rimarginarsi.
DAL TESTO:
«Ma Ives era fatto così, era una persona troppo buona per conoscere e provare odio. Era troppo luminoso per questo mondo bastardo che l’ha soltanto preso a schiaffi. [...]
Già, e io non sono stato diverso, ho dato il mio bel contributo per demolirlo e farlo finire dentro una bara. All’improvviso mi sento disgustato da me stesso, mi rendo conto che non ho nessun diritto di stare qui; ed ecco gli ormai familiari sensi di colpa stringermi lo stomaco e contorcermi le viscere.»
- PRIMA CLASSIFICATA al contest "Butterfly Effect" indetto da _Vintage_ sul forum di EFP.
- DECIMA CLASSIFICATA al contest "Hold my Angst" indetto da BessieB sul forum di EFP.
Genere: Angst, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
- Questa storia fa parte della serie 'Needles'
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No one shines like you anymore







8 aprile 1990


È una giornata grigia, una pressante coltre di nubi si addensa in cielo e sembra voler togliere i colori al mondo, sbiadire l’esplosione della primavera; un sottile vento fresco s’insinua tra gli alberi, tra i vestiti leggeri e tra i capelli.
Ma, mentre mi guardo attorno spaesato, non è la brezza a farmi rabbrividire: non mi sento per niente a mio agio in quel luogo pieno di foto in bianco e nero ed epitaffi tracciati con lettere eleganti e fredde.
In realtà non so nemmeno cosa mi abbia portato qui: ho sempre detestato i cimiteri e trovo che andare a trovare i propri cari sia un’enorme stronzata. Insomma, se uno è morto e sepolto non c’è più niente da andare a trovare.
Però oggi non so cosa mi sia preso, o forse lo so fin troppo bene. È l’8 aprile.
Semplicemente sono uscito di casa e, con la custodia della chitarra in spalla, ho lasciato che la mia mente mi conducesse in questo luogo, senza quasi rendermene conto. E mi sento fottutamente stupido e ipocrita, ma eccomi qui.
Sono stato in questo posto solo una volta, diversi mesi fa. C’era lo stesso vento e lo stesso cielo grigio di oggi.
Scuoto il capo e mi avvicino lentamente a due lapidi. Si trovano dietro un albero, nascoste dalla vegetazione e dimenticate da tutti; non sono importanti, non sono in evidenza. Proprio come i loro proprietari. È già tanto che abbiano un nome.
Mi accomodo a terra lì accanto, senza badare troppo al terriccio e ai fili d’erba che mi s’incastrano tra i vestiti, poi lascio scorrere lo sguardo sulla fredda scritta incisa sulla pietra.

Ives Mancini
8 aprile 1968 – 26 settembre 1989


Non ho il coraggio di sollevare gli occhi sulla foto, vedere il volto allegro e così giovane del mio migliore amico che svetta sulla lapide sarebbe come un pugno nello stomaco.
Così sposto lo sguardo sulla tomba accanto a lui, quella di sua madre. Mi viene quasi da sorridere nell’accorgermi che entrambi sono vissuti soltanto per ventun anni; quasi come fosse un segno del destino, quel filo conduttore che ha unito le loro anime fragili e distrutte.
Ives ha sempre espresso il desiderio di essere seppellito accanto a lei, alla donna che gli ha dato la vita e gliel’ha rovinata. Mi domando come abbia potuto volerle così tanto bene, dato che non l’ha mai conosciuta e che l’ha abbandonato appena una settimana dopo la sua nascita.
Ma Ives era fatto così, era una persona troppo buona per conoscere e provare odio. Era troppo luminoso per questo mondo bastardo che l’ha soltanto preso a schiaffi.
Mi lascio sfuggire un pesante sospiro e stringo i pugni.
Già, e io non sono stato diverso, ho dato il mio bel contributo per demolirlo e farlo finire dentro una bara. All’improvviso mi sento disgustato da me stesso, mi rendo conto che non ho nessun diritto di stare qui; ed ecco gli ormai familiari sensi di colpa stringermi lo stomaco e contorcermi le viscere.


Nel locale si era assiepato già un discreto numero di spettatori, nonostante mancassero un paio d’ore all’inizio dello show; si trattava principalmente dei seguaci dei Guns N’ Roses, la band per cui avremmo dovuto aprire quella sera e che in quel periodo stava cominciando a emergere nella scena musicale di Los Angeles.
