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Autore: orphan stories    09/05/2020    1 recensioni
Tu e lui, la vostra relazione dovrebbe essere tutto un ricevere senza mai dare, come uno sporco segreto adolescenziale. Ma eccolo qui, ancora orgoglioso abbastanza da tenere a voi.
Perché in realtà, quando continui a incontrare una versione futura di te stesso, quello che rimane è l’avarizia.
{ Ten/Eleven | One shot | 2703 parole | Traduzione di Hiraeth }
Genere: Angst, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash, Crack Pairing | Personaggi: Doctor - 10, Doctor - 11
Note: Traduzione | Avvertimenti: nessuno
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Note della traduttrice (Hiraeth): in realtà ho tradotto questa storia parecchio tempo (anni) fa, ma non sono mai riuscita a mettermi in contatto con l’autrice per chiederle il permesso… Nel caso mi dovesse rispondere in maniera negativa, provvederò a rimuovere questa fanfiction.
 Il link alla versione originale è questo. La fic contiene riferimenti alle ship Ten/Rose e Eleven/Rory, ma in misura lieve.
 Buona lettura!










and so we beat on




1.

Ha addosso un completo in tweed e un fez e l’odore tagliente di Venezia quando ti imbatti in lui per la trentaduesima volta.

 Tu ti poggi allo schienale della sedia, aspettando che il Vortice del Tempo soffi via le ragnatele dalla sua memoria e che la sua faccia si illumini come un albero di Natale, i soliti “Dove sei nella tua linea temporale?” (Donna è fuori con un’amica che entro il 2009 sarà morta e sepolta) e “Da te o da me?” (entrambi: non sei schizzinoso). In tutto ciò, passano quindici secondi di bocche spalancate e parole balbettate: nessun segno di riconoscimento.

 Posando il tuo Earl Grey – il suo preferito, un pizzico di zucchero e di latte –, sorridi allegramente. «È la tua prima volta?»

 «È già successo?» risponde. Esitante, prende posto sulla sedia dal lato opposto del tavolo, le labbra strette in una sottile linea di diffidenza. Spingi il tè nella sua direzione. Lui lo prende, tremante come un verginello.

 «Uhm. Non preoccuparti dello spazio-tempo, se la caverà». Beve un sorso minuscolo, la nappa del fez che gli sfiora un sopracciglio inesistente. Una risata ti scuote il petto, ma lui è un cerbiatto spaventato e vulnerabile: al minimo rumore improvviso scapperà verso il suo TARDIS strillando. «Dopo ogni nostro incontro, il Vortice del Tempo ci cancella i ricordi e ce li restituisce quando incappiamo nuovamente nell’altro. Brillante, vero?»

 I suoi occhi comicamente sgranati si illuminano. È curioso il modo con cui si allargano, completamente aperti al mondo che per loro è ironicamente nuovo. Allora deve avere già incontrato Rory. Ah, Amy e i suoi ragazzi: questa storia l’hai già sentita, una favola sputata tra denti umidi, luccicanti e freddi. Come cadono in basso i grandi quando ti domanda: «Cosa ne sai tu?»

 «Non molto» menti con facilità, e la cosa ti dovrebbe terrorizzare. Le regole, che tu tratti con negligenza, ti marchiano tuttora le mani mentre posi i polsi sul tavolo. Lui beve un altro sorso, veloce e insapore. L’ultima volta che vi siete incrociati, è rimasto seduto immobile per un’ora, limitandosi a cullare la tazzina, le dita tremule finché non gli hai strappato dalla stretta rigida il tè freddo come la roccia. «E adesso che facciamo?»

 È come recitare un copione: questa è la tua battuta d’entrata, il tuo segnale, la tua ultima ripresa mentre mormori: «Tutto quello che vogliamo».

 Il filmato perduto marcisce in un luogo irreale, collocato tra la comprensione che gli si spande in viso e i lenti movimenti del tuo corpo che si avvicina al suo.




2.

La settima volta per te, la novantasettesima per lui: Rose non c’è più.

 Nessuno di voi due apre bocca per ore. Lui siede accanto a te, le mani agitate come durante la tua prima volta. I suoi gesti ti ricordano quelli di un colibrì: in lui i battiti martellanti dei cuori e i gesti fuggevoli vibrano come il nettare. Rose alla sua vista avrebbe ridacchiato.

 Quel pensiero ti colpisce e lui, disperato, ti abbraccia, fermo per la prima volta da diverso tempo nonostante il bagliore dorato che trasuda dai suoi pori.

 Non parli più a quest’uomo dagli occhi scuri.




3.