Io mi ero rintanato dietro il palco con la mia chitarra e una bottiglia di Jack Daniel’s, come sempre prima di un concerto importante; a differenza di quei musicisti che facevano baldoria ore prima dello show, io avevo bisogno di trovare la mia concentrazione ed essere abbastanza lucido per spaccare sul palco. Suonare per me era come un rituale sacro, vi concentravo tutte le mie energie e non avrei mai permesso che qualcosa andasse storto. Dopo il concerto ci sarebbe stato tempo per festeggiare e divertirsi.
Nonostante Los Angeles brulicasse di musicisti – alcuni erano davvero talentuosi – non conoscevo tante persone con la mia stessa devozione per la musica, solo Ives mi poteva davvero capire a fondo.
Già, Ives. Quel giorno era in ritardo e non era da lui quando si doveva esibire.
Cercai di non dare troppo peso alla cosa, sapevo che a diciassette anni era abbastanza grande per badare a se stesso e poi io non ero il suo baby sitter, ma non potevo fare a meno di sentire una punta di preoccupazione ogni volta che volgevo lo sguardo all’ingresso del locale e non lo vedevo entrare.
Tornai a concentrarmi sulla mia chitarra, la accordai e controllai che fosse tutto in ordine, mi cimentai in qualche esercizio per sciogliere le dita.
Quasi non mi accorsi della figura che mi raggiunse qualche minuto più tardi; quando sollevai lo sguardo e la inquadrai, un milione di domande mi si materializzarono in testa.
Ives era completamente zuppo di pioggia e tremava vistosamente, i vestiti gli ricadevano pesantemente addosso e mettevano in risalto il suo corpo troppo magro e minuto e le ciocche corvine gli si erano incollate sulla fronte e sul collo. Sul viso delicato, ancora più cereo del solito, spiccavano ancora di più i suoi occhi azzurri cerchiati di rosso, insolitamente cupi e tempestosi.
Aveva camminato sotto la pioggia senza ombrello. Aveva pianto. Era distrutto, c’era qualcosa che chiaramente lo angosciava.
Avevo avuto ragione a preoccuparmi.
Che cazzo hai combinato stavolta, Ives?
Tuttavia non gli posi nessuna domanda, non era da me. Tra noi le cose non andavano così, parlavamo solo quando ne avevamo bisogno e non ci chiedevamo mai niente, tanto sapevamo tutto l’uno dell’altro senza bisogno di dircelo.
Mi limitai a lanciargli un’occhiata interrogativa mentre si accomodava a terra accanto a me, stringendosi le ginocchia al petto e rannicchiandosi nel tentativo di scaldarsi.
“Da domani verrò a stare da te, dormirò sul tuo divano” ruppe il silenzio Ives dopo qualche secondo.
Sapevo che non ci sarebbe voluto molto affinché parlasse.
Non ribattei e scrollai solamente le spalle come per comunicargli che per me non c’era problema: avevo un appartamento tutto mio, non avrei avuto problemi a ospitarlo… anche se ancora non mi era chiaro il motivo.
Ives aveva una casa, viveva con sua zia e le voleva molto bene, anche se spesso erano in contrasto per la vita da sbandato che lui conduceva.
Doveva essere successo qualcosa di grave.
“Ethan…”
“Mmh?”
“Mia zia mi ha scoperto la coca e mi ha cacciato di casa.”
Rimasi in silenzio, completamente allibito da quella novità.
Zia Maura non mi era mai piaciuta, nonostante Ives ne parlasse sempre bene, ma quello era decisamente troppo. Come poteva quella stronza buttare fuori di casa la persona che aveva cresciuto e che ormai considerava un figlio, sapendo che non aveva un luogo in cui andare? I miei fratelli non avrebbero mai fatto una cosa del genere.
Quelle erano le classiche situazioni che mi facevano incazzare.
“Beh, che si fotta. Da noi sei uno di famiglia, lo sai” affermai senza mezzi termini. Non ero il tipo da esternare il mio disappunto o il mio dispiacere, ma ad Ives doveva essere chiaro che io non l’avrei abbandonato come la sua famiglia. Qualsiasi scelta avesse fatto Ives, qualunque strada avesse preso, era mio fratello e sempre lo sarebbe stato.
Lui sorrise per la prima volta da quando era arrivato, di quel sorriso pieno di gratitudine e speranza che apparteneva solo ad Ives ed era in grado di illuminare una stanza.
Mi allungai per afferrare la bottiglia semivuota di Jack Daniel’s e gliela passai, sperando che l’alcol lo aiutasse a rilassarsi un po’, poi tornai a strimpellare la mia chitarra.
Lui ne prese un lungo sorso, poi poggiò la bottiglia a terra e fissò i suoi occhi nei miei, mettendo su un sorrisetto furbo.
Quando faceva così era un chiaro segnale che aveva avuto un’idea e che sicuramente sarebbe stata stupida.
“Davi spaccia anche eroina, vero?”
Ecco.
Già al nome di mio fratello maggiore, il cuore mi era balzato nel petto.
Quel giorno c’erano troppe cose che mi stavano facendo incazzare. Ora come poteva essergli saltato in mente di provare quella merda?
“Non dire stronzate, Ives Mancini” sibilai fermamente, cercando di contenere la rabbia che mi divampava nel petto. Lasciai perdere la mia chitarra e mi posizionai meglio sulla cassetta di birra rovesciata su cui sedevo, in modo da poter osservare bene Ives.
Lui sostenne il mio sguardo con una sicurezza che non gli avevo mai visto. “Non sto scherzando, voglio provare l’ero.”
Ero furibondo. Scattai in piedi e lo trucidai con lo sguardo dall’alto in basso. “Stammi bene a sentire, Ives: tu quella merda non la tocchi. Ho visto clienti di mio fratello che si sono fottuti il cervello e hanno mandato a puttane la loro intera vita con l’eroina, non ti rendi nemmeno conto di cosa vuol dire. D’accordo l’alcol, d’accordo la coca, ma l’eroina è troppo.” Cominciavo a tremare per la rabbia e una voragine mi si era aperta nel petto: non potevo permettere che Ives commettesse qualche stronzata.
Lui si mise in piedi a sua volta, lentamente, e sollevò il capo per fronteggiarmi nonostante la sua statura molto più minuta della mia. Quando incrociò il mio sguardo, lessi nelle sue iridi azzurre tutta la sua disperazione, tutta la tristezza che provava per essere ripudiato da sua zia, l’unica persona che l’avesse mai amato. Vi lessi il disgusto che provava verso se stesso per aver deluso tutti e per la vita che conduceva – che entrambi conducevamo. Quegli occhi azzurri, che avevano sempre sorriso nonostante tutto il male che avevano visto, ora erano lo specchio di un’anima spezzata.
Affilò lo sguardo. “Con quella merda Davi ha tirato su tre fratelli e ti paga l’affitto di casa.”
Quelle non erano parole di Ives, non era in sé. Il mio migliore amico non avrebbe mai insinuato qualcosa del genere. Non sarebbe mai stato così cattivo.
Gli posai una mano sulla spalla e gliela strinsi appena – era terribilmente magro sotto la maglia di cotone ancora umida – mentre prendevo un profondo respiro per tentare di mantenere la calma. Non lasciavo mai che le mie emozioni esplodessero all’esterno, ma quando succedeva dovevo fare uno sforzo immane per mantenere il controllo e non spaccare tutto.
“Senti, troveremo una soluzione, un’altra soluzione. La vita non finisce solo perché quella puttana di Maura ti ha sbattuto fuori di casa, non è una ragione valida per cedere a certe stronzate! Vuoi una dimostrazione? Stasera abbiamo un concerto, apriamo per i Guns N’ Roses e abbiamo una carriera di fronte a noi, cazzo! Ci siamo noi della band con te, c’è la musica, ci sono i nostri amici… che cosa cazzo te ne fai dell’eroina, eh? Perché ora ti sei messo in testa che vuoi rovinarti la vita con quella merda?”
Ecco, avevo finito per urlargli contro, anche se mi ero ripromesso di non farlo. Non era il modo più delicato per dimostrargli la mia preoccupazione, ma ero fatto così e sperai che Ives lo capisse.
“Non mi puoi impedire di farmi, lo sai? Se non mi farai portare una dose da tuo fratello entro stasera, io cercherò un altro spacciatore e mi farò comunque, ma non so quanto ti convenga. Visto che sei così tanto preoccupato, dovresti lasciarmi comprare da Davi, dato che sei certo che abbia roba di qualità e che non mi farà male” replicò cocciutamente, incrociando le braccia al petto.
“Cos’è, una minaccia?” ringhiai.
“No, un dato di fatto. Del resto non sei tu quello che detesta le imposizioni altrui? Non sei tu che sostieni sempre che ognuno è libero di badare a se stesso e pensare con la sua testa?”