«Mi chiamo Smith, John Smith». Un dandy ti rivolge un largo sorriso, vestito con un improbabile cappotto color malva. Provi l’impulso di ruotare gli occhi e spingerlo via perché Rose è sparita e non hai tempo da dedicare a un bizzarro estraneo dal nome noioso. Tuttavia, prima che tu possa guizzare via, lui posa le sue grandi mani sulle tue nuove spalle magre (davvero sono così sottili? Lo chiederai a Rose più tardi) e coglie l’espressione distaccata che hai in volto.

 «Per te è la prima volta, eh?» fiata, pieno di sé. L’istinto di sollevare lo sguardo al cielo si è tramutato nel desiderio di scrollarti di dosso questo soggetto. Le tue dita prudono all’idea di ficcare un po’ di sale in zucca a questo tizio esile, quando d’un tratto le sue labbra sono sulle tue e ti baciano con foga. A dispetto dei pensieri che hai avuto solo un attimo fa, ricambi il bacio.

 E poi se ne va, la sua sagoma vispa che sfoca nel bianco desolato dell’ospedale sulla Nuova Terra. La sua voce vivace echeggia nelle tue orecchie per ore.




4.

Frizione, hai bisogno di frizione, merda, oh, Dio come fa a farlo, di più, cazzo, sì, sì, oh, Dio, ti prego, sì…

 Tu non urli, ma lui sì, e ti crolla addosso come un arcangelo vendicatore catturato dalle pennellate di Michelangelo. Riflettendoci con razionalità, il tuo respiro non dovrebbe essere così affannato mentre fissi sfacciatamente il suo petto arrossato e le sue labbra dolenti; ma lo è, e non riesci a costringerti a calmarti.

 «So a cosa stai pensando» borbotta nel cuscino. Ti sdrai accanto a lui, le punte delle dita che disegnano lungo la galassia della sua colonna vertebrale i cerchi concentrici di nomi abbandonati da tempo. Le sue spalle rabbrividiscono quando ne tracci alcuni, rubando degli altri secondi insensati prima di proseguire dicendo: «Non c’era altra scelta».

 Canticchi dolcemente: non vuoi considerare la possibilità che il tempo stia piangendo sulla tua (sua) porta. Invece ti chini e premi un reverente elogio funebre sul fondo della sua schiena. Si tratta di una delle ultime volte in cui tu, costruito di completi a righe e di tempeste impetuose, baci lui, un uomo di cartapesta che difende puerilmente i suoi eleganti papillon.




5.

Martha incrocia le braccia. «Quindi, cosa, anche tu sei il Dottore?»

 Lui le offre un largo sorriso e la guarda con un’aria malinconica, e in questa reazione è assente il tipico brio con cui di norma avrebbe esclamato: «Oh, Martha Jones, mi sei mancata!»

 Veloce come un pitone, la travolge, stringendola forte mentre bofonchia dei mezzi complimenti e delle semiscuse nel suo orecchio. Lei non ribatte, ma sceglie di scrutarti con una selvaggia confusione impressa in faccia, dando delle pacche gentili alla schiena del bambinone entusiasta che l’abbraccia. Anche tu non dici niente; dev’essere stata una brutta giornata per lui.

 Più tardi, mentre Martha chiacchiera pigramente con lui, ti imbatti in un libro gettato via e lasciato sulla sua console. Il TARDIS vuole che tu sappia di Melody Malone. Ella piange per il suo Dottore.

 Ti allontani dai suoi feroci avvertimenti. Ne verrai a sapere con calma.

New York sembra splendida in questo periodo dell’anno.




6.

Intorno alla cinquantesima volta insieme, gli chiedi con quanti compagni è andato a letto. Ti occorre solo lusingarlo leggermente e minacciarlo che le prossime trenta volte non vedrà il tuo pene per farlo cantare. Non compi nemmeno un tentativo di imprimere queste scappatelle nella tua memoria, anche se la curva della sua lingua e i movimenti espressivi che usa per dipingere ogni sua leccata e ogni sua spinta ti fanno male per anni come un arto fantasma.




7.

Per la sua seconda volta, prenoti una disgustosa stanzetta d’hotel a Cardiff. Jack non c’è più, così come il resto della Torchwood; un centinaio d’anni fa o giù di lì, respiravano un’aria somigliante alla vostra e pestavano i loro piedi su un cemento analogo al vostro, e vivevano vite completamente diverse dalla tua o la sua.

 Le lenzuola odorano di sudore e del ricordo inebriante del sesso. A nessuno di voi due importa. Mentre ti cavalca e ti tira i capelli con una mano, ansima: «Rory. Oh, Dio, Rory. Rory è scomparso. Rory…»

 «Io non sono Rory» ringhi. Lui trema e non sai se freme di piacere o meno.




8.

Il TARDIS odia questa data. Strilla quando atterra, mille registrazioni cataclismatiche e voci che si moltiplicano attorno al suo nucleo tremante: arrabbiata, astiosa, spaventata. Rimarrai bloccato qui per ventiquattro ore intere, i piedi congelati al cemento mentre la gente comincia a urlare.