Strinsi i pugni fino a farmi sbiancare le nocche. Era vero, non potevo impedirgli di fare qualcosa, sarebbe stato davvero ipocrita da parte mia. Ero il primo che si innervosiva quando qualcuno cercava di imporgli o impedirgli qualcosa, mi ritenevo abbastanza grande da poter ragionare con la mia testa e per Ives doveva essere lo stesso.
Per quanto fossi in ansia all’idea che prendesse l’ero, non era mio compito prendere delle decisioni al posto suo; io, al contrario, non avrei mai sopportato che lui si frapponesse tra me e qualcosa che volevo.
“Chiamerai Davi?” mormorò Ives, sbattendo un paio di volte le palpebre con aria supplichevole.
La mia mano sinistra era ancora posata sulla sua spalla e in quel momento avvertii il suo corpo tremare appena sotto la mia stretta, avevo l’impressione che si sarebbe sgretolato da un momento all’altro, che sarebbe crollato lì davanti ai miei occhi.
Era così tanto fragile…
Annuii appena, per niente convinto. “Hai vinto. Lo chiamerò ed entro stasera avrai la tua dose” affermai in tono piatto, mentre l’angoscia mi strizzava il cuore nel petto.


Quanto cazzo sono stato stupido quella volta? Come ho potuto cedere in quel modo e dare retta alle richieste di Ives in un momento in cui non era affatto lucido?
Se solo avessi cercato di dissuaderlo, se solo l’avessi tenuto lontano da quei pensieri così sbagliati… se solo quella sera avessi opposto resistenza, solo per una sera, Ives sarebbe riuscito a superare quell’attimo di profonda angoscia e avrebbe lasciato perdere l’eroina.
Lui era fatto così: ogni evento lo colpiva come un pugno in pieno volto e lo buttava giù con forza, ma riusciva anche a rialzarsi con incredibile facilità. Se solo non gli avessi praticamente ficcato un ago in vena, forse ora sarebbe ancora qui.
È tutta colpa mia. Mi ero ripromesso di proteggerlo e di non abbandonarlo mai, lui che era l’unico a capirmi sempre senza bisogno di parlare, lui che era il mio fratellino troppo buono e ingenuo.
Invece sono qui a trascorrere il suo ventiduesimo compleanno in un cimitero del cazzo. Tutto per colpa di quel piccolo dettaglio, tutto perché sono un maledetto figlio di puttana che ha trascinato sulla cattiva strada un ragazzo incapace di difendersi.
Mi alzo, scaravento la custodia della chitarra sulla tomba di Ives – non so nemmeno se si possa fare, magari è blasfemo, ma me ne fotto – e le do le spalle. Che diritto ho di stare qui e piangermi addosso? Che diritto ho di essere triste dopo aver spinto il mio migliore amico al suicidio?
Gli occhi mi si appannano di rabbia e disperazione, forse vorrei piangere ma non lo so neanche io. Non piango mai, l’ultima volta avevo quattro anni.
Prendo a calci un sasso, lo tiro lontano e non mi preoccupo di dove va a schiantarsi. Forse meriterei che tornasse indietro e colpisse me, sarebbe una degna punizione.
Col fiato corto, mi sorreggo per un istante al fusto del decadente albero a pochi passi da me; una folata di vento gelido mi sferza il viso, ma non può farmi niente, il mio cuore è congelato già da troppo tempo.
In preda alla rabbia, sferro un pugno al tronco dell’albero, talmente forte che ho l’impressione si possa spezzare. Qualche scheggia mi si conficca all’altezza delle nocche, un rivolo di sangue mi scivola tra le dita, ma io non sento niente: il dolore che provo dentro è più forte.
Per fortuna il cimitero è deserto, se qualcuno mi vedesse mi prenderebbe per pazzo. Ah, ma che me ne fotte in fondo? Che pensino quello che vogliono, ho già i miei sensi di colpa con cui fare i conti.
Finalmente ho il coraggio di lanciare una fugace occhiata alle due lapidi alle mie spalle e il mio sguardo viene catturato da quello azzurro di Ives, così luminoso, così puro, così vivo. Quel color cielo è la cosa che spicca maggiormente in quella foto sbiadita, è così tanto brillante da voler sfidare la morte.
Quando sono arrivato qui mi sono ripromesso di non guardare quella dannata foto, di non osservare quel viso troppo giovane per stare accanto a un epitaffio; non voglio ricordarlo in una triste cornicetta arrotondata, lo voglio ricordare allegro e pieno di vita così come l’ho conosciuto.


“Tutto sta nel darsi la giusta spinta, prendere la giusta velocità e stare in equilibrio” affermai, picchiettando con la punta della scarpa sul bordo del mio skate.
Ives mi osservò spaesato e abbassò lo sguardo sulla tavola variopinta; non sembrava tanto convinto.
Trattenni un sorriso. L’avevo conosciuto giusto qualche minuto prima e mi aveva da subito dato l’impressione di essere un bambino troppo innocente per la vita di strada, per quel quartiere dove la crudeltà non faceva sconti a nessuno e pure i dodicenni andavano in giro armati. Forse era abbastanza debole e potevo approfittarmene, ma prima dovevo inquadrarlo meglio.
“Te la fai sotto, eh?” lo punzecchiai, dandogli di gomito.
Lui sobbalzò e per un istante temetti di avergli fatto male – era uno scricciolo, non dimostrava per niente i suoi otto anni – poi sollevò il capo e mi fissò offeso. “Non ho paura, è solo che… adesso ti faccio vedere io!” dichiarò solennemente, poggiando con decisione il piede sinistro sullo skateboard.
Non riuscii a trattenere una risatina: non era assolutamente credibile anche se cercava di fare il duro, era troppo tenero. Forse sperava di riuscire a entrare nelle mie grazie e farmi una buona impressione; del resto gli si erano illuminati gli occhi quando gli avevo rivolto la parola. Era come se morisse dalla voglia che qualcuno si accorgesse di lui.
Indietreggiai di un passo e lo scrutai, in attesa che si desse lo slancio sullo skate. “Senti, evita di spezzarti l’osso del collo, non voglio avere nessuno sulla coscienza a nove anni. E vedi di non rovinarmi lo skate, ci ho messo settimane a verniciarlo.”
Ives sgranò gli occhi e si soffermò a guardare il drago rosso, giallo e nero sulla tavola, sorridendo ammirato. “Hai fatto tu questi disegni?”
Incrociai le braccia al petto. “Ti sembra così tanto strano?”
“Sei bravissimo, io non so disegnare per niente!” esclamò e i suoi grandi occhi azzurri brillarono.
Piegai appena la testa di lato: quel marmocchio si entusiasmava per ogni piccola fesseria, era incredibile. C’era qualcosa in lui che mi piaceva e che non avevo mai visto in nessun altro bambino, forse perché ero cresciuto in mezzo ai criminali ed ero sempre stato addestrato a essere duro e diffidente.
“Stai perdendo tempo, marmocchio. Ancora non sei salito sullo skate, ho ragione a dire che te la fai sotto!” commentai con uno sbadiglio.
Ives aggrottò le sopracciglia – non voleva essere noioso ai miei occhi – e si voltò, puntando lo sguardo dritto davanti a sé. “Ti ho detto che non ho paura!”
“È divertente prenderti per il culo.”
Fu l’ultima cosa che feci in tempo a dire, prima che Ives si desse lo slancio con il piede destro che stava ancora a terra. Lo vidi agitare le braccia in aria per alcuni istanti nel tentativo di trovare un equilibrio e fece appena in tempo a posare la suola destra sulla tavola, prima che lo skate gli sfuggisse da sotto le scarpe; venne sbalzato all’indietro e cadde su un fianco, sollevando una nuvola di polvere.
Prevedibile che accadesse. Per fortuna non gliel’avevo fatto provare sul cemento o per strada, si sarebbe potuto fare male sul serio.
Mi avvicinai lentamente a lui ridacchiando e mi accovacciai al suo fianco con un ghigno divertito. “Tutto bene?”
Lui si mise subito seduto e scacciò via un po’ di polvere dalla sua maglietta con le mani tremanti per lo spavento; era palesemente imbarazzato, le guance gli erano andate in fiamme e non si azzardava ad alzare lo sguardo su di me. Prese un respiro profondo e si rimise in piedi di tutta fretta, andando a recuperare il mio skate che si era allontanato di qualche metro nel grande piazzale.
Aggrottai le sopracciglia e lo seguii, per poi dargli una pacca sul braccio e attirare la sua attenzione. “Ti ho chiesto se va tutto bene.”
“Sì.” Si chinò a raccogliere la tavola e la esaminò per capire se la vernice si fosse rovinata in qualche punto.
Era appena caduto, gli si erano sbucciate le ginocchia e i palmi delle mani, e lui si preoccupava del mio skateboard. Quell’Ives aveva dell’incredibile.
Lo aggirai e mi piazzai davanti a lui, gli strappai l’oggetto dalle mani e lo scaraventai a terra, allontanandolo col piede. “Guardami.”