 L’hai già visto prima d’ora, ovviamente, nei filmati e nelle autobiografie e attraverso gli occhi di una versione di te stesso più giovane. Ancora oggi sussulti alla visione del primo aereo che si scontra contro il World Trade Centre e della città che si dispiega intorno a te, un fragile cuore a orologeria in frantumi. I detriti si sollevano come una nuvola di polvere, infiltrandosi nel tessuto di questa gente minuscola, quasi insignificante (se paragonata al resto dell’universo).

 Mentre la Torre Sud crolla a terra, una mano circonda rapidamente la tua: l’ultimo urrà. «Corri».

 Nella tua testa rimbomba un martellio causato dal lamento delle sirene e dalla soffocante paura dei newyorkesi che raspano sotto le macerie e dal tocco morbido e indiscreto che ti inonda di ricordi. Ma ovvio che lui è qui. Volge un’occhiata attentamente ponderata verso di te, e in un istante è consapevole del motivo per cui sta trascinando il tuo freddo corpo tra la folla pulsante. «Sei venuto» borbotti con labbra intorpidite. Lui distoglie lo sguardo.

 «Certo che sono venuto» ribatte. La massa di vittime ondeggia intorno a voi, il sangue che arde caldo sotto il sole mattutino. «Martha…»

 «Martha se n’è andata» rispondi secco, stringendo forte la sua mano. Finalmente giungete a una caffetteria abbandonata, dove vi potete riposare: una tiepida tazza di tè gocciola sulle pagine di un quotidiano dimenticato da qualcuno, una macchia d’inchiostro che si spande. I volti dei Presidenti sfumano, un misto di grigio e di nero e di promesse malaccorte. Non è una novità per te, ovviamente, l’hai visto nelle parole proferite e nelle menzogne future e nei suoi (tuoi) occhi più anziani.

 Si siede lentamente, mille anni trascorsi a correre che cominciano a raggiungerlo dopo averlo inseguito tanto a lungo. «Perché sei qui?» chiede gentilmente, fissandosi le mani. Ti togli la giacca di dosso e cadi accanto a lui, a nudo.

 «È stato un incidente. Intendevo andare…»

 «…Nel 2012, lo so» sbuffa, brutalmente cinico. Ti domandi distrattamente cos’è avvenuto che lo fa reagire con una cadenza speranzosa meno evidente rispetto al solito. Si corregge, non meno severo, «Perché sei al ground zero

 Fuori dalla vostra bolla di calma acre, grida l’ennesima persona. «Sai bene perché. Ci sei già stato».

 «Non me lo ricordo bene come te» dice con un tono piatto.

 Ti poggi allo schienale della sedia sporca con un’innegabile voglia di ridere. Oh, è caduto così in basso: è un uomo logoro e ridicolo che non riesce più nemmeno a ricordare un motivo per cui aiutare qualcuno. L’ironia ti tira uno schiaffo in faccia. «Torna da Clara» ribatti, «vattene di qui».

 Apre la bocca, in viso un’espressione più turbolenta dei fuochi che infuriano oltre i suoi occhi. L’aria è statica: è una caduta di Troia odierna, una Pearl Harbour in procinto di dichiarare guerra, un uomo immensamente potente seduto tra i bambini quando riceve la notizia dello sgretolamento della sua nazione. Tu e lui siete accovacciati tra le macerie di una civiltà a pezzi, questo punto fisso nel tempo che fiata in modo invitante sui vostri colli. Lui può scappare: il suo TARDIS può sparire quando vuole. Tu ti protendi nella sua direzione e non lo baci: il fugace sfioramento delle vostre labbra può essere a malapena definito un contatto. I suoi occhi restano aperti, implorano perché non hanno un obiettivo da seguire, e hai già visto qualcosa di simile prima, ovviamente, nei suoi tocchi ferventi e nelle sue confessioni mormorate e nel rumore dei suoi piedi in fuga che attraversano le murature del tempo.




8.5.

Clara parla a bassa voce con il Dottore che hai rinchiuso dentro, la loro conversazione quieta e confortante come una tazza di Earl Grey. Lui scruta un quadro senza vederlo davvero: questa è una fantasia che non hai mai osato accarezzare, il sogno della luce che svanisce dagli occhi di miliardi di bambini che altro non è che una bandiera simbolica. Dovresti accomiatarti.

«Hai mai fatto sesso con Rory?»

Ormai dovrebbe esserselo ricordato. «Ah, allora è di questo che ti ho parlato di recente». Si ricorda.

«Sì. Sei mai a andato a letto con lui?» Uno sguardo attento ti occhieggia.

«Spoiler».



9.

«Cos’è accaduto?»

 «Lo sai che non te lo posso dire».

 «Zitto. Parlami».