“Uff, cosa vuoi?” borbottò, mettendo su il broncio. Non voleva alzare la testa e le ciocche lunghe e corvine gli coprivano gli occhi.
“Cazzo, ti ho detto: guardami” ripetei, indurendo il tono della voce.
Forse stavo esagerando a parlargli in quel modo, Ives sembrava turbato dalle parole troppo forti, ma per me erano sempre state normali.
Allora il ragazzino alzò finalmente lo sguardo e nei suoi occhi celesti, prima così allegri e luminosi, trovai un mare di imbarazzo.
Quegli occhi erano lo specchio della sua anima. Proprio come si leggeva in alcuni libri.
“Ho fatto una bruttissima figura” mormorò infine, arrossendo nuovamente.
Dio, ma come avevo fatto a pensare di approfittarmi di quel bambino? Era talmente dolce che mi sentivo male alla sola idea, al massimo potevo fare in modo che non si rompesse a ogni minimo urto.
Scoppiai a ridere e gli diedi una leggera e amichevole spinta. “Ah, ma vaffanculo, pensavi davvero di riuscirci al primo colpo? Era ovvio che saresti caduto! Ma ci riproveremo, ti insegnerò io. Del resto sono stato io a proportelo, no?”
Ives sgranò gli occhi incredulo. “Mi stai dicendo… che mi presterai di nuovo il tuo skate?”
“Sì. Ma non romperti l’osso del collo.”
Lui si aprì in un enorme sorriso e i suoi occhi tornarono a brillare più del cielo azzurro sulle nostre teste. Parlavano sempre al posto suo, quegli occhi grandi da bambino.
“Grazie Ethan, grazie! Sei un amico!” cinguettò.
Per un attimo credetti che mi avrebbe addirittura abbracciato da quanto era contento e sperai che non lo facesse, non mi piacevano i gesti affettuosi.


Mi accascio nuovamente per terra e per la prima volta sfioro con le dita quella pietra fredda e anonima. Non posso credere che questo sia tutto ciò che rimane di Ives.
Meu irmãozinho” mi lascio sfuggire in portoghese, la mia lingua d’origine. Quando parlavo con i miei fratelli mi piaceva definirlo così, come il mio fratellino, anche se Ives non l’ha mai saputo. Ma non esiste modo migliore per definirlo: io stravedevo per lui, avrei fatto qualsiasi cosa per lui, mi sarei anche fatto ammazzare se fosse stato necessario. Gli ho insegnato tutto ciò che sapevo, l’ho tenuto lontano dalle dinamiche degli spacciatori e della malavita, gli ho regalato il suo primo tatuaggio, l’ho ospitato quando si è ritrovato senza una casa e mi sono preso cura di lui quando si è ammalato.
Era il minimo che potessi fare per lui, dato che è successo tutto a causa mia. E anche questo non è bastato, non c’è sacrificio sufficiente che valga la vita di una persona.
E adesso sento un macigno che mi preme sul petto e agli angoli degli occhi, qualcosa che mi annienta e mi fa sentire tutto tranne che un uomo.
Come posso esprimere tutto questo dolore che mi arde dentro?
All’improvviso mi ricordo della chitarra che mi sono portato appresso e allungo una mano per afferrare la custodia. La musica è l’unica via d’uscita per le mie emozioni e l’unica porta d’ingresso che gli altri hanno per scorgere il mio cuore; forse è per questo che ho afferrato la mia chitarra subito prima di uscire, senza nemmeno rifletterci su.
Anche se aprire la zip della custodia mi riporta alla mente tutte le volte che l’ho fatto in sala prove insieme ad Ives e gli altri ragazzi della band. Quanti progetti avevamo in mente, quante sbilenche melodie abbiamo composto, quanti palchi abbiamo calcato e quanti altri abbiamo sognato di fare nostri.
Anche se accordare la chitarra mi ricorda tutte le volte che l’ho fatto per Ives quando stava male. Non si era mai stancato di sentirmi suonare, mai, nemmeno nel momento in cui si era stancato di vivere.
Quando il primo accordo si sprigiona dalle mie dita, tutto tace attorno a me; anche il vento si è fermato, come se volesse lasciare a me la scena e ascoltarmi in silenzio.


Feci il mio ingresso nella zona giorno e mi lasciai sfuggire un pesante sospiro.
Ives era sempre lì, sul mio divano, coperto da un lurido piumone e con gli occhi socchiusi; attorno a lui era tutto un cimitero di siringhe usate, pacchetti vuoti e accartocciati, lacci emostatici e fazzoletti sporchi di sangue. I suoi occhi celesti erano diventati di un blu sporco e spento, la pelle era così pallida e sottile che sembrava sul punto di rompersi da un momento all’altro, pareva quasi che le ossa troppo sporgenti la potessero bucare.
Ogni volta che posavo lo sguardo sul mio amico, mi sentivo sempre più disgustato e mi chiedevo se tutto ciò stesse accadendo davvero. Ai suoi occhi sembravo sempre così sicuro e impassibile, come se avessi la situazione sotto controllo e ospitarlo a casa mia non mi facesse male, ma la verità era che non sapevo come lottare contro quel mostro che era l’AIDS e che si stava portando via Ives.
Contro l’eroina forse avrei potuto fare qualcosa, se solo lui avesse voluto. L’avrei potuto portare in rehab, chiudere tutti i ponti con gli spacciatori, prenderlo a schiaffi finché non si fosse convinto che era il caso di darci un taglio.
Ma cos’ero io contro l’AIDS? Cosa potevo fare? Assolutamente niente, ero inutile e questa cosa mi mandava in bestia.
Ogni giorno entravo in casa col timore di trovarlo morto. Si faceva in continuazione nella speranza di andare in overdose e smettere di soffrire, tanto sapeva che la malattia l’avrebbe ucciso di sicuro e preferiva morire prima di stare troppo male.
Ives si accorse della mia presenza, ma non mi salutò e io feci altrettanto. Funzionava sempre così tra noi.
Mi avviai verso l’angolo in cui tenevo le mie chitarre – ne avevo una classica e due elettriche – per riporre la custodia che avevo in spalla, ma all’improvviso un oggetto catturò la mia attenzione: era il basso di Ives, abbandonato con malagrazia accanto alle mie chitarre e coperto da una patina di polvere. Da quanto tempo non lo prendeva tra le braccia, non lo accordava e non lo suonava? Da quanto tempo quella scintilla si era spenta in lui?
Strinsi i pugni e mi morsi la lingua per non imprecare. Ero così nervoso che avrei potuto prendere a pugni quel fottuto basso e anche il suo proprietario.
Poi mi resi conto che esisteva un altro modo per sfogarmi, un modo molto più sano.
Afferrai nuovamente la custodia della chitarra classica, presi posto sul divano accanto ad Ives e aprii la custodia in silenzio.
Il mio amico aprì finalmente gli occhi e osservò i miei movimenti con sguardo appannato e affaticato.
Nessuno dei due fiatò, non ne avevamo bisogno.
Semplicemente imbracciai il mio strumento e cominciai a suonare. Cover di canzoni famose, brani che avevamo composto, assoli inventati sul momento: tutto ciò che mi veniva in mente, tutti gli accordi e le note che le mie dita inseguivano. Riversai completamente su quelle sei corde tutto il dolore, la frustrazione, la rabbia e la sofferenza che provavo; suonai col cuore, con l’anima, come ero abituato a fare.
Quando sollevai lo sguardo e incontrai gli occhi di Ives, il mio cuore perse un battito.
Per la prima volta dopo settimane, forse addirittura mesi, una fioca luce si era accesa nelle sue iridi, rischiarandole un po’.
E stava piangendo. Qualche lacrima era sfuggita al suo controllo e ora gli rigava il viso diafano.
“Ethan?” mormorò.
“Dimmi.”
“Ti prego, continua a suonare.”
“Lo sto già facendo.”
Ives cercò di raddrizzarsi il più possibile sul divano e fece scorrere per qualche istante un polpastrello sul manico della mia chitarra. “Ma lo farai altre volte, vero? Io adoro sentirti suonare.”
Era vero, me l’aveva sempre detto.
Quindi quello lo rendeva felice? Bastava sentire la mia musica per farlo stare un po’ meglio?
“Suonerò tutte le volte che vorrai” gli promisi.
Feci scivolare nuovamente la mano sul manico della chitarra, pronto a proseguire quel concerto improvvisato solo per lui.
Ives aveva ancora l’indice premuto sul legno; per un istante le nostre dita si sfiorarono e mi si strinse il cuore.
Le sue mani erano così tremendamente fredde.
Come se fossero già prive di vita.


Suono. Fino a farmi sanguinare le dita e il cuore. Fino a far rivoltare le anime sepolte in questo cimitero, se necessario.