 «Ti stai un po’ contraddicendo».

 «Oh, smettila. Rispondimi, imbecille».

 «Ti sei appena insultato».

 «E tu stai cercando di distrarre te stesso. Non sta funzionando».

 «Saccente».

 «Oh, andiamo, che succede?»

 «In futuro lo capirai».




10.

L’orizzonte di Tokyo brilla più luminoso che mai; il nuovo anno è sempre accolto con dei sorrisi esplosivi e con dei denti che lampeggiano sotto le impetuose luci stroboscopiche. La pirotecnica in tutta la sua eccellenza, commenta una ragazza splendente accanto a te, le tue membra canticchianti grazie all’euforia conferitati dall’anonimato. Sei nell’anno 2047; qui a nessuno importa di te.

 Be’, forse a lui sì.

 Al bar sorseggi un cocktail ad alta gradazione alcolica, anche se sai che sei ben lontano dall’essere ubriaco. Malgrado la mancanza di ebbrezza, quella che provi è una bella sensazione: qualcosa piuttosto che niente. Stasera potresti fare a botte; forse saresti più a tuo agio con un dolore urlante nelle tue nocche, piuttosto che con l’acuta solitudine che geme in un punto tra i tuoi cuori. Sì, a dire la verità, una rissa pare proprio allettante. Le tue ossa cominciano a cantare trepidanti, quando d’un tratto lui scivola accanto a te e ti ordina: «Non farlo».

 A tua discolpa, sussulti minuziosamente solo quando i ricordi iniziano a insinuarsi di nuovo negli angoli più reconditi della tua mente. «È da un po’ che non prendo a pugni nessuno» borbotti. La sua mano si posa sulla tua, fredda al tatto. «Troverò qualcuno che se lo merita. Non vorrei farlo, ma…»

 «Vuoi sentire qualcosa» ti interrompe lui mentre comincia il conto alla rovescia. Cinquantanove secondi a un momento a cui potrai assistere mille volte. La singolarità delle cose che capitano una volta nella vita viene a mancare per te e per la tua piccola cabina blu. «Lo so».

 «Cos’è che non sai?» Dovrebbe essere una domanda risentita, ma la poni con una curiosità dolorosa. Lui cattura la tua attenzione, empaticamente soffocante. Non è così che dovreste essere. Tu e lui, la vostra relazione dovrebbe essere tutto un ricevere senza mai dare, come uno sporco segreto adolescenziale. Ma eccolo qui, ancora orgoglioso abbastanza da tenere a voi. Se ne sono andati via tutti a parte te, e la sua mano placida ti sembra patetica.

 «So a cosa pensi» ammette. Vorresti partecipare al conto alla rovescia e sentire un minimo dell’eccitazione che prova la gente febbrile intorno a voi, eppure – trentatré secondi – lui ti seduce senza successo. In mezzo al chiasso i suoi occhi sono vuoti, congelati in un momento sospeso di comprensione. «Ma non so cosa fare».

 A malapena riesci a udire il suo silenzioso sussurro, data la musica dubstep che infuria. Il suo sguardo sfarfalla, la sua sicurezza crolla a terra sotto l’aroma pepato del sudore e della solitudine. Se si ricorda di questo giorno, allora le sue capacità recitative sono straordinarie; ti avvicini, un’aspra macchia di vodka sul tappeto preferito della realtà, e attiri a te il suo volto stupito.

 Il conto alla rovescia precipita in un rancore incoerente mentre inspiri la compassione spezzata di un pazzo. La sua lingua inciampa nella tua, tagliando dolcemente le pareti volatili dell’isolamento che ti sei autoimposto. Potresti morire così e non trasformarti mai in lui, in pace con te stesso, senza rischiare di cadere nella tana del coniglio che è la sua maldestra violenza. Vorresti solo questo: vorresti solo che lui avesse il tempo di fermarsi, che ti concedesse questo momento, che ti desse il suo sussulto umido e il suo abbraccio terrorizzato…

 Ti lascia andare alla deriva, in bilico sull’orlo del caos assoluto, mordicchiando il tuo labbro inferiore con gli incisivi tremanti. Gemi, venendo ignorato, e l’universo esplode in una prodigiosa luce dorata: i tuoi fuochi d’artificio. Il suo bacio è un’estasi privata; il deciso tocco della sua bocca ti slega dalla gabbia difensiva che hai avuto intorno al tuo petto, e i tuoi cuori tornano a battere, palpitando frastornati dal senso di libertà che hanno appena scoperto.

 «Va’» mormora, il viso ancora imporporato mentre tu fremi. Stringe il tuo cappotto, le dita sepolte nel cimitero della stoffa, e insiste ancora. La tua pelle inorridisce e trema e irradia oro, più luminoso dello spettacolo di luci all’esterno, e

oh.




11.

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