Suono e suono ancora, tutte le canzoni degli Storm It Down – io e Ives le abbiamo composte insieme, era la nostra band – e stupidamente mi domando se questo potrebbe farlo stare meglio anche adesso.
Anche se tanto non serve a un cazzo, di Ives non è rimasto più niente. È morto, se n’è andato per sempre, la sua luce si è spenta e io non lo rivedrò mai più.
E io sono soltanto un pezzo di merda che suona davanti a una serie di pietre inanimate, senza averne nessun diritto.
Non riesco a piangere, ma la mia chitarra piange per me e il vento porterà via tutte le lacrime.
Non sono riuscito a proteggere il mio fratellino, l’unica persona che mi abbia veramente amato in maniera incondizionata e che si è fidato di me. Gli avevo promesso che sarei stato la sua casa, la sua famiglia, la sua roccia e invece sono stato il suo veleno.
Se solo quel giorno non avessi chiamato Davi per chiedergli una dose, se solo il suo subordinato non l’avesse consegnata ad Ives…
Se solo il mio amico non si fosse bucato la pelle troppo delicata per la prima volta, non sarebbe mai scivolato nel tunnel dell’eroina.
E se solo non fosse diventato un fottuto eroinomane, non si sarebbe preso l’AIDS.
Dovevo proteggerlo.
E ora invece non riesco a proteggere nemmeno me stesso da questo peso che mi porterò appresso per il resto dei miei giorni.
È forse una lacrima, quella gocciolina rovente che corre sulla mia guancia sinistra?
Di qualsiasi cosa si tratti, la brezza di aprile la asciugherà.
Smetto di suonare, chiudo gli occhi e poso la guancia su quella stupida pietra grigia e fredda. “Buon compleanno, fratello.”






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Sto piangendo dalla gioia perché sono riuscita FINALMENTE a scrivere questa storia che mi ronzava in testa da un po’ e perché sono riuscita a consegnarla per il contest di Vintage! Blocco dello scrittore, non l’avrai vinta! u.u
Che dire? È la primissima storia che scrivo dal punto di vista di Ethan ma, statene pur certi, non l’ultima. Non so se essere soddisfatta o meno del mio lavoro (forse proprio per via del blocco), ma spero di essere riuscita a rendere al meglio il carattere di Ethan. È un personaggio molto molto complicato e non vedo l’ora di rendervi partecipi del suo passato!
Non mi dilungo troppo (anche perché adesso parte un’altra corsa contro il tempo, in quanto c’è un altro contest che scade oggi e vorrei tanto provare a consegnare anche quella storia), ma lascio qualche piccola annotazione per la giudice e per coloro che non conoscono la serie:
- Ives Mancini ha alle spalle un passato difficile. Tra le altre disgrazie che gli sono capitate, è il frutto di uno stupro ai danni di sua madre (Veronica ‘Niki’ Mancini), che però non ha voluto abortire; tuttavia, una volta che suo figlio è nato, lei non ha potuto sopportare di vedere tutti i giorni il frutto della violenza subita e si è suicidata quando Ives aveva solo una settimana. Da allora è stata la sorella maggiore, Maura Mancini (la famosa zia Maura) a prendersi cura di lui e a crescerlo come se fosse un figlio suo.
- Ives ha conosciuto Ethan per strada, in quanto i due vivono in un quartiere allo sbando dove i bambini vanno in giro senza particolari regole e senza controllo da parte della famiglia. Ethan ha un fratello maggiore (Davi) che è un importante spacciatore e tramite questo traffico riesce a mantenere i suoi fratelli (ma di questo se ne parlerà meglio in un’altra storia); ecco perché può pagare l’affitto dell’appartamento di Ethan. Davi procura anche la cocaina ai ragazzi – e successivamente ad Ives l’eroina.
- Tra le altre cose che condividono, Ives e Ethan hanno messo su una band, gli Storm It Down. Quando accenno al fatto che apriranno per i Guns N’ Roses, accenno al concerto che Ives e la sua band hanno tenuto nel novembre dell’85 secondo la mia story line, di cui ho parlato in un’altra occasione. All’epoca anche i Guns erano un gruppo emergente.
- L’8 aprile (come cita anche l’epitaffio) è la data di nascita di Ives; nel 1990 avrebbe compiuto ventidue anni.
È tutto! Spero di essere riuscita a spiegare ogni altra cosa durante la narrazione e che le dinamiche siano chiare per tutti ^^
Grazie a chiunque sia arrivato fin qui e chi deciderà di lasciare un commento! :3
Alla prossima!!! ♥

   
 
